LA RISSA (2004)

Avevamo la notte di fronte a noi.
Tutto era nostro, lo sentivamo di diritto.
Eravamo giovani, forti e belli.
Ma anche incazzati con tutto e con tutti senza un vero motivo di fondo.
Belli e incazzati.
Ed ogni notte, ogni nostra notte, cercavamo qualcosa da fare, qualcosa che ci eccitasse ancora e ancora senza mai fermarsi, senza mai perdere tempo.
Scheggiavamo nel buio con la nostra macchina a tutto fuoco, incoscienti e belli.
Dannati.
C’era Greg. Era il piú incosciente e cercava in tutte le maniere di ricordarlo. Sempre pronto alla rissa o a scatenare qualche casino. Poi Jud scaltro e affidabile, furbo e malizioso, non lasciava mai niente perso nel baratro del tempo, e cosí ricordava tutto quel che veniva detto e visto. Poi Johnny, il piú saggio forse, ma non il meno matto. Ricordo mi voleva bene come un fratello.
Poi c’ero io, l’anima piú povera del gruppo, il sadico razionalista ipocrita che non riusciva a vivere bene la sua esistenza. Gli altri me lo ricordavano in continuazione quasi a castigarmi, catechizzarmi.
Quella sera eravamo particolarmente su di tono.
Era il compleanno di Jud e volevamo festeggiare a tutti i costi anche se era solo un misero mercoledì infrasettimanale. 
Ma per noi non esistevano le settimane, la nostra era una vita un’unica, una lunga giornata che si spalmava fitta su tutta la nostra esistenza, sia che fosse giorno che notte, non dormivamo se non per riposare giusto il corpo ma la mente quella non si fermava.
Decidemmo cosí di sfondarci in un bar del centro tanto per cominciare, tanto per tirare avanti la nostra frenesia.
La musica pompava e nella statale ovest i lampioni provavano a tutti i costi a contarci. Eravamo belli, dannati e belli e la musica ci montava nelle nostre teste a ritmo di rock che spaccava come pietra i crani. La luna, quella, non voleva guardarci impaurita dietro alle sue nuvole nere. Ci odiava.
Noi ce ne sbattevamo altamente la nostra non era una vita da tutti i giorni, non tutti poteva usufruire dei nostri corpi perché quando c’è un dono si fa presto a derubarlo.
Arrivammo ad un bar poco fuori dalla statale, vicino al centro piú vicino che fosse tale.
Era un barroccio squallido da finocchietti di mezza etá. Ma a noi bastava, ci interessava berci le nostre birre in pace per poi partire alla ricerca del nostro viaggio notturno, la nostra meta di quella parte infinitesimale che era il nostro giorno.
La gente dentro il locale, brutta, ci spiava invidiosa, non sapeva come squadrarci: se essere felice e contenta o aver paura delle nostre ghigne incazzate e felici di una fottuta vita libera.
Nel locale oltre a pochi tavoli c’era poca gente. Di tutti i tipi. Un paio di coppie sfigate, dei tipi camionisti che giocavano a biliardo, un gruppo di ragazzi di turno con delle poppanti. Normale routine. La cittá è questa. La vita è questa.
Noi ce ne sbattevamo. Noi eravamo noi, i padroni del locale adesso, e lo sentivamo persino nell’aria, persino in ogni fottuta molecola d’aria mista a fumo che usciva dai polmoni del barista alcolizzato.
Fu proprio lui a chiamarci ricordandoci della bevuta che era obbligatoria.
Greg fece finta di non capire molto bene,. Lo faceva sempre per fare incazzare la gente. E spesso ci riusciva.
Cosa dici amico? Come? Faceva. Era matto, completamente matto e delle volte non si riusciva a controllarlo, a contenerlo. Il fumo gli annebbiava qualsiasi cosa e partiva come un treno. Non potendolo mai fermare a causa della sua stazza non ci restava che andargli dietro, cosí il piú delle volte le scazzottate che ne venivano fuori avevano dell’incredibile e parevano non finire mai. Come nei western noi eravamo i cowboy che rientrano nella cittá dopo una notte di bagordi.
Le birre doppio malto ci dissetavano come potevano, poi i liquori provarono a consolarci.
E mentre l’alcool scorreva nelle nostre vene il locale fumava sempre di piú, da bruciare gli occhi e le menti in tutto quel fumo che misto alla musica rendeva tutto pacato e ovattato come un set di un film e noi a quel punto eravamo sempre pronti a recitare le nostre parti.
Fu quello il regalo per Jud. Poteva decidere su chi puntare, chi sfondare, chi rovinare.
E la scelta finí senza dubbi alcuni su quel gruppo di ragazzi con le loro pulzelle al seguito. Avrebbero capito chi domina e chi vive cosí che le pulzelle avrebbero capito il loro grave errore di scelta.
Greg azionó il tutto spingendo il primo che trovó nella strada per il cesso. Un spintone cosí forte da non destare dubbio alcuno sulla volontarietà e sulle intenzioni di noialtri. Il gioco era pronto e caldo in tavola, bastava approfittarne e mangiarne un pó.
Quando le prime parole volarono tutti noi gli andammo incontro a respingerle. Pronti a tutto. Tutti insieme, ancora una volta.
Dalle prime offese si passó ai primi passi con Jud completamente fatto che lanció una birra su di uno dei ragazzi, mancandolo peró. Ma le schegge esplose nell’impatto fecero evidentemente arrabbiare i gentiluomini che non potevano titubare troppo davanti alle loro damigelle.
Era piú di noi, forse 6 o 7 ma a noi questo non interessava assolutamente.
Sapevamo di essere invincibili tutti insieme, una forza unica che non poteva sgretolarsi se non morendo.
Non ci volle cosí molto che i primi pugni volarono. Greg prese subito i primi due sfigati a portata. Jud voló addosso ad uno ed io e Johnny prendemmo quel che trovammo nel resto.
Il primo pugno mi fece saltare un dente credo.
Ma rifeci pagare tutto e subito al mio assassino diretto con la sua maledetta testa rotta il quel tavolo di legno marcio.
Nella mischia furibonda potevo notare Greg imponente nel suo metro e ottanta, roteare tra i nemici. Fece volare almeno un paio di tavoli a terra e almeno un paio di cattivi.
Le ragazze urlavano. I primi schizzi di sangue le raggiunsero, sangue di non si sa hi, nostro comunque, di tutti.
La rissa assunse dimensioni discrete e il locale stava andando alla catafascio.
Nessuno osava intervenire in quella furia dove tutto e tutti potevano essere coinvolti e noi eravamo piuttosto incazzati.
Ne stavamo uscendo vittoriosi quando uno sparo mise silenzio su tutto.
Lo squarcio dello sparo ci fece ammutolire, sgretolo tutto il rumore portando un assurdo silenzio momentaneo.
Non avevamo certo paura ma la nostra teoria era di non portar mai armi con noi, le odiavamo, volevamo vincere senza, gareggiare senza e non vederle mai.
Un signore, uno di quelli che giocavano a biliardo teneva bene impugnata la sua pistola verso l’alto
I suoi stivali, il suo cappello da vero cowboy tarocco non lasciavano dubbi sulle sue origini di camionista in libera uscita.
I baffi, folti. Dentro quel viso ghiaccio e duro gli occhi troppo piccoli gli davano un espressione di dolore incastonati com’erano in quella fronte troppo stretta.
La sua faccia da duro comunque non ci spaventó. Eravamo noi i protagonisti e quello non poteva che essere un nuovo nemico, un nuovo ostacolo del film, il mostro finale di questo capitolo.
Ci intimó di smettere immediatamente altrimenti avrebbe usato quella pistola su di noi. Lo avrebbe fatto, si vedeva.

Ma la pistola nelle sue mani immense pareva innocua come un piccolo giocattolo di plastica. Lui invece con la sua stazza dominava il locale. Riusciva a guardarci tutti dall’alto come fosse stato su una pedana. Ma a Greg non interessava, poteva anche essere l’uomo più grosso del mondo. Così prese ad offenderlo -Non hai le palle senza armi vecchio cowboy!- gli urlava. Aveva un filo di sangue che gli sgorgava dal labbro inferiore della bocca che sputava urlando –prova a posarla bestione bastardo!-.
La situazione si faceva pesante e a noi piaceva. Con gusto ci sentivamo vivi come non mai. Di fronte alla morte le nostre anime prendevano energia e volavano alte senza freni godendo di tutte le euforie. le nostre teste respiravano come droga l’ebbrezza del pericolo. Vita.
La musica ricominció. Ci posizionammo tutti e quattro a mezza luna di fronte al mostro. Lui in piedi di fianco al tavolo da biliardo pareva calmo ma lo sapevamo che ci temeva che aveva capito la nostra verità, la nostra totale predisposizione alla pazzia. Per questo era indeciso se sparare, se ucciderci. Noi avanzavamo insieme, lentamente. Lo braccavamo come un branco di lupi. Sbavavamo sangue e sudore, rabbia e fiele.
Sentivo il mio piede che avanzava noncurante verso il pericolo, centimetro dopo centimetro verso la fossa. Ma non potevo fermarmi, come d’altronde non potevano i miei compagni. Eravamo tutt’uno e tutt’uno volevamo morire uccidere picchiare sanguinare. La vita, quello che cercavamo, ci spingeva a non mollare mai ogni situazione anche la più estrema, saremmo morti, morti per il nostro onore, morti per uno spasmo di vita anche se ultimo. Questa vita.
Avanzavamo. La pistola ci guardava. Titubava. Il grilletto veniva piano piano premuto.
La pistola sudava. Noi sputavamo di tutto. Parole, sangue, bava, offese. Eravamo cani rabbiosi pronti al grande salto. Avevamo le nostre vite nelle mani, la sentivamo fresca e pronta la nostra vita che sussultava spasmi e orgasmi. Godeva la vita.
- Dai bastardo facci vedere di cosa sei capace! Dai figlio di troia!-
- Codardo di merda sei un codardo!-
Bava.
La vita, di fronte alla morte. Una pistola che sudava.
- Stronzo!-
- Vieni bastardo!-
Intanto il locale ci osservava impotente per davvero.
Non c’erano altri coraggiosi. Quello era un eccezione. 
La luce soffusa faceva da contorno infedele, un contorno noir. E il legno riflesso dalle luci a muro risaltava nella penombra le nostre ghigne inferocite. Non c’era aria libera. Lo spazio si ristringeva e pareva strizzare tutti i nostri neuroni pronti a schizzare fuori da tutti i pori nell’aria che tutti noi abusavamo.
Le nostre vite.
Poi in quella stessa aria la musica sparì.
Come se galleggiasse apatico un silenzio tombale crollò sul locale.
Non c’era più musica. Le grida, le urla, le prove di assalto si ovattarono ulteriormente.
Tutto divenne muto, sordo e caldo, come in un film orientale.
Le bocche bavose si contorcevano, ancora pazze, ma senza emettere alcun suono. 
Non c’era molto da sentire oramai ma l’innocenza della ragazza era troppo pura per comprendere l’anima cattiva, persino di fronte ad un'arma, una battaglia, una stupida rissa, con tutta l’aggressività che c’era. 
Lei entrò nel locale silenziosa e candida.
Lei era il silenzio che l’annusava la profumava e la viveva.
Entrò osservando tutto senza stupore ne passione.
E tutti noi osservavamo lei.
Ci fu pausa e la rissa si placò per far entrare in scena quella delicata figura di altri mondi. Pareva che nessuno volesse far vivere a lei neanche un secondo di violenza e di tristezza irrequieta. Lei era oltre e non poteva essere altrimenti.
Lei si avvicinava al biliardo.
Rimanemmo a fissarla. Il nostro istinto ci spingeva a non farlo, a mostrarci quel che eravamo, a mangiare il mostro di fronte a noi, a sputare tutto il sangue in bocca. Ma non potevamo.
Eravamo sicuri dei nostri pensieri, lucidi nella nostra violenza ma immobili.
Anche il mostro si voltò leggermente per osservare la ragazza che gli si avvicinava. Costante. Bianca.
Il cowboy gigante sentiva la sua pistola scivolare e la stringeva sempre di più, la stringeva.
Poi lei arrivò. Non era alta anzi, era magrolina e minuta, era così innocente.
Dalla borsa di pelle che aveva a tracolla tirò fuori una figura di volpe che col casco guidava una moto blu. Gli occhi sgranati.
L’appoggiò sul bordo del biliardo, poi ci aggiunse una tartarughina di peluche ed un bigliettino giallo che serviva per comunicare con chi non gli riusciva, con chi non voleva.
Si allontanò.
Tutto il locale immobile.
Noncurante di tutti quegli sguardi increduli fece la stessa cosa anche negli altri tavoli, posò un peluche ed una volpe che guidava sempre una moto blu. Poi, senza mai fermare il giro, tornò al biliardo, con calma, riprese gli oggetti e così via negli altri tavoli.
Con estrema calma e delicatezza aveva ripreso tutto quello che aveva seminato. 
Niente di più, niente di meno.
Poi ci sorrise. Sorrise a tutto il locale con grazia, con tenerezza ed uscì lasciando però un po’ del suo profumo e della sua grazia.
Le luci, i legni marci, tutto pareva restaurato, verniciati di un nuovo smalto.
La nostra bava seccava.
Il sangue smise di colare.
Smettemmo di avanzare. Forse avevamo smesso già da un po’.
Nei nostri pensieri era sparita tutta la violenza e un grande vuoto ci assaliva.
Così ci guardammo intorno. Eravamo disorientati.
Notammo che anche gli altri facevano la stessa cosa.
Il gigante non ci puntava più la pistola addosso e anche se continuava ad impugnarla sembrava non ricordare neanche di averla.
Greg invece piangeva.
Le sue lacrime si riversarono su di noi come pioggia di redenzione. Anche Jud e Jhonny avevano capito. 
Nessuna musica sembrava più necessaria in quel posto, solo luce e silenzio.
Un silenzio fatto di mille rumori, di melodie lontane che giocano con i nostri sensi e con i nostri pensieri. La vita andava sempre raggiunta e a noi cadde addosso dal cielo come il sole del tramonto. 
Certe volte le paure sono combattute nella violenza dei giorni e delle notti senza una misura ben precisa e noi ci lasciamo andare in base alle nostri menti malate con inutili sfoghi assassini. A quel punto poi è difficile recuperare e capire, tornare a credere nella vera vita e tornare a vedere la morte come una paura da affrontare si, senza remore, ma neanche da cercare gratuitamente in noi e negli altri. In fondo alla vita c’è solo la vita. E la vita è tutto e il tutto va protetto e corretto in continuazione. E dalle prime correzioni si susseguono le altre, un’infinità di modifiche e passioni che ci attorniano e fortificano fino a cambiare tutto un intero mondo da non riconoscere più per la sua nuova bellezza.
Bello.
Quasi da morire.

giaco