IL CESSO THAI

di Giacomo Ulivieri [28 anni]

 

 

«Porca puttana mi scappa da morire» dico rivolto a Marchino proprio mentre una strizza mi giunge dalla vescica.

«A chi lo dici» risponde lui succhiando l’ultimo dei noodles al pollo.

Li aveva appena comprati al chiosco davanti stazione dal quale l’odore puzzolente di non so ancora bene cosa, bolliva in una specie di pentolone nero e sporco che la vecchietta cuoca gira di tanto in tanto con un bastone di legno.

Una scena degna di un film di streghe.

Ma ormai non ci scandalizziamo più per queste visioni. Almeno non dopo aver vissuto in maniera economica qui in oriente per quasi tre settimane. E ci si può abituare a tutto.

Poso l’ultima delle valige a terra. Siamo appena scesi dal treno dopo un viaggio di circa dieci ore.

Dieci ore massacranti.

Forse le peggiori della mia vita.

«Senti, e se a turno andiamo a pisciare così uno tiene d’occhio le borse?»

«Ho anche fame mannaggia la miseria, però quei noodles schifosi che ti sei mangiato non li voglio cazzo, puzzavano di morto»

«In effetti facevano un po’ cagare ma, non ce la facevo più. Se non altro non morirò di fame, non di quello almeno» fa lui.

«Quasi quasi esco a vedere di trovare qualcosa di decente da mangiare e casomai piscio pure in qualche angolo, mi aspetti qui?»

«Dai ma andiamo al bagno della stazione, è qui davanti»

«Eh no cazzo, lo sai che è contro i miei principi pagare per pisciare, no! Dai esco un attimo, ci metto solo cinque minuti» propongo io.

«Ok ma fa presto»

Il treno sarebbe partito soltanto da lì a due ore.

Senza pensarci due volte esco quasi di corsa dalla hall della stazione di Chomporn, una ridente e radiosa cittadina portuale della Tailandia, tanto radiosa da puzzare di smog ed escremento in ogni suo angolo.

Dopo essere stati per più di due settimane nelle favolose isole malesi, questo può apparire come l’inferno.

Uscendo passo vicino ad uno dei tanti gruppi di uomini in divisa con tanto di cappello e per un attimo senza sapere perché mi viene la pelle d’oca. Ancora non sono riuscito a capire dalla divisa aderentissima grigia chiara e i cappelli molto ufficiali che portano se sono degli impiegati ferroviari o dei poliziotti. Bah.

Superati gli uomini stretti nella loro fresca divisa aderente (ci saranno circa 30 gradi alle ore 22.00) saltello nelle mie infradito costate 100 baht verso l’unica via vicino alla stazione. Questa infatti pare una zona completamente fuori da ogni speranza di vita. Intorno pare ci sia il vuoto, un deserto di cemento e traffico.

Qualcosa di decente da mangiare lo troverò penso.

Non sono mai stato schifiltoso ma dopo aver visto la donna del chiosco dove Marco ha preso la sua minestra immergere completamente il braccio nella pentola per levare non so cosa, mi sono rifiutato. Piuttosto rischio di soffrire la fame per una notte intera.

E poi sarà vero che ci si può abituare a tutto? Bah.

Proseguo dritto per la via.

È piuttosto illuminata e trafficata e non ci sono posti umanamente possibili per fare anche solo un piccolo bisogno. E di farla davanti a dei turisti in strada ancora non mi va dato che ancora un po’ di decenza sembra essermi rimasta.

Raggiungo un ristorantino (una bettola a cielo aperto) dove ordino subito un piatto di pad thai con verdura e mi informo per un bagno.

«No toilet solly» la risposta.

Aspetto gli spaghettini di soia che ingoio di lì a cinque minuti.

Ahh, già meglio, ora liberiamoci.

Saranno più di 10 ore che Marco ed io non andiamo al bagno. Dopo averle passate in uno scompartimento di un treno sfasciato (e senza cesso naturalmente) e sovraffollato, speravamo di evacuare appena scesi nella stazione di Chomporn dove avevamo due ore di attesa prima della prossima coincidenza. Solo che io non sopporto di pagare per andare al bagno, è contro la mia natura, non potrei mai.

Però le prime gocce di sudore cominciano a scendermi sulle tempie.

Sto letteralmente scoppiando e il dolore fisico si fa così forte che persino camminare diventa difficile.

Tornando verso la stazione mi guardo intorno cercando un posticino adatto. Sembra quasi incredibile che in Tailandia, vicino ad una stazione schifosa, in una cittá schifosa, non ci sia un cazzo di posto dove pisciare a cielo aperto. E negli unici posti adatti c’è troppa gente, troppi turisti e la mia mente occidentale non mi permette di pisciare in mezzo alla strada.

Non ancora almeno.

Quasi barcollando risalgo le scale che portano alla hall della stazione dove Marco mi aspetta insieme alle nostre valige. Entrambi sappiamo quanto è rischioso lasciarle incustodite.

Ma mentre mi avvicino noto Marco mezzo paonazzo fissarmi in maniera allarmante. Poco distanti da lui ci sono dei poliziotti/ferrovieri che chiacchierano e scherzano tra di loro.

Lui mi fa cenni strani, quasi convulsi.

‘Ci siamo, è partito di testa’ penso.

Mi avvicino, paonazzo e dolorante pure io, e non appena a portata di braccio Marco mi afferra «Cazzo la roba buttala cazzo!» mi urla a bassa voce.

Io lo guardo negli occhi e gli dico «Ma di che cosa stai parlando? Sei fuori?»

«Dai cazzo è pieno di polizia qui, l’erba che ci ha lasciato Luca, mollala da qualche parte!».

Poi in un attimo focalizzo tutto:

 

…erba… marijuana… io… erba…

 

Come fossi stato un tossico spacciatore, nel mio marsupio avevo una sacchettata piena di erba sopraffina tailandese.

Ce l’aveva regalata Luca prima di partire per Bangkok. Lui l’avrebbe buttata via.

Ma non mi interessa gli dissi io, ma la presi ugualmente.

Manco sapevo rollare io, cosa ci volevo fare proprio non lo so.

Neanche Marco lo sapeva ma l’avevamo presa.

Era tutto un gioco quella vacanza, tutto era bello, finto e possibile.

Almeno così sembrava.

Cazzo marijuana!! IO!!

Neanche in Italia ho mai posseduto qualcosa di droga o roba simile. Avrò giusto fumato qualche canna con amici ma tutto lì.

Ed ora, qui in Thailandia possedevo un sacchetto pieno di erba nel marsupio in una stazione ferroviaria di confine piena di poliziotti, ferrovieri o cosa cazzo erano.

E io manco me lo ricordavo.

Cazzo

 

È già un miracolo che non ci abbiano ancora perquisito.

Cazzo

 

Tutti sanno quant’è poco tollerata la droga qui in Tailandia.

Oh cazzo

 

«Vado a buttare tutto!» e faccio per uscire dalla stazione ma Marco mi ferma.

«No c’è troppa gente fuori, andiamo qui nel bagno della stazione»

«Ma quanto costa?»

Il bagno costava solo 2 baht.

Due baht verso la salvezza.

Due baht per un valore in euro di circa 4 centesimi di euro.

Un niente. Un infinitesimo di niente.

«No cazzo no! Mai!»

 

Pazzia, pura e cristallina, mi avvolge la mente.

 

«Non voglio pagare per un cesso!» urlo a Marco attirando per un attimo l’attenzione degli uomini in divisa a chiacchiera di fianco a noi.

«Te lo pago io porca puttana. Due cazzo di baht, ma sei proprio uno stronzo!»

Mi prende per un braccio e quasi mi strattona fino all’entrata del cesso a circa una decina di metri da lì.

Io non mi sento più molto bene. Ho superato ormai i limiti della sopportazione. Sento la testa come ripiena di ovatta, come se mi avessero preso a mazzate per due giorni consecutivi.

Dopo “la cassa” dove una vecchia signora riscuote i 2 preziosi baht, c’è una piccola coda di clienti.

Marco paga per entrambi e ci accodiamo dietro a due ragazze dall’aspetto nord europeo.

Sembrano pure carine.

Subito dopo dietro di noi la coda si allunga con altre persone. Alcuni thai, altri stranieri.

Il dolore aumenta. La vescica non da pace lanciandomi fitte vertiginose di dolore. Ora mi viene un’ernia penso.

Il dolore mentale della paura invece mi fa trasudare come un porco.

Barcollo.

Siamo entrambi rossi in faccia e sudati di un sudore freddo che fuoriesce da tutti i pori. I nostri bulbi oculari si muovono come schegge impazzite pronte ad osservare ogni minimo movimento. Sembriamo due drogati in attesa della dose dal nostro spacciatore di fiducia.

La paura.

La fila va pian piano scemando. Tre persone davanti a noi. Due. Una.

Dalla nostra posizione possiamo vedere dentro il bagno e credetemi, pensavo di aver visto tanti cessi in vita mia, ma per questo la parola cesso era davvero un lusso.

Il bagno era composto da due gabinetti chiusi sulla sinistra e da alcuni, credo, lavandini sulla destra. Ma più che lavandini erano pozze piastrellate dove l’acqua cadeva, riempiendola, da un tubo posto un pó piú in alto ad altezza busto.

Il tutto in una stanzina di circa tre metri per tre.

Wow.

Da documentario.

Bah.

Quando una ragazza straniera esce dal bagno per andarsi a lavare le mani e quella in fila davanti a noi entra nell’unico cesso chiuso lasciato libero, la vecchietta della cassa si avvicina rapidamente a Marco che sta in ansiosa attesa davanti a me. Va da lui e prendendolo per un braccio gli fa cenno di entrare nel bagno.

«What? What?» reagisce lui spaventato col suo inglese incerto.

«It’s occupied» provo ad intervenire io.

Ma quella pare non sentirci e soprattutto pare non capire una parola di inglese. Avrà si e no cent’anni. Capace che quando era giovane la Thailandia era praticamente disabitata dai turisti e che abbia conosciuto la Scoca-Scola solo da pochi anni.

Quasi costringendolo porta Marco dentro il bagno. Lui si volta e mi guarda sbigottito come per chiedermi aiuto.

È tutto rosso. Sicuramente anche la sua vescica non deve essere messa molto bene.

La vecchietta porta Marco di fronte ad una delle due “fosse-lavandino”, proprio accanto a quella dove si stava lavando la ragazza straniera (forse olandese dai capelli… carina anche lei direi) e gli dice «okay okay» con il classico suono gutturale della lingua inglese parlata dai Thai, invitandolo a pisciare lì, seduta stante, praticamente in mezzo alla stanza, davanti a tutti, accanto ad una ragazza sconosciuta.

«Sorry?!» cerca di rispondere lui.

«Okay here okay? Piss here okay? piss piss!» insiste lei impaziente e quasi arrabbiata. Come se i suoi affari stessero andando a rotoli a causa di quella piccola fila.

L’espressione di Marco invece è di un altro mondo.

Come se tutto ad un tratto la sua, la nostra razionalità occidentale ci avesse dapprima schiacciato per poi farci respirare, distrutti, una nuova aria.

Ci guardiamo per un istante:

questo è l’oriente - pensiamo entrambi – questo in fondo è il paradiso.

E non riusciamo a non ridere. Non riusciamo a trattenerci.

È una risata grassa, collegata a distanza dalle nostre bocche. All’unisono.

Ridiamo.

Ridiamo a crepapelle fino a piangere. Fino a far desistere la vescica, fino a farla esplodere.

Ridiamo mentre la vecchietta imprecando ed urlando, non sapremo mai cosa, fa per uscire.

Ridiamo mentre la polizia, attratta da quell’improvvisa confusione occidentale, corre verso di noi, verso di me, paonazzo, sudato, con le lacrime negli occhi rossi spiritati, con i pantaloncini bagnati e grondanti di piscio, piscio caldo che cola giù, attraverso le mie gambe, fino all’estremità del mio corpo…

 

 

Fine