LE MIE MORTI

 

Tutto cominciò da li.

Non era troppo tempo fa, ma era comunque abbastanza.

Fu una semplice visita. Volevo dare una svolta a tutta la mia vita, al mio intero essere. La mia essenza, il mio fisico con i suoi maledetti capelli.

Dio, può sembrare così superfluo, così banale lo so, ma nacque tutto da li.

Un certo dottore, un certo dermatologo specializzato nella cura dei capelli (non avevano ancora una denominazione specifica a quei tempi), mi aprì nuovi orizzonti. Tutto sembrava solare nel suo parlare, luce, colori, una nuova vita dove nessuno aveva mai fallito.

Nessuno, ancora.

Sembrava veramente la svolta. Come mai nessuno ne parlava, mi domandavo.

Mi parlò di una cura, semplice, essenziale, che avrebbe colpito alla base, chimicamente il problema dell’alopecia androgena bloccando la caduta dei capelli. Funzionava nel 99% dei casi e in una percentuale simile i risultati superavano addirittura le aspettative sognate dai pazienti.

Era un sogno. Quello che cercavo, che speravo da anni e adesso era lì, di fronte a me, tutto in un colpo, di fronte a delle foto, spalancato come una porta abbattuta: la visuale quasi mi stordiva.

Solo una piccola controindicazione, ma che colpiva solo l’1,8% dei casi esaminati figurarsi un ragazzo giovane come me, mi disse. Non avrei avuto nessun problema. Nessun problema… nessun…

Non ricordo neanche bene il momento preciso in cui il flashback è cominciato. Ormai è il solito filmino che parte in automatico durante qualsiasi momento della mia vita, qualunque ora del giorno. Io sono li, cammino, bevo, chiacchiero e la pellicola sbiadita del dottore che mi parla col suo computer acceso avanti, i suoi occhiali illuminati dal monitor. È una specie di incubo che mi perseguita, che mi rovina la vita. Mi ha rovinato la vita con la sua futile speranza.

E così non mi resta che uscire e provare a non pensare. Vedere vedo. Vedo ragazze, bellissime ragazze nei loro tacchi a spillo, nei loro stivaletti all’altezza delle ginocchia. Camminano ovunque, la città ne è piena e poi mi domando se anche il resto del mondo è così, se ovunque è come il paradiso.

Non era molto tempo fa, ma sembrava in ogni modo abbastanza.

E la sera, questa, bevo una birra dentro il mio solito locale che non mi soffoca piú adesso dopo il divieto di fumo.

Sono solo lì in piedi al bancone che mi bevo la mia piccola doppio malto, Dago mi parla, ridiamo perché ci vogliamo bene, lui è mio amico. Poi c’è lei con le sue amiche, ma lei non c’è piú, adesso non c’è piú.

Lei mi osserva sorridendo. È un sorriso dolce, di amore e gelosia. Un misto di passati, di passioni fiorite e svanite nei tempi. Adesso mi osserva come può essere osservato un fratello, qualcuno che hai visto troppo e non riconosci piú, perché fisicamente non ha piú una classificazione comune che ti permetta di perseverare nelle tue idee.

Lei è così che mi osserva: perseverante.

Ma lei non è qui, non piú.

Provo dei drink nuovi. Ho voglia di bere, devo sbronzarmi, in fondo che altro potei fare?

Non mi rimane che giocarmi anche il resto.

Non balbetto le solite parole, oggi la mia splendezza mi permette di parlare di cose non mie che mai avrò pensato di pronunciare, uno splendore di altri tempi. Sono quasi nuovo stasera, e il dottore pare lontano adesso, almeno per un attimo. Fammelo godere questo attimo, fottuto dottore.

Vodka e spumante. A quanto pare si tratta di un mix terribile e micidiale.

È inutile tergiversare con le solite inutili bevute da quattro soldi che non hanno nessun senso. Bere per bere è ubriacarsi ed io già barcollo. Il bancone mi tiene in piedi, ancora fermo sulle mie gambe mollicce. E lei mi osserva piena di amore.

Ha un’amica molto carina, si chiama Silvia e sta per sposarsi. Ci sono ragazze che conosci e poi dimentichi nel loro mondo. Forse non le vedrai mai piú, forse le rivedrai dopo anni luce, cambiate nella loro sagoma, nella loro silhouette. Tutto cambia a quanto pare, anche noi, solo che non ce ne rendiamo semplicemente conto.

E così le amiche passano e se ne vanno. Ombre chiaro e scure nella tua vita.

Io la guardo e le sorrido, è simpatica ma c’è lei mi osserva dolce e piena di amore fraterno, l’amica non mi parla piú. Si tratta di giochi della mente, e io li odio.

Giro nel locale. La gente balla, parla, sorseggia bevute usate, non fuma piú. Adesso è proibito, ma la fila per andare fuori e rientrare non fa che aumentare. E lei è lì che mi dice di andare con lei fuori a fumare. Lei che è qui, di fronte ai miei occhi, mi osserva con amore e passione. Compassione. Chissà cosa sono adesso io per lei, e cosa è lei per me. Una silhouette?

Parlando con le nostre sigarette in mano le spiego un pó della mia vita. È lontana milioni di anni luce dalla sua, ormai siamo due estranei che si incontrano spesso nello stesso piano senza salutarsi, il resto è cortesia. Rancore.

Cosa mai potrei darti io, anche volendo, anche stasera, cosa potrei fare io per te? Tu sei qui, io sono qui ma sono una sagoma. Non ho nessuna potenza, sono finito. Come finite sono le sigarette. Facciamo per rientrare nel locale proprio quando il dottore come trasparenza di fronte ai miei occhi appare. Sembra proiettato in una pellicola domopack trasparente ed estremamente fine. Non c’è verso nella mia memoria, lui è sempre con me. Mi parla dei miei problemi, delle sue percentuali statistiche, dove tutto è perfetto, tutto è calcolato secondo attenti studi scientifici. Non mi basta gli dissi, non me ne faccio niente dei suoi studi. La mia vita è diventata un suo esperimento di merda. Ma io ho paura dottore, e lei mi deve aiutare. Come se lui fosse in grado, un dottore privato, una figura morta del sistema che non funziona. Come il mio corpo pieno di pillole maledette.

La cura può vere effetti collaterali. Ma tutto si manifesta solo nell’1,8% dei casi, stia tranquillo, lei è giovane!

La percentuale. Era una piccola percentuale un piccolo numero di fronte ad un cento. Però io rientravo ugualmente nei 1,8%.

Era la mia disgrazia che non mi faceva vivere serenamente i miei sogni, i miei desideri. Come se le pillole mi avessero addormentato quel giorno e dal quel giorno tutto sia finito così, per mia scelta, una stupida scelta.

In ogni caso non si deve preoccupare, mi ripete in continuazione lui, tutto è reversibile. Figuriamoci che non lo fosse.

Ma io non posso. Non voglio. Io. È come una droga, io non riesco a decidermi perché soffro in un qualsiasi caso, con o senza pillole, dove andrei a finire.

 

Ho due morti di fronte.

Una è la morte sana, è il mio normale destino. Non è normale, non lo è, non per me perché non lo accetterò mai e poi mai. Ma è il mio destino più puro, quello che mi era stato prescelto. Ed è così che doveva essere nei progetti divini, diventerò un qualcosa che odierò di piú di quel che posso…

 

Tornati dentro il pub Dago mi dice di voler andare via, che è tardi e che dovrà svegliarsi presto domani, ho dei problemi a casa, devo svegliarmi presto.

Ma io insisto, perché ho bisogno di lui, di un amico con me vicino. Non posso avere altro adesso.

Prendo una birra, gliela offro e lui beve. Mi fa compagnia, poi ci sono le nostre amiche e forse è per quello che rimane.

Rimane fino alla fine, fino alla chiusura del locale. Saranno solo le tre e qualcosa. Ed io non ho ancora voglia di andare a casa. Semplicemente non ne ho voglia.

Sono stufo di questa vita, entrare uscire poi rientrare. Nelle case la vita è così rilassante ma delle volte soffoca, come se le pareti si gonfiassero a dismisura, come se fossero di gomma e ti strizzassero sotto i loro pesi. Stasera è così, sento che la casa mi aspetta, mi vuole uccidere, non posso ancora tornare finché non si rilasserà.

In strada, fuori del locale, la gente chiacchiera, chi fuma una sigaretta, chi lancia gli ultimi baccagli. È tutto un inutile farfugliare. Ma gambe, braccia e piedi sono tutti li fermi e traballanti, accanto a dei muri poco illuminati, di notte, a chiacchierare di niente. Io chiacchiero di niente. Cerco solo di restare in compagnia fino alla fine, di crearmi amici fino all’ultimo possibile dei minuti.

Lei è sempre lì che ci saluta, con le sue amiche. Passione, quanta passione vorrei darle. Ma non c’è niente, non c’è assolutamente niente dentro di me.

Alla fine le salutiamo, lei e le sue amiche. Poi se ne vanno e lei non è piú qui.

Così con Dago ci avviamo verso le macchine e non c’è nessuna ragione per non morire adesso.

Proprio fuori della strada del locale incontro altre due mie amiche. Sono due ragazze frikkettone, un pó bruttine, neanche molto simpatiche solitamente. Ma quella sera tutti sono simpatici con me, forse provano pietà per la mia sagoma.

Ridiamo, ci prendiamo in giro e chiacchieriamo del piú e del meno.

La notte è fredda ma stiamo ancora bene risaldati dal nostro alcool. Insieme con loro due c’è un’altra ragazza. È vestita maluccio, come se fosse uscita solo oggi dopo anni passati chiusi in casa.

È totalmente ubriaca. Quasi quanto noi.

Ciao. È rimasta a piedi e le sue amiche ci chiedono di accompagnarla con la macchina, abita persino vicino a casa mia. Nessun problema, le diciamo Dago ed io.

Ci avviamo tutti insieme verso le macchine poi le mie due amiche ci salutano e noi rimaniamo soli con quest’altra ragazza di nome Ania.

Ok andiamo che ti accompagniamo noi. Dago le sta molto vicino, la abbraccia in continuazione e lei ride contenta. Ubriaca e contenta, ride sotto le braccia di Dago. Camminando per strada troviamo una macchinetta per le foto tessere e mi viene in mente che io da anni, devo scattare delle foto tessera. Non ricordo neanche piú per cosa ma so solo che le dovevo fare, le voglio fare, proprio adesso.

Ma non ho nessuno spicciolo, niente monetine, ragazzi aiutatemi voi, avete qualche centesimo, qualcosa. Dalle tasche escono fuori poche monete, non sufficienti per le mie fotografie finché Dago trova una banconota da cinque. Le prendo. Facciamoci una foto tutti e tre, propongo, e in un attimo ci ritroviamo tutti dentro la minuscola macchinetta, uno sopra l’altro, quasi schiacciati nei nostri corpi contorti in una qualche posa. Io in basso, Ania e destra e Dago a sinistra, un poco piú in alto.

Le nostre mani si toccano, le mie con quelle di Ania, quelle di Dago con quelle di lei. Capisco molte cose, lei che si fa vicina ancora di piú dentro quella maledetta macchinetta. La mia reazione è una reazione per una passata abitudine ma non per una necessità. Non ho altri effetti, non richiedo niente, non la richiedo. E la lascio tutta a Dago che la palpa mentre il flash ci acceca per un attimo.

È un istante.

La foto è carina ma il viso di Ania è venuto vistosamente distorto, forse per un qualche errore della macchinetta. Sembra quasi che il suo viso abbia faticato a trovare una giusta esposizione. Nella foto io invece ho il viso piú rilassato e non potrebbe essere altrimenti, non ho piú libido, non ho piú niente che mi assilli continuamente, sono una sagoma impotente.

Continuo ad osservare la foto mentre continuiamo il tragitto verso la macchina.

Io non riesco a staccarci gli occhi, le facce sfuocate sono sempre state la mia passione, sfuocate come il cuore di una persona, come la mente, come l’anima. Un immagine sfuocata è come un riflesso della propria anima, un riflesso di se stessi al mondo intero. Un riflesso che non è possibile notare ad occhio nudo e spesso c’è bisogno di qualcosa, di aiutarci con qualcosa.

Lei, Ania, ha qualcosa, qualcosa che stasera vuole buttare via, quasi dimenticare. Almeno per qualche ora, qualcosa che è un peso profondo e triste che non riesce a non odiare e ad amare allo stesso tempo.

Arriviamo alla macchina e lei e Dago si siedono di dietro nei sedili posteriori. Io non dico niente, mi sono tirato fuori dai giochi da tempo ormai. Cosí accendo ed arrivo fino alla sua macchina, cento o duecento metri davanti. In pratica era accanto alla mia.

Dallo specchietto retrovisore vedo Dago e lei, lei ferma e Dago che la bacia. Lei ferma che si fa baciare.

Quando arriviamo loro scendono, ci salutiamo veloci, i loro corpi fremono, il mio è un pezzo freddo di ghiaccio. Posso solo salutarli e guardarmi nello specchietto retrovisore. Ho gli occhi stanchi ma felici per una serata diversa. Ma diversa da cosa e per chi?

 

La seconda morte è quella artificiale. Quella che ho scelto cambiando il mio destino. Forse alla fine non cambierà niente fuori di me, ma adesso dentro è una morte certa e silenziosa, senza probabilità di successo.

Il mio corpo è una sagoma, è una mia scelta che mi fa pensare di continuo. Una morte scelta per colpa dei tempi, per colpa del mio fisico, per colpa di non so chi, forse del dottore, forse di una speranza, forse solo mia che non saprò mai accettarmi per come e cosa sono e cosa sarò. Io non voglio piú essere come sono e preferisco morire di una morte cosi, pure artificiale che sia.

Questa è la seconda morte, e la osservo nei miei occhi, nei miei capelli attraverso lo specchietto retrovisore tutti i giorni che salgo in macchina, tutti i giorni in cerca di una novità positiva. Proprio come adesso mentre ingrano la prima e me ne torno tra le mie mura assassine…

giaco