IL FUMATORE

di Giacomo Ulivieri [28 anni]

 

Un’altra mattina. Come al solito Mario aveva già cominciato a fumare.

Erano appena passate le 8.30 circa.

Lui sapeva quanto odiassi il fumo, quanto odiassi respirare la sua maledetta cenere, soprattutto la mattina.

Ma a lui non gliene fregava un cazzo.

In tutta tranquillità si accendeva la sigaretta davanti a me, davanti alla mia scrivania e borbottando si alzava notando il mio sguardo pieno d’odio. Si alzava per allontanarsi un po’ dalla mia scrivania credendo di farmi un piacere fumando solo uno o due metri più in là. La sua concezione del mondo era completamente sballata. Non ci arrivava proprio.

Poi mi urlava contro incazzato, come disturbato per essersi dovuto alzare dalla sedia, stufo di non potersi gustare le sue sigarette seduto comodamente nella sua scrivania.

“Guarda che non si potrebbe fumare in ufficio” gli facevo allora notare io.

“Seee se dessimo retta a tutte le leggi inutili che ci sono” mi rispondeva lui.

E io non riuscivo a controbattere. Non trovavo mai la forza, lui era più anziano di me, più autoritario e lavorava in quell’ufficio da quasi vent’anni mentre io ero arrivato solo da pochi mesi in azienda. Mi sembrava quasi di disturbare, come di presentarmi a casa di qualcuno ed impedirgli di fumare nel proprio salotto.

Non mi sentivo in grado di controbattergli. Ero troppo piú debole di lui.

Solo ultimamente avevo cominciato a lamentarmi un po’ nella speranza che lui capisse, che di sua spontanea volontà mi venisse incontro.

Ma lui niente.

Niente.

“Questa stanza è piena di cenere!” mi lamentavo.

“La cenere fa bene”

Io aprivo le finestre e lui urlava di tutto, che da fuori entravano zanzare, mosche, insetti vari, rane, topi e tanta puzza.

“Ma se qua dentro non si respira dal fumo!”

“Allora apri, apri e aspira fuori il tanfo, lo scarico delle fogne, fa come ti pare!” ed usciva arrabbiato nero.

Non ci credevo. Non era più una situazione tollerabile e io non potevo morire ora, ero ancora troppo giovane.

Feci più volte domanda di trasferimento ma fu sempre ignorata.

Così una volta preso dalla disperazione mi recai in cancelleria a prendere della colla extra forte.

Tornai in ufficio e quando Mario uscì per andare al bagno, presi il suo pacchetto di sigarette ed incollai una ad una ogni singola sigaretta in maniera certosina.

Quando lui tornò prese naturalmente il pacchetto per fumarsi la sua cicca del dopo-bagno come da sua consuetudine e trovò la sorpresa delle sigarette incollate. Ma non si fece pregare due volte né si scoraggiò. Come se non fosse successo niente tirò fuori l’intero blocco incollato e con un tagliacarte provò a staccarne qualcuna. Le prime si strapparono senza pietà, ma dopo qualche minuto di lavoro riuscì a separare una sigaretta senza romperla, mantenendo la cartina incredibilmente intatta. Se la guardò ed uno strano luccichio gli illuminò gli occhi.

La prese, se la mise in bocca, se la accese. La fumava e ad ogni boccata mi guardava dritto negli occhi. Lo sguardo di quegli occhi ingialliti dalla nicotina mi fissavano pesanti.

Il fumo poi piano piano coprì tutto togliendomi di dosso quel maledetto sguardo.

Benedissi il fumo per una volta.

 

Dopo quel giorno Mario si presentava sempre con almeno due pacchetti. Da due a tre. Si portava le scorte per evitare brutti scherzi. L’ufficio era pieno di cenere, di pacchetti vuoti, di cicche spente dappertutto, per terra, sul davanzale, nel cestino. L’ufficio stava diventando una discarica, un portacenere gigante.

La mattina presto, quando entravo nell’ufficio e lui ancora non c’era, l’odore indiretto del fumo mi penetrava e mi colpiva i polmoni, il cuore, la testa. La puzza del fumo si era impregnata in quel posto e non se ne sarebbe mai andata.

Ed io non mi sarei mai abituato a quel tanfo.

Uscivo da lavoro il pomeriggio e puzzavo di fumo. Mi sembrava di uscire da un locale notturno.

Dovevo lavarmi i vestiti tutti i giorni. Dovevo fare la doccia ogni volta che tornavo a casa.

E lui era felice, lui faceva quello che voleva.

Lui mi fumava in faccia senza ritegno con la sua espressione soddisfatta.

Poi una mattina mi feci un pó piú di coraggio:

“Ho intenzione di andare a parlare con il direttore responsabile su questa situazione”

“Cosa vuoi fare?” esclamò lui avvicinandosi con aria minacciosa.

“Non ce la faccio più a sopportare tutto questo fumo, basta, non hai nessun rispetto nei miei confronti”

“Non ti permettere!” urlò. E quell’urlo pieno di tabacco alitatomi in faccia mi spaventò davvero quella volta.

Ognuno tornò a sedere nella propria scrivania quel giorno. Io non andai mai dal responsabile. Mario quel giorno si fumò quasi tre pacchetti di sigarette.

Non mi fece molto piacere.

 

Il tempo passava e i miei polmoni si riempivano. Erano sempre piú gonfi e saturi di fumo. In ufficio davanti al mio monitor singhiozzavo, ruttavo fumo.

Dopo qualche settimana mi disposi a togliere la polvere anzi, la cenere, dal monitor come mia mensile abitudine. Lo facevo di tanto in tanto, piú per un senso di dignità mio che per praticità, dato che ormai pulire in quel posto era completamente inutile. Dando una spazzata più energica del solito una zaffata di polvere mi colpì in piena faccia proprio mentre prendevo un respiro profondo. Respirai tutto a fondo e cominciai a starnutire, a tossire, gli occhi mi si gonfiarono, la gola mi si dilatò infiammata.

Diventai tutto rosso. Rosso di rabbia, incazzato e furioso. Era la classica goccia che faceva traboccare i classici vasi e che, traboccando, si ruppero definitivamente.

Avevo superato ogni limite di sopportazione.

Erano mesi che fumavo per colpa sua, che soffrivo, stavo male, tossivo la sera davanti alla tv di una tosse da fumatore non mia. Lo odiavo. Odiavo Mario profondamente.

Cosí in uno dei suoi tanti momenti di assenza gli presi i tre pacchetti che teneva nel primo cassetto della sua scrivania, mi posizionai in mezzo alla stanza proprio in mezzo agli scaffali degli archivi e misi tutte le sigarette, tutte meno che una, dentro ad un cestino di plastica. Poi presi un cerino e detti fuoco al tutto.

Il cestino pian piano prese fuoco. La fiamma si alzava con costanza. Lenta ma costante.

Un fumo grigiastro si alzava dal cestino in fiamme e cominciava a riempire la stanza. Prima in alto, sul soffitto, poi a lato sulle pareti fino in basso, fino riempirla tutta.

Tornai come se niente fosse alla mia scrivania per finire alcune pratiche. Ma il fumo aumentava e cominciavo a vedere a fatica il monitor.

Quando Mario entrò gridò impaurito vedendo, anzi, non vedendo quasi niente. Io invece mi misi in bocca la sigaretta che avevo risparmiato dal falò proprio per l’occasione e la accesi cominciando a dare delle grandi boccate da vero buongustaio. Con mio grande stupore mi accorsi di non sentire nessun tipo di rigetto tanto ormai ero assuefatto da mesi e mesi di fumo passivo.

“Scusa, ti ho preso l’ultima sigaretta, ti dispiace se la fumo?” gli dissi soffiandogli inutilmente e platealmente un po’ di fumo addosso.

Poi lo persi quasi completamente di vista, non so se a causa del cestino in fiamme. Il fumo era diventato densissimo. Riuscii solo a intravedere il fuoco che divampava dal cestino, le fiamme che si allargavano prendendo prima gli archivi vicini per poi spandersi sugli armadietti al muro. Urla dal corridoio. Cominciava a bruciare tutto, tutti i fogli, tutte le pratiche, tutto.

E cosi non vidi più niente. Persi tutto e tutto sparì. Il fumo mi abbracciò e mi portò via con sé.

Con sé…

 

Ma probabilmente avevo perso solo i sensi.

Almeno è quello che pensai risvegliandomi in un letto di ospedale.

Pensai anche che se quello era il paradiso, allora era sempre stato immaginato e descritto male perché la stanza dove mi trovavo era veramente un cesso.

Invece ero vivo e forse ero stato salvato. Ma da chi? Da chi, da lui forse?

Col passare dei giorni all’ospedale vennero a trovarmi i miei parenti più cari, alcuni amici, alcuni colleghi. Tutti tranne che lui, Mario.

Stavano un po’ con me, mi raccontavano quel che succedeva nel mondo fuori dalla mia stanza.

Io mi limitavo a tossire in faccia a tutti. Delle nuvolette di fumo intenso mi uscivano dalla bocca direttamente dai polmoni. Non riuscivo a parlare ancora. Non che mi premesse ma almeno una domanda l’avevo, desideravo sapere chi era stato a salvarmi. Chi. Ma allo stesso tempo non volevo saperlo o almeno non volevo forzare i tempi naturali delle risposte importanti e cosí non provai mai a domandarlo.

Già fantasticavo sulla persona, aspettavo solo una conferma.

In seguito alle numerose visite seppi che l’azienda dove lavoravo aveva subito milioni di danni. Un’ala intera dell’edificio era bruciata. Nessuna vittima fortunatamente, ma tanti danni economici. C’era un’inchiesta in corso ma non mi interessava. E poi ancora non riuscivo a ricordare bene quello che era successo, se la colpa era stata mia, se ero stato io ad appiccare il fuoco. Nella mia testa avevo un ricordo vago ancora indecifrabile.

Una notte feci un sogno: c’era Mario che con un calcio sfondava una porta oltre la quale un fumo intenso pareva soffocare tutto. Ma lui coraggiosamente si gettava all’interno della stanza, proprio come un vero eroe. Sembrava sapere già dove andare, conosceva già la sua missione. Lui senza ne maschere ne bombole, percorse a memoria tutta la stanza fino a raggiungere una scrivania all’angolo opposto. Poi in un attimo la visuale del sogno cambió e mi ritrovai di persona dentro la stanza, dietro quella stessa scrivania, protagonista del salvataggio. Mario che mi prendeva in braccio. Il mio era un corpo flaccido, quasi gelatinoso. Lui invece era un gigante, un gigante buono che vuole salvarmi. Mi prende, mi tira su sopra la nube tossica che mi sta affogando e mi porta fuori verso la vita…

Quando mi risvegliai dal sogno avevo perso ogni dubbio. Ero ormai sicuro che Mario fosse il mio salvatore. Il sogno non doveva altro che essere un sogno rivelatore. Ma allora perché non era mai venuto a farmi visita? Forse il nostro odio accumulato era troppo grande per essere affrontato nella vita esterna al lavoro, anche dopo un fatto cosí grave, cosí grande.

Sentivo una terribile colpa per tutto quello che era successo, per come mi ero comportato. Forse il vero egoista ero stato, proprio io nell’oppormi in tutto e per tutto nei suoi bisogni, nei suoi piccoli piaceri quotidiani. Forse la sua non era una vita felice, forse fumare era solo un suo sfogo.

Forse era una persona bisognosa di aiuto. Un’anima debole e sola.

Cominciai a provare una gran pena per lui, sentivo di volergli quasi bene.

Mi aveva salvato la vita. Gli dovevo tutto.

 

Convinto di tutto questo passai i miei giorni in ospedale in attesa di Mario. Speravo di vedermelo apparire alla mia porta, proprio come nel sogno. Speravo di vedere la sua figura tappare quella porta da dove entravano ed uscivano tutti i miei cari. Adesso che mi aveva salvato, lo sentivo uno di loro e proprio per quel motivo volevo la sua presenza. Ci eravamo sputati troppi veleni addosso, troppe parole dette e non dette.

Poi un giorno si presentarono i miei. Erano vistosamente emozionati. Mia madre aveva un sorriso stampato nel viso che non riusciva a reprimere mentre mio padre, seduto di fianco nel letto, con una mano mi stringeva continuamente una spalla come era suo modo fare in occasione di eventi importanti.

“Dobbiamo presentarti qualcuno oggi” mi dissero.

Ma io avevo già capito e immaginato tutto. Loro sapevano dei miei problemi in ufficio con Mario, della nostra quotidiana guerra silenziosa, dei miei patimenti, del mio odio nei suoi confronti. Forse proprio per quello volevano prepararmi alla notizia del suo gesto, cercare di dirmi che colui che da mesi odiavo mi aveva salvato la vita. Pensavano che la notizia mi potesse sconvolgere e in effetti non riuscivo a pensare ad altro in quei silenziosi giorni passati in ospedale.

“Ti vorremmo presentare colui che ti ha salvato, che ti ha tirato fuori dal tremendo incendio rischiando la propria vita”

E io ero pronto a vedere il mio salvatore, presentarmi diverso nei suoi confronti cosí come lui si sarebbe presentato diverso nei miei. Anche se non potevo ancora dire una sola parola, feci capire ai miei genitori che ero pronto.

Cosí mio padre si alzò. Andò alla porta e l’aprì.

Da dietro entrò una figura che lí per lí non riuscii a mettere immediatamente a fuoco, forse per l’emozione, forse per il mio fisico ancora debole. Era una figura non molto grande, quasi minuta direi, aveva i capelli lunghi e sembrava piuttosto giovane a prima vista.

“Ti presentiamo Giovanni” se ne venne fuori mia madre “è il vigile de fuoco che ti ha salvato la vita, tesoro mio”

Mi feci forza e guardai bene: quella persona aveva la classica divisa del pompiere con quelle strisce gialle fosforescenti. Quello era Giovanni, il mio salvatore.

Il mio salvatore era un pompiere, un giovane ragazzo che aveva rischiato la propria vita per me. Una persona che neanche conoscevo, con la quale non avevo mai scambiato una sola parola, neanche un caffé.

Aveva rischiato tutto per me. Solo per me…

 

In quel momento mi sentii tornare la voce:

Mario, sei proprio un bastardo!

 

 

giaco