Paolo Gherri
Paolo Gherri

I tempi di nomina dei Parroci (can. 522 CIC) Pontificia Università Lateranense, Roma 2002, pp. 324.

Il volume, che riporta una tesi di dottorato in diritto canonico presso l'lnstitutum Utriusque luris dell'Università Lateranense, si occupa di un argomento a prima vista marginale nella legislazione della Chiesa latina: la possibilità, offerta dal Codice di Diritto Canonico del 1983, di nominare i Parroci o a tempo indeterminato oppure per un tempo prefissato (in Italia nove anni). Questa seconda soluzione è stata recepita come una significativa novità della nuova

codificazione, nell'ambito della disciplina riguardante il ministero parrocchiale; e molte Conferenze Episcopali hanno deciso di approvarne l'uso per il proprio territorio, anche se il tempo trascorso è probabilmente ancora troppo breve per una valutazione "sul campo" dei pregi e dei limiti della nuova opzione. Questo sviluppo normativo è stato reso possibile dal superamento del sistema beneficiale, che aveva di fatto introdotto il principio della perpetuitas nelle nomine dei Parroci. Non ci troviamo quindi semplicemente davanti a un mutamento disciplinare, ma a un ripensamento della figura del Parroco che tocca anche aspetti sostanziali, e che non è priva di riflessi pure sul piano pastorale. Questo sottofondo giustifica pertanto ampiamente il fatto di dedicare uno studio monografico al tema.

Il saggio spicca nel panorama delle tesi di dottorato per l'accuratezza della realizzazione, a diversi livelli: dalla precisione della stesura (gli errori ortografici sono pressoché confinati alle citazioni in latino o nelle lingue straniere); alla ricchezza della bibliografia - soprattutto per quanto concerne le lingue neolatine-; all'articolazione in un numero relativamente grande di capitoli (sette, più due introduzioni e una conclusione), ciascuno di dimensioni non eccessive, il che aiuta a seguire bene lo svolgersi dell'argomentazione.

Sul piano del contenuto, molto interessante appare il primo capitolo sull'evoluzione storica degli istituti giuridici coinvolti nel tema del lavoro, così come più in generale sono apprezzabili le parti storiche, che offrono un quadro sintetico non facilmente rinvenibile altrove, e quindi un utile approfondimento al lettore medio che manca degli strumenti per elaborare personalmente questa sintesi. Degna di menzione è inoltre la concezione di diritto "amministrativo", descritta nelle prime pagine del terzo capitolo.

In questo orizzonte positivo, bisogna però rilevare pure alcuni limiti dell'opera, due in particolare. In primo luogo suscita meraviglia l'ordine in cui è distribuita la materia: prima si fa l'analisi del contenuto del canone (cap. Il), e solo dopo si esaminano gli antecedenti diretti della normativa vigente: la situazione precedente al Vaticano II (cap. IV), le statuizioni del Concilio (cap. V), e l'iter di revisione del Codice (cap. Vl); mentre è evidente che questo cammino ha inciso sulla formulazione del canone e deve orientarne l'interpretazione, e quindi andrebbe logicamente affrontato prima, pena il rischio di una precomprensione derivante dalla lettura del canone in se stesso, e che può influenzare anche la successiva analisi dei passi previ alla redazione del testo normativo. Il secondo rilievo, su cui purtroppo non è possibile entrare nel dettaglio dell'argomentazione perché ciò presupporrebbe che il lettore di questa recensione abbia già esaminato il volume in oggetto, riguarda direttamente l'interpretazione del canone, in particolare per quanto concerne i termini oportet (inteso in senso ottativo e non imperativo, contro tutta la tradizione canonica e l'interpretazione comune) e stabilitas (talvolta confuso con l'antica perpetuitas).

Queste interpretazioni discutibili servono all'autore per sostenere la netta opportunità della nomina ad tempus quale unica via per non ricadere di fatto nell'antica inamovibilità dei Parroci, che sarebbe a suo giudizio lo sbocco naturale delle nomine a tempo indeterminato. Qui si entra in realtà nel campo delle scelte opinabili, e ciascuno è libero di preferire l'una o l'altra soluzione senza che ci siano argomenti cogenti in una direzione o nell'altra. La mia opinione è che solo una nomina ad nutum (ma che non è prevista dalla normativa attuale) risolverebbe ogni difficoltà; di fatto sia la nomina senza scadenza predeterminata che quella per nove anni creeranno problema (avendo entrambe la medesima tutela giuridica, come anche Gherri rileva a p. 135-136), se non è maturata nei sacerdoti un'adeguata mentalità ecclesiale.

Per intenderci: il Codice insiste sul fatto che in ogni parrocchia deve essere nominato Parroco un sacerdote idoneo per le caratteristiche di quella parrocchia (Cfr. per es. can. 521 [[section]][[section]] 2 e 3; can. 524; precedentemente si richiedeva addirittura che fosse il "magis idoneus": Cfr. can. 459 [[section]] 1 del CIC 1917). Una volta individuato il candidato idoneo, che nell'ipotesi è già Parroco, i casi sono due: o quello accetta liberamente di trasferirsi (e allora non c'è problema di tempo di nomina, se a tempo indeterminato o per nove anni), oppure non accetta, e anche in tal caso cambia poco che nella parrocchia che sta reggendo sia stato nominato senza scadenza o per nove anni: salvo il caso fortuito che si stia giungendo alla scadenza novennale, il Vescovo non potrà lasciare vacante una parrocchia per sei, o sette, o otto anni in attesa di trasferirvi coattivamente il sacerdote che ritiene idoneo; e vi nominerà qualcun altro (e lo stesso ragionamento qui fatto dal punto di vista della parrocchia si può ribaltare dal punto di vista del presbitero: non è detto che nel momento in cui scade il suo mandato novennale sia libera una parrocchia per cui lui sarebbe particolarmente idoneo, in cui trasferirlo: pertanto o lo si lascia sospeso, o lo si "blocca" per altri nove anni).

Il problema reale quindi è tutto nella disponibilità ecclesiale da parte dei sacerdoti. L'esperienza ormai sessennale in una cancelleria diocesana mi fa dire che nel complesso il clero bolognese - e, ne sono convinto, anche quello delle altre Diocesi - sia molto aperto sotto questo profilo (e che rende tutto sommato inutile la nomina a nove anni, perché difficilmente questa periodicità verrebbe rispettata nei trasferimenti). La stessa valutazione positiva sulla disponibilità dei preti veniva formulata anche al Vaticano II (si veda l'intervento di un padre conciliare, Mons. C.R., riportato a p. 253, secondo cui "non pochi sacerdoti, soprattutto tra i giovani ed i più qualificati, sono di fatto orientati verso il principio della mobilità"), mentre Gherri appare molto scettico, a più riprese e anche con toni ironici (Cfr.. per esempio alla fine di p. 255, a p. 258, a p. 264): questa sfiducia circa la maturità del clero contemporaneo è ciò che più dispiace nella lettura di un libro per altri versi non privo di elementi di valore, e che continuamente stimola un confronto dialettico tra autore e lettore.


MASSIMO MINGARDI in: Rivista di Teologia dell'Evangelizzazione, 2002, n. 12, p. 457-458.



La recensione di M. Mingardi contesta la struttura utilizzata per l'interpretazione del Can. 522:
"In primo luogo suscita meraviglia l'ordine in cui è distribuita la materia: prima si fa l'analisi del contenuto del canone (cap. Il), e solo dopo si esaminano gli antecedenti diretti della normativa vigente: la situazione precedente al Vaticano II (cap. IV), le statuizioni del Concilio (cap. V), e l'iter di revisione del Codice (cap. Vl); mentre è evidente che questo cammino ha inciso sulla formulazione del canone e deve orientarne l'interpretazione, e quindi andrebbe logicamente affrontato prima, pena il rischio di una precomprensione derivante dalla lettura del canone in se stesso, e che può influenzare anche la successiva analisi dei passi previ alla redazione del testo normativo".

In realtà Mingardi non pare neppure sfiorato dal dubbio circa la metodologia espressa ed applicata nella ricerca in questione, nonostante abbia ben visto la corposa "Premessa metodologica".

L'eventualità che possano esiste ed applicarsi ALTRI METODI canonistici rispetto all'unico adottato dalla maggioranza non è oggetto di alcuna considerazione, portando al semplice rifiuto tanto del metodo che del risultato, senza neppure chiedersi 'perchè'.