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Il primo Codice di diritto canonico: fu vera codificazione?



I- Introduzione. II- Codificazione e diritto canonico. III- Polivalenza del concetto di ‘codificazione’. IV- Codificazione e storia. V- Consolidazione canonica. VI - Questioni teoretiche ‘trasversali’. VII - Premesse della ‘codificazione canonica’. VIII. La promulgazione del Codice. IX - Conclusioni: codificazione canonica e metodologie di approccio.

I. Introduzione
Ad ormai vent’anni dalla promulgazione del secondo Codice di Diritto Canonico della Chiesa Cattolica latina (1983), ingiustamente ancora considerato da molti come “il” Codice di diritto canonico (come fosse l’unico), e ad oltre 85 anni dalla promulgazione del primo “Codex” che la Chiesa abbia ‘posseduto’ (1917), pare trascorso abbastanza tempo per stimolare un’adeguata riflessione sotto il profilo metodologico ed interpretativo proprio su quel ‘fenomeno’ chiamato da molti “codificazione canonica” che ha caratterizzato la giuridicità ecclesiale nel corso del XX sec., imprimendole caratteristiche apparentemente nuove rispetto ai quasi due millenni precedenti… caratteristiche che, probabilmente, sono già divenute ‘strutturali’ all’Ordinamento canonico stesso .
Per i nostri contemporanei la parola ‘codice’ ha un significato ‘intrinseco’ inequivocabile:
"I codici altro non sono se non leggi ordinarie, collocate nella gerarchia delle fonti al medesimo livello di ogni altra legge ordinaria …si distinguono, anzitutto, per un carattere di ordine qualitativo: si presentano, tradizionalmente, come fonti di diritto generale, in antitesi con il diritto contenuto nelle altre leggi, che rispetto ai codici si sogliono definire come leggi speciali, fonti di diritto speciale. La loro grande estensione è il portato di una tecnica legislativa per la quale le norme di diritto generale debbono essere raccolte in unità di contesto e ordinate per settori organici dell’ordinamento giuridico, come il diritto privato (raccolto nel c.c.), il diritto penale (nel c.p.), il diritto processuale civile (nel c.p.c.), il diritto processuale penale (nel c.p.p.), il diritto della navigazione (nel c. nav.)" .
C’è in noi una sorta di ‘predisposizione culturale’ ad associare questo termine a colui che ne risulta l’autorevole ‘referente’ nella modernità: Napoleone; tanto che, ignorando la portata volutamente parziale del “Codice civile” francese del 1804 —seguito ben presto da: “Codice di procedura civile” (1807), “Codice di procedura penale” e “Codice di commercio” (1808), “Codice penale” (1810)— si parla spesso (semplicisticamente) di “Code Napoleon”, idealizzando o ‘ideologizzando’ un semplice strumento giuridico il cui ‘nome’ —Codex— rimanda in realtà ad una storia di oltre tredici secoli ed a una ‘natura’ affatto differente .
Sulla scia di questa ‘associazione/identificazione’ terminologica e concettuale tra ‘Codice’ e ‘Codice Civile’ si sono dette e scritte, nell’arco di quasi un secolo, parecchie cose anche a riguardo della c.d. ‘codificazione canonica’ intrapresa da Papa Pio X nel 1904 . La letteratura canonistica, civile ed ecclesiastica, non ha risparmiato commenti e valutazioni su questo ‘fenomeno giuridico’ tipico della fine del secondo millennio dell’era cristiana tanto favorevolmente accolto da parte ‘laica’, quanto spesso valutato con circospezione e diffidenza in vari ambienti ecclesiastici .

II. Premessa
Scopo del presente studio non può certo essere l’ingenua —ed inutile— velleità di ‘riassumere’ oggi lo smisurato lavoro di centinaia di canonisti articolatosi in quasi un secolo di dottrina, ricerche e storiografia intorno al tema ed ai personaggi della “codificazione canonica”.
L’aspirazione di queste pagine è invece, più umilmente, quella di proporre un nuovo —ma plausibile — ‘punto di vista’ da cui procedere alla delineazione di una prospettiva diversa da quelle autorevolmente offerte sino ad oggi da molti autori : una prospettiva di stampo sostanzialmente metodologico con particolare interesse per l’individuazione finale di un ‘corretto’ metodo di approccio all’intero ‘sistema codiciale’ che oggi caratterizza così profondamente la giuridicità ecclesiale.
Alla base di questo intendimento sta la convinzione che la maggior parte dei motivi di ‘crisi’ della Canonistica (e dello stesso diritto canonico) nel secolo scorso siano stati —più o meno legittimamente— originati proprio da una questione ‘semplicemente’ metodologica: la Circolare “De novo iuris canonici codice in scholis proponendo”, emanata il 7 agosto 1917 dalla S. Congregatio de Seminariis et de Studiorum Universitatibus .

III. Codificazione e diritto canonico
Non sono stati pochi, lungo il secolo appena conclusosi, gli autori —tanto laici che ecclesiastici, sia pure per motivi differenti— che hanno affrontato il tema della ‘codificazione’ del diritto canonico in termini molto critici e sostanzialmente negativi, palesando in varie occasioni e circostanze le proprie perplessità e rimostranze verso questo ‘sviluppo’ della giuridicità ecclesiale.
Secondo P. Fedele "se c’è un ordinamento che meno abbia la vocazione per la codificazione delle sue norme, questo è indubbiamente l’ordinamento canonico, essendo esso non chiuso in se stesso ma aperto verso l’alto, proiettato verso l’infinito e l’eterno" ; già prima studiosi di grande statura quali E. Friedberg (prima della stessa codificazione), C. Calisse , C.A. Jemolo e F. Ruffini (per il quale il codice sarebbe risultato poco più che "un innocuo manuale per parroci e confessori") si erano espressi secondo tale orientamento ritenendo che l’elasticità peculiare del diritto canonico non potesse rinserrarsi —dissolvendosi— all’interno di un sistema rigido come quello codiciale.
Non mancarono neppure critiche verso la inadeguatezza teologica dello strumento codiciale e l’inopportunità di una tale scelta sotto il profilo ecclesiologico, accusando il Codice di aver incentivato un atteggiamento positivistico, riducendo la Canonistica a “codicistica” :
"il C.I.C. ’17 è nato come rampollo ecclesiastico di questo processo culturale laico realizzando quasi tutti i requisiti formali fondamentali della codificazione, elaborati dalla teoria generale del diritto: impianto rigorosamente giuridico che scavalca la sistematica medioevale delle decretali, germanica nella sua disarticolata concretezza, ma teologica, perché lascia emergere elementi costituzionali e sacramentali inconfondibili… Il soggetto che protagonizza la vita ecclesiale non è come nei codici civili l’individuo, detentore di ogni iniziativa, ma l’autorità, la gerarchia, identificata con la Chiesa stessa grazie allo stesso processo di personificazione con il quale la filosofia illuministica aveva identificato la società con lo Stato. Nel contesto sociale del 1917 i fedeli sono rilevanti per la vita della Chiesa nella misura in cui usano, per la salvezza della loro anima, gli strumenti loro offerti dalla gerarchia e si conformano con obbedienza e disciplina alle iniziative della stessa… Si è trattato inoltre della codificazione … dettata … anche da una scelta politica e ideologica: quella di recepire in un aspetto costituzionale definitivo le prerogative giurisdizionali papali, ormai sottratte ad ogni possibilità di discussione pratica dal Vaticano I e quella di rivendicare sulla scena europea, sia l’autonomia scientifica, sia l’alterità sostanziale dell’ordinamento canonico rispetto agli altri ordinamenti giuridici" .
"Nel campo giuridico l’opera del Gasparri è un capolavoro di esattezza, chiarezza e completezza. Tuttavia ha in qualche modo parzialmente inceppato la città di Dio negli ultimi 50 anni. Ciò che sembrava un monumento di bellezza spesso ha fatto registrare un bilancio passivo piuttosto che attivo… Non bisogna certo fare del codice il capro espiatorio dell’isolamento della Chiesa, ma gli si può addebitare la responsabilità di aver separato, isolato e ridotto a ghetto i cattolici. Difatti il codice considera il mondo come male e i non cattolici come gente da evitare… Il codice è stato criticato dagli ecclesiologi per aver classificato i sacramenti come ‘cose’ res; dai direttori spirituali, per aver stabilito per i religiosi leggi così dettagliate, per cui da alcuni si guarda alla professione religiosa come ad una rinuncia ad ogni capacità creativa; dai vescovi, perché complica la procedura giuridica del matrimonio… dai sacerdoti, perché alla legge penale ha dedicato un intero libro…"

In questa linea di sviluppo è senza dubbio chiara, ed in qualche modo ‘conclusiva’ , la posizione assunta da C.M. Redaelli nel “Colloquio internazionale di Salamanca” (8-14 aprile 1996) proprio in tema di “adozione del principio della codificazione” :
"Una prima conseguenza [della ‘codificazione’] è anzitutto la formale rottura con la tradizione canonica, nonostante il tentativo di evidenziare la continuità con le fonti di essa e la continuità di sostanza che il Codice presenta con il diritto precedente .
Un altro effetto implicato dall’adozione della codificazione è l’accentuazione del principio che la legge vale per se stessa e non per la sua motivazione, che del resto non viene espressa. E’ sufficiente, pertanto, la volontà del legislatore, affinché una legge sia tale; non è necessario ricorrere a principi esterni a essa per giustificarla (principi metagiuridici). E’ l’inevitabile sbocco nel positivismo, parallelo a quanto avvenuto a seguito della promulgazione dei codici statuali: se il Codice è per definizione razionale (mentre la consuetudine deve dimostrarlo: cf. can. 27, § 1), non ha bisogno di ricorrere a una ratio per giustificarsi: vale per se stesso .
Anche le stesse fasi che precedono e seguono la promulgazione del Codice hanno un impressionante parallelismo con il fenomeno della codificazione negli stati europei, ricordato all’inizio: l’imporsi di esigenze pratiche e di visioni teoriche di stampo razionalistico .
La Chiesa ha trovato nella tecnica codificatoria un aiuto pratico per risolvere problemi che per certi aspetti erano analoghi a quelli degli stati (grande dispersione e molteplicità di norme, incapacità di conoscerle e di attuarle, ecc.), ma contemporaneamente ne ha assorbito anche l’ideologia, sia pure mediata attraverso il riferimento al concetto di societas perfecta. L’accoglienza del principio della codificazione da parte della Chiesa non è stata pertanto ideologicamente neutra, né senza conseguenze rilevanti e particolarmente gravi: ha accentuato la visione positivistica del diritto canonico; ha basato la razionalità e l’obbligatorietà della norma sul principio di autorità; ha portato all’emarginazione di ciò che era ed è specifico nella tradizione canonica; ha enfatizzato il centralismo ecclesiale" .

Al di là di queste, ed altre, significative valutazioni appare altresì necessario oggi cercare un nuovo punto di prospettiva metodologica (più ancora che storica) da cui riconsiderare a ‘giochi fermi’ l’effettiva natura e portata della promulgazione nella Chiesa Cattolica del XX sec. di ben tre Codici giuridici canonici .
In quest’ottica va innanzitutto considerato come, tra le caratteristiche assolutamente peculiari che l’Ordinamento canonico possiede, spicchi in modo eminente la continuità della vigenza nel tempo: si tratta infatti dell’unico Ordinamento giuridico del ‘mondo occidentale’ con quasi due millenni di ‘vita’ ininterrotta. Questa peculiarità appare —già da sola— più che sufficiente a giustificare la necessità di assumere in modo circostanziato e ‘critico’ qualunque raffronto con ogni altro Ordinamento giuridico dello stesso ‘ceppo’ (occidentale), sia che si tratti del diritto romano ‘classico’ che di quello bizantino, che dello stesso jus commune medioevale... a maggior ragione tutti gli Ordinamenti giuridici c.d. ‘moderni’ (post illuministi).
Questa consapevolezza rende necessaria, quando s’intendano affrontare temi di ampio respiro giuridico quali la ‘codificazione’, una grande attenzione alla qualità (e consistenza) dei rapporti con i diversi Ordinamenti giuridici che passo passo hanno ‘affiancato’ l’Ordinamento canonico e che ne hanno sempre costituito —di fatto— una sorta di ‘istanza tecnica’ di riferimento/confronto... almeno dall’inizio del secondo millennio cristiano (alla scuola di Irnerio e Graziano a Bologna) .
Risulta pertanto indispensabile ripercorrere, anche se per sommi capi , l’evoluzione del concetto-base di ‘codice/codificazione’ all’interno dell’orizzonte giuridico di derivazione romanistica così com’è andato creandosi e concretizzandosi fino agli inizi del XX sec. quando, pare ai più , anche l’Ordinamento canonico adottò questo strumento di tecnica giuridica.
A questa linea d’indagine di precipua matrice ‘tecnica’ -articolata necessariamente in ambito civilistico- dovrà essere affiancato un secondo percorso investigativo -di carattere più ‘sostanziale’- svolto in ambito canonistico. Occorre tuttavia essere avvertiti che il parallelismo delle due linee investigative risulta tale solo idealmente in quanto, contrariamente alla linea ‘continuativa’ di sviluppo dell’Ordinamento canonico e dei suoi strumenti tecnici, in ambito civilistico sarà necessario (questa è la storia!) transitare da un Ordinamento all’altro, da un luogo ad un altro... rincorrendo le evoluzioni ‘quantiche’ subite dal diritto civile nelle sue diverse configurazioni ordinamentali: romano classico, giustinianeo, jus commune… codificazioni moderne.

A queste considerazioni se ne aggiunga un’altra, di precipua natura metodologica, circa lo strutturale ‘ritardo teoretico’ della scienza giuridica canonistica su quella civilistica.
A partire da quando si può di nuovo parlare di ‘scienza giuridica’ , grazie all’operato dell’Università di Bologna, si deve notare (e tenere in seria considerazione) una sorta di ‘ritardo’ strutturale della scienza canonistica su quella civilistica, tanto sotto il profilo teoretico, che concettuale, che metodologico… il rapporto Irnerio-Graziano insegna!
L’estensione di questa ‘inerzia’ risulta aggirarsi intorno ai 100-150 anni circa, in modo tale che la Canonistica pare recepire idee, concetti, metodologie, dalla scienza giuridica civile con un ‘regolare’ ritardo di oltre un secolo…
Tener conto di questo ‘sfasamento teoretico’ in riferimento all’opera pio-benedettina potrebbe significare il riconoscimento alla c.d. ‘codificazione canonica’ di una sorta di ‘immunità ideologica’ rispetto ai principi razional-positivistici posti alla base della ‘codificazione’ civilistica moderna.
A rendere plausibile quest’ipotesi concorre anche la considerazione del fatto che parte dei ‘tecnici’ che collaborarono alla stesura del C.I.C. ’17 non fosse completamente fornita di una educazione giuridica moderna e alcuni ne fossero anche interamente privi , in quanto la miglior parte della dottrina canonistica del XIX sec., legata alla c.d. ‘Scuola storica’ di origine tedesca, si era manifestata ben poco sensibile alle istanze teoretiche e metodologiche ‘codicistiche’ maturate in ambito civilistico, soprattutto francese.
"Certo potrebbe essere una curiosità da appagare vedere quale influsso abbia esercitato nell’opera legislativa la formazione giuridica dei consultori della codificazione , posti dal legislatore di fronte ad un’opzione radicale (quella appunto per la codificazione), affatto aliena alla tradizione più antica della Chiesa, per realizzare la quale essi dovettero assumere in tutta fretta, da un contesto culturale estraneo al proprio, e senza il tempo di una sufficiente maturazione critica, principi, schemi concettuali e metodi" .

IV. Le tappe della codificazione civile.
a) I primi ‘Codici’

Le prime ‘opere’ che la storia giuridica indica formalmente come “Codici” —a causa della forma di ‘libro’ nella quale furono compilate e diffuse— risalgono alla fine del III sec. d.C.: “Codex Gregorianus” (anno 292-293) e “Codex Hermogenianus” (anno 365 circa); ad essi seguirà nell’anno 438 il “Codex Theodosianus” (prima opera a chiamarsi ‘Codex’), per giungere al Codex per eccellenza nel 529 ad opera dell’Imperatore Giustiniano.

Alla base delle prime due raccolte si colloca l’esigenza pratica di accedere comodamente ai testi delle Costituzioni imperiali divenute ormai, dalla fine del II sec., l’unica fonte attiva del diritto, secondo la massima di Ulpiano: "quod principi placuit legis habet vigorem" ; con Diocleziano, instaurata definitivamente la monarchia assoluta, cessò anche l’attività giurisprudenziale e le Constitutiones divennero la fonte giuridica unica.
In questa fase dell’evoluzione del diritto romano i Codici Gregoriano ed Ermogeniano , contenenti Costituzioni imperiali di prevalente interesse ‘privatistico’ (mandata, decreta, rescripta) a partire dalla fine del II sec., nacquero come raccolte ‘private’ (ad uso dei c.d. ‘pratici’) sulla scia di collezioni similari dell’era classica quale quella attribuita al giureconsulto Papirio Giusto dell’epoca di Marco Aurelio.
Sotto il profilo metodologico il materiale normativo è conservato ‘integro’ ed organizzato secondo l’ordine dell’Editto perpetuo in almeno 14 Libri per il Codice Gregoriano che condensa un secolo di costituzioni imperiali (anni 196-295); il Codice Ermogeniano si presenta, invece, in un unico Libro che abbraccia costituzioni dall’anno 260 al 365, a visibile integrazione della collezione precedente.
"Sotto i governi degli Imperatori Diocleziano e Costantino, cui spettò il compito gravoso del riordinamento dell’impero con radicali riforme amministrative e fiscali, la congerie delle costituzioni imperiali era impressionante, e la certezza del diritto un mito. Si sentì, perciò, il bisogno di raccogliere questo materiale ad uso dei pratici. …Il Codice Gregoriano, di cui l’Ermogeniano fu una evidente integrazione, risposero egregiamente ai bisogni della pratica, com’è dimostrato dai commenti che ebbero nelle scuole e dalla conferma ufficiale che ricevettero dall’Imperatore Teodosio II" .
Queste poche righe del Calasso evidenziano già con chiarezza la natura ‘pratica’ e ‘necessaria’ dello strumento codiciale fin dai suoi primi passi: il ‘Codice’ nasce come strumento operativo di organizzazione del diritto vigente secondo criteri metodologici ispirati a ‘fruibilità’ al fine, soprattutto, di facilitare il reperimento delle ‘fonti’ normative da utilizzarsi nell’attività processuale e nell’insegnamento.

Il Codice Teodosiano (compilazione ufficiale, entrata in vigore il 1° gennaio del 439) raccoglieva in 16 libri —di stampo ‘pratico’— le costituzioni imperiali pubblicate da Costantino in poi ed ancora vigenti, con una forte prevalenza di diritto ‘pubblico’ (edicta e leges generales) , poiché il diritto privato era già condensato nei due Codici precedenti (che Teodosio II mantenne espressamente, riconoscendo loro, in tal modo, valore ufficiale), accanto anche alla c.d. “Legge delle citazioni” (di Teodosio II e Valentiniano III, anno 426 ), che regolava le modalità di ‘accesso’ ed utilizzo della giurisprudenza e della dottrina giuridica .
Sotto il profilo metodologico, la natura ‘ufficiale’ del Codex Theodosianus introduceva nondimeno una certa ‘novità’, che sarebbe divenuta strutturale di ogni altro Codice ufficiale: la decadenza di tutte le norme generali non incluse nel Codice stesso.
Altra ‘novità redazionale’ dev’essere individuata nel permesso (seppur molto limitato rispetto al progetto del 429) accordato ai compilatori per la ‘modifica’ dei testi originali delle Costituzioni quando ciò apparisse necessario per evitare contraddizioni o ripetizioni, o fossero richieste interpolazioni per aggiornare i testi in armonia con l’evoluzione del diritto.
Inviato a Valentiniano III nel 438, ed approvato dal Senato di Roma, ebbe vigore in partibus occidentis ben oltre le soglie del I millennio, contrastando in Italia l’efficacia del successivo diritto giustinianeo sino all’epoca dei Glossatori, e costituendo la base comune per le diverse Leges Romanæ in uso presso i regni barbarici dopo il 580.

b) L’opera di Giustiniano
‘Codificatore’ per eccellenza è ritenuto unanimemente l’Imperatore Romano d’Oriente (come già gli altri ‘codificatori’) Giustiniano I (528 - 565) che riuscì —un secolo dopo— nell’intento di Teodosio II di raccogliere ed organizzare in un’unica ‘Opera’, scientifica e pratica, tutto il diritto che la tradizione di governo, forense e dottrinale romana aveva creato, in vista dello scopo ‘utilitaristico’ di amputare la prolixitas litium, ottenendo citiores litium decisiones. Per far ciò fu richiesta ai compilatori la resecatio di tutto quanto non risultasse utile quantum ad legum soliditatem in modo da ottenere leges certæ et brevi sermone conscriptæindubitatæ et in unum codicem collatæ .
Il diritto su cui lavorò Giustiniano aveva una chiara configurazione: Leges (costituzioni, editti, rescritti, leggi imperiali) e Jura (principi del diritto elaborati dai giuristi), che Giustiniano fece rielaborare ‘fissandolo’ in: Codex, Digestum e Institutiones, considerati come realtà giuridica unitaria e come tale promulgati con valore di leggi imperiali generali.
Nella prospettiva giustinianea il “Novus Iustinianus Codex” non era altro che lo ‘stato dell’arte’ del vigente “jus ab auctoritate positum”, quello che oggi —non senza incongruenze— viene indicato come ‘diritto positivo’ , senza per altro intenzione alcuna di negare la portata giuridica degli “jura”: lo jus non-positum, i principi generali del diritto, che integrano a pieno titolo il Codex ‘complementando’ quanto le Leges lasciavano inespresso; al Digestum stesso, anzi, venne attribuita natura ‘codiciale’: "omnem Romanan sanctionem et colligere et emendare et tot auctorum dispensa volumina uno codice indita ostendere" tanto che i brani giurisprudenziali prescelti per il Digesto dovevano essere assimilati alle Costituzioni imperiali "quasi et eorum studia ex principalibus constitutionibus profecta et a nostro divino fuerat ore profusa" (§6).
Con ogni evidenza l’inventore del Corpus non aveva nessuna idea di identificare il Codex con lo jus, né di ridurre lo jus alla sola lex, come avvenne invece dal XIX sec. in Europa.
L’esclusività delle tre ‘leggi generali’ emanate da Giustiniano riguardava unicamente il rapporto con le loro stesse ‘fonti’ —Leges et Jura— che, in quanto ‘assorbite’ nel Codex, nel Digestum e nelle Institutiones, restavano automaticamente ‘escluse’ dal diritto vigente. La natura ‘novatoria’ (e non ‘creativa’) del Codex giustinianeo è pienamente confermata dall’autonomia assegnata alle Novellæ Constitutiones che, non appartenendo legittimamente allo jus vetus, non dovevano essere integrate nel Codex. La visione del diritto come ‘corpus’ permetteva anche metodologicamente questo non necessario aggiornamento del Codex col progressivo mutare delle leggi: al Codex (jus novum) veniva semplicemente affiancandosi lo jus novissimum costituito dalle più recenti Costituzioni imperiali.

Oltre queste semplici considerazioni sul ‘cuore’ dell’opera codificatoria di Giustiniano va segnalato un ulteriore aspetto che costituirà per lunghi secoli un’indubitabile istanza di ‘credito’ della sua Opera all’interno dell’Imperium medioevale: la ‘cristianizzazione’ del diritto romano.
Giustiniano, Imperatore per beneplacito divino , rappresenta su questa terra la sovranità ‘sociale’ di Dio ed offre al popolo cristiano un esemplare equilibrio tra l’intramontabile sapientia giuridica dell’antica Roma e le esigenze, soprattutto morali, della nuova fede cristiana, assurta da oltre 150 anni a religio Imperii .
"L’essenza del nuovo diritto si deve ricercare in qualche cosa di superiore, e precisamente nell’elemento religioso, che pervadeva tutta la vita sociale del tempo. La società dell’epoca di Giustiniano, più che orientale o romana, è cristiana, e pertanto la qualifica che meglio si conviene alla compilazione giustinianea è quella di romano-cristiana, giacché tutti i fattori poterono influire sul diritto giustinianeo passando attraverso il filtro del cristianesimo" .
In questa prospettiva il Codex giustinianeo otterrà e conserverà attraverso il medioevo un proprio status del tutto specifico, ben al di là del confronto e delle dispute sullo jus commune che giungeranno fin oltre le soglie della modernità .

c) Il ‘Codice’ nel medioevo
Il sostanziale isolamento in cui ben presto si trovò confinata la parte orientale dell’Impero romano, nello sforzo (efficace) di resistere alla pressione dei popolo barbarici, finì per isolarla progressivamente dalle vicende del resto dell’Impero che divennero, più tardi, le vicende dell’Europa stessa e, più generalmente, del c.d. ‘Occidente’ fin oltre il termine del medioevo.
Il progressivo tracollo dell’Impero Romano d’Occidente fino al suo scioglimento nel 480 d.C. ebbe significative ripercussioni anche sotto il profilo giuridico, generale e specifico: il Codex Theodosianus promulgato da Roma all’inizio del V sec. raggiunse la maggior parte dei territori romanizzati dell’Europa, divenendo —forzosamente— l’ultima realizzazione giuridica ‘sistematica’ prima del crollo sotto i colpi dei barbari germanici. Di fatto solo l’Italia, terreno di riconquista imperiale “legibus et armis”, conobbe e recepì l’opera giustinianea attraverso la “Pragmatica sanctio” del 554.
I molti Regni barbarici che si succedettero —anche sugli stessi territori in capo a pochi decenni— stravolsero completamente l’assetto giuridico (anche privatistico) del decaduto Impero di Roma riportando l’istituzionalità dei territori europei a livelli tribali. Una caratteristica tuttavia, peculiare del diritto antico, salvò in gran parte i monumenta giuridici della romanità: la ‘personalità del diritto’ permise infatti ai ‘vinti’ di continuare a regolarsi tra loro con le ‘proprie’ leggi (diritto privato); nacquero così le varie Lex Romana Wisigothorum, Lex Romana Burgundiorum, Lex Romana Rætica Curiensis, fondate sull’uno o l’altro Codex a seconda delle zone geografiche. I popoli germanici, da parte loro, continuarono ad osservare le proprie consuetudini tramandate oralmente.
La progressiva introduzione del modello feudale, e la nascita di un Impero feudale come quello carolingio, favorirono una sostanziale stabilizzazione giuridica caratterizzata dalla non-organicità amministrativa e retta quasi esclusivamente da rapporti fiduciali personali tra i diversi ‘livelli’ della piramide feudale; l’Imperium, lungi dall’essere una modalità organizzativa dell’apparato statale, si concretizzava in una quantità di patti personali di natura ‘beneficiale’ che garantivano la sufficiente e necessaria stabilità degli equilibri di forze tra i diversi ‘signori’ locali .
Nel XII sec. tuttavia iniziò a sentirsi, da parte imperiale, la necessità di esercitare un controllo più organico e sistematico sull’intero territorio dell’Impero, non bastando più i ‘semplici’ patti di vassallaggio, dovendo controllare anche fenomeni ‘disgregativi’ quali: la Riforma della Chiesa (Lotta per le investiture/Riforma Gregoriana), l’ereditarietà dei feudi e l’insubordinazione comunale. Il ricorso ad uno strumento istituzionale più forte ed efficace delle semplici investiture feudali era ormai pronto: si profilava così un ritorno in grande onore dello spodestato diritto imperiale romano.
Il quadro politico e la necessità istituzionale s’incontrarono felicemente coi risultati migliori dell’incipiente attività universitaria: la ‘ricostruzione’, ad opera del bolognese Irnerio, del Corpus Juris dell’Imperatore Giustiniano; la comune necessità —bolognese ed imperiale— fece il resto: nel 1158 i “Quattuor Doctores” attribuirono a Federico Barbarossa le prerogative imperiali giustinianee, ricevendone concessioni di giurisdizione accademica .
Il Corpus Juris, divenne così instrumentum unitatis dell’Impero germanico, assurgendo al ruolo di Jus commune per i territori dell’Impero in costante e progressiva tensione coi diversi Jura particularia ormai propri dell’immane frammentazione amministrativa e giurisdizionale dell’Impero germanico. Una sapiente operazione culturale e politica aveva così permesso di disporre di un necessario strumento giuridico di alto profilo ‘integrativo’ ed unificatorio, ad oltre sei secoli dalla sua prima comparsa.

Ciò che risulta rilevante sotto il profilo metodologico e sostanziale, al di là dell’immensa tematica propria dello Jus commune, è semplicemente un ‘fatto’: la ‘periodica’ e ‘necessaria’ adozione di uno strumento ‘codiciale’… quasi ‘indipendentemente’ dalla sua stessa origine .
Diventa pertanto necessario considerare, da questo momento, come nel sentire giuridico generale della Christianitas (ecclesiastica in particolare) il termine ‘codex’ abbia stabilmente evocato per vari secoli l’opera giustinianea, pilastro indiscusso dell’utriusque jus in cui si articolava il ‘diritto comune’ messo in crisi nei suoi fondamenti dall’Illuminismo settecentesco.

d) La crisi del diritto comune
La crisi dell’Impero ‘sacro’ e ‘romano’, il consolidarsi degli Stati nazionali e confessionali, la fine dell’una Christianitas, il declino dell’istituto feudale e dei liberi Comuni, l’insorgere di Regni, Signorie e Principati —anche di modeste estensioni territoriali ma di chiara ‘ispirazione politica’— contribuirono —dal XVI sec.— al trionfo di un nuovo ‘particolarismo giuridico’ in realtà già intrinseco al c.d. “Sistema dello Jus commune”, basato di fatto sullo Jus proprium di una miriade di soggetti ‘amministrativi’ autonomi (Chiesa, Comuni, Corporazioni, Feudi, Libere Città, Principati, Regni… ecc.) cui il diritto giustinianeo (commune) offriva sempre più un apporto soltanto ‘supplettivo’.
Lo stato delle ‘fonti’ giuridiche risultava ovunque bisognoso di riforma; i vari sistemi giuridici infatti, fondati su fonti normative concorrenti (legislazione principesca/regia, consuetudini, statuti locali, privilegi di categoria, diritto romano ‘comune’ in forma supplettiva), risultavano ormai praticamente ingovernabili:
"il diritto generale ammetteva una grande varietà di deroghe a favore di diritti particolari derivanti da privilegi, antiche consuetudini, categorie di persone, ecc. e la situazione era aggravata dal problema dei rapporti tra il diritto generale e il diritto canonico soprattutto in materia penale ove si manifestavano conflitti di giurisdizione (in particolare in materia di reati religiosi).
Sotto il profilo del diritto soggettivo si riscontra una notevole pluralità di soggetti di diritto con discipline diverse e differenti capacità giuridiche. …Ci sono poi da rilevare le differenze di disciplina soggettiva connesse all’appartenenza a diverse classi sociali: nobiltà, borghesia, classe contadina. …Bene si comprende, data pur in via esemplificativa la varietà dei diritti soggettivi, come fosse disomogeneo il quadro dell’ordinamento giuridico. Se poi si aggiungono l’immensa mole delle opinioni dottrinarie, le soluzioni giurisprudenziali, il coacervo delle fonti normative - dritto comune, norme statali e locali, diritto speciale - la loro dispersione ed illeggibilità, possiamo immaginare come l’amministrazione della giustizia fosse diventata ingestibile e gli stessi operatori legali —giudici, avvocati, notai— non fossero in grado di muoversi con la necessaria sicurezza" .
Sul fronte politico, intanto, il progressivo accentrarsi dello Stato moderno, col proliferare di dottrine volte a giustificare l’autocrazia di governo —in una prospettiva assolutista, statalista e monocentrica— portò il ‘diritto comune’ al tracollo istituzionale. Ad esso veniva infatti contrapponendosi un nuovo concetto di diritto come legge dello Stato sovrano, unico produttore (esclusivo ed autoritario) della ‘propria’ norma giuridica. Lo Stato moderno —superiorem non recognoscens— tese a porsi come unica fonte del diritto (statualizzazione del diritto) condizionando la rilevanza giuridica di qualunque normativa non proveniente dal sovrano al requisito della recezione o del rinvio formale .
"Quando nel Cinquecento, la monarchia francese cominciò a consolidarsi all’interno, limitando da un lato le antiche autonomie locali, amministrative ed economiche, e i privilegi feudali e promuovendo dall’altro la formazione di uno stato burocratico e centralizzato a economia nazionale, il vecchio assetto giuridico apparve un ostacolo da superare. …Nel moto storico di formazione dello Stato moderno era in un certo senso necessariamente implicita la tendenza ad instaurare un sistema giuridico diverso. Nella stessa epoca in cui nel campo politico si presenta sempre più accentuato il movimento per la costituzione di Stati accentrati e unitari, sempre più insofferenti della persistenza nel loro seno di organismi autonomi, comunali e feudali, cominciò a delinearsi sempre più decisamente anche il movimento volto a eliminare la molteplicità delle fonti giuridiche esistenti e diretto a formare un corpo di leggi unico, unitario ed uniforme per tutti i territori dello Stato. …L’esigenza diffusa tra i giuristi francesi e tedeschi del sec. XVI di elaborare sistemi giuridici dottrinali, unitari e ben concatenati, non era quindi soltanto espressione di un’aspirazione di carattere culturale, ma era nello stesso tempo la manifestazione di un bisogno di carattere politico legislativo, sorto dalle necessità concrete della politica degli Stati europei" .

Mancava tuttavia, ancora, il giusto ambiente culturale e ‘tecnico’ in cui queste istanze potessero essere accolte ed affrontate efficacemente; fu l’Umanesimo rinascimentale, con la sua grande attenzione storica al ‘mondo antico’, ad imprimere un nuovo corso agli studi giuridici in tutta Europa preparando una via d’uscita dalla degenerazione del diritto comune.
I giuristi umanisti del XVI sec., forti di nuovi presupposti culturali e scientifici —dati soprattutto dal deciso ritorno critico alle ‘fonti originarie’—, svilupparono una forte critica all’opera della giurisprudenza medioevale e al metodo ‘scientifico’ dei Commentatori italiani , spingendosi fino alla critica metodologica contro l’opera di Triboniano ed alla polemica nei confronti del diritto comune, le cui basi essenziali erano in quei principi che i bartolisti avrebbero frainteso e confuso attraverso la loro opera di interpretazione .

e) Le codificazioni pre-moderne
Il forte ricorso alla ‘ragione naturale’ che aveva impregnato la Scolastica fin dalle sue origini permettendole, anche attraverso gli apporti della ‘logica aristotelica’, di creare un vero ‘sistema’ del sapere —cardine della scientificità pre-moderna— approdò progressivamente ad un vero dominio della ‘ragion naturale’ (sia in campo cattolico con Suarez, che protestante con Grozio) la quale, in ambito giuridico assunse le fattezze del Giusnaturalismo che s’impose sempre più ai sistemi occidentali articolandoli intorno all’idea di un diritto naturale, razionale ed universalmente valido.
"Costantemente accettato come il diritto per eccellenza, come ratio scripta, il diritto romano non avrebbe dovuto mancare, secondo il giudizio degli studiosi dell’età moderna, di quella perfezione razionale il cui ideale era presente ad essi sotto la specie del diritto naturale: il diritto assolutamente vero, dedotto dalla ragione secondo la convinzione dell’epoca, con lo stesso rigore con cui ne vengono dedotte le verità matematiche. Di qui la tendenza, che si riscontra frequentemente tra il Sei ed il Settecento, a trasfigurare il diritto romano in diritto naturale, conferendogli quell’intrinseca logicità e quella razionale sistematicità che si scorgevano in quest’ultimo; sicché, accanto al processo volto a rendere positivo il diritto naturale, se ne ha uno inverso che tende a rendere “naturale”, cioè assoluto, il diritto positivo, che è il diritto romano vigente come diritto comune" .

I secoli XVII e XVIII intensificarono lo sforzo di mettere ordine nelle fonti legislative generali, tanto attraverso raccolte ‘private’ che riformulazioni ufficiali, giungendo a tentativi già —semplicisticamente— indicati come ‘codificazioni’, nonostante la caratterizzazione sostanziale della ‘codificazione’ moderna dovesse ancora apparire.
Concretizzando il nuovo indirizzo dottrinale e politico, in tutt’Europa dal 1588 (Code Henri III) al 1789 (Codice Carolino) fu un continuo susseguirsi di progetti di ‘codificazione’ del diritto vigente, anche se tali ‘Codici’ non giunsero spesso a nessun reale risultato in quanto neppure assunti ufficialmente dalle autorità di governo (che pure li avevano ‘richiesti’) ; più ampia ancora risultò la stessa opera di ‘codificazione’ privata e pubblica che, tuttavia, non si fregiò dell’appellativo di ‘Codice’.
Vanno collocati in questo contesto anche i diversi sforzi intrapresi già da alcuni secoli nelle Regioni di matrice giuridica germanistica per la ‘raccolta’ ed organizzazione del c.d. Droit coutumier in vista di una semplificazione del regime positivo e di una ‘esaltazione’ del diritto nazionale.
"Sembra che lo scopo delle codificazioni, o dei progetti di codificazione, della prima metà del XVIII secolo sia esclusivamente quello della raccolta e della riformulazione delle fonti normative esistenti per offrire un quadro più organico ove la legge si mostri più chiara, più facilmente leggibile, in qualche punto, talvolta —e questo rappresenta il massimo impegno del principe— aggiornata e adattata alle necessità dei tempi nuovi, in funzione delle istanze della pratica; tutto ciò per una migliore conduzione della giustizia al fine di garantire quella “pubblica felicità” dei sudditi che è obiettivo cui tende il sovrano assoluto “illuminato” a dimostrazione del suo impegno sociale basato soprattutto su un generoso paternalismo: le motivazioni politiche e sociali di un nuovo regime giuridico che modifichi la costruzione del sistema sono del tutto assenti" .

Per indicare e definire queste raccolte normative anteriori ai Codici moderni —e da essi formalmente e sostanzialmente distinte— fu introdotto nella prima metà del Novecento il termine/concetto di “consolidazione” ad indicare una raccolta sistematica o cronologica di materiale legislativo omogeneo antecedente ed ancora in vigore eventualmente modificato e adattato secondo l’esigenza del tempo .
Sotto questa luce si evidenziano chiaramente la sostanziale ‘omogeneità’, continuità e stabilità del concetto di ‘Codice’ lungo i secoli …a partire dal Codex Gregorianus fino alla Rivoluzione francese.
Né risulta sufficiente a mutarne la ‘natura’ e la portata l’enfasi sull’elemento ‘politico-istituzionale’ proprio del sorgere dell’assolutismo nazionalista del secolo XVI. La paventata ‘novità’, infatti, che qualche autore vuole scorgere nel pensiero giuridico umanista: l’unificazione giuridica nazionale contro il particolarismo medioevale , apparteneva già alle origini stesse del Codex quando l’Imperatore Giustiniano enunciò il suo programma di unificazione e compattamento dell’Impero Romano “legibus et armis” ; la stessa dottrina ‘bolognese’ dell’identificazione degli “jura regalia” imperiali col diritto romano giustinianeo conferma la strutturalità di questa dimensione dello strumento codiciale.
Allo stesso modo anche la polemica umanista contro i difetti e le sciagure dell’interpretazione giurisprudenziale e dottrinale non risulta affatto nuova nella ‘fisiologia’ giuridica occidentale: già Teodosio II aveva dovuto intervenire in merito con la c.d. “Legge delle citazioni” e tutto il Digestum di Giustiniano altro non voleva essere che il consolidatum dell’immenso patrimonio degli Jura, dei quali si era proibito ogni commentario.

Di fatto, come sin qui illustrato, poiché fino a Napoleone il termine ‘Codice’ ha avuto il proprio autorevole referente in Giustiniano , è davvero possibile garantire con certezza che la data del 1804 sia stata in sé ‘sufficiente’ a far compiere —ed acquisire— all’intero mondo giuridico (occidentale) un ‘salto’ di referenza tecnica e teoretica quale viene oggi attribuito al termine ‘codificazione’?
Tanto più che, proprio a partire dall’Illuminismo, col rifiuto dello jus commune (civile e canonico), si è consumato il ‘divorzio’ teoretico e scientifico tra i due rami del diritto, e la scienza giuridica canonica ha subito (fino alla ‘codificazione’ del 1917) un notevole rallentamento nei propri presupposti e nelle proprie espressioni, preferendo dedicarsi allo Jus Publicum Ecclesiasticum (externum) ed alla storia del diritto canonico! …Senza ignorare neppure il duro contesto antimodernista in cui tale ‘codificazione’ avvenne .

f) I presupposti teoretici della Codificazione moderna
E’ ormai consapevolezza comune e diffusa che l’Illuminismo costituisca il ‘valico’ tra due ‘fasi’ assolutamente differenti della cultura —non solo giuridica— occidentale: 1) il lungo medioevo conclusosi col ricupero della ‘classicità’ nell’Umanesimo rinascimentale, 2) l’epoca moderna da cui ancora continuiamo a dipendere in vasti settori della scienza, della filosofia e della cultura in genere.
In ambito giuridico l’Illuminismo portò a maturazione i frutti di un modo nuovo di approcciare la ‘ragione umana’, i suoi presupposti ed i suoi ‘risultati’; la ragione umana, ormai ‘svezzata’, si avventurava così alla ricerca di nuovi “perchè”, ben più convincenti degli inveterati “ipse dixit”, unico ‘dato’ disponibile nei millenni presso le c.d. Auctoritates, antiche e nuove.
L’innovativo ‘fulgore’ della ‘ragione umana’ contribuì, senza dubbio, in modo definitivo a spegnere le ultime ‘braci’ dell’altare universale attraverso cui ogni realtà ‘creata’ o era riflesso del sacrum o tale diventava; il Razionalismo, nelle sue varie espressioni demitizzanti, iniziò così la propria opera di riduzione del monismo teocentrico tipico dell’umanità ancora in fasce (almeno secondo gli indirizzi e le convinzioni dei suoi teorici).
Questa linea di sviluppo portò in ambito giuridico alla nascita di nuovi concetti, nuove teorie, nuovi principi e valori, tutti saldamente ancorati alla ragione umana .
Al Giusnaturalismo si affiancarono ben presto altre ‘matrici’ filosofiche che parteciparono, a diverso titolo, a costruire la ‘cornice’ della codificazione giuridica moderna; si tratta delle dottrine filosofiche di Pufendorf (Thomasius, Barbeyrac, Burlamaqui), Leibniz (Wolff), Montesquieu, Voltaire, Rousseau e tanti altri, pur secondo prospettive non sempre concordi …almeno in quanto a principi; quasi sorprendente appare, invece, il ‘risultato’ finale unanime: una nuova codificazione.
"Il punto comune ai pur diversi atteggiamenti del pensiero riformatore settecentesco europeo è rappresentato dalla preminenza della legge nel sistema delle fonti giuridiche. La legge è un’espressione della ragione umana: anzi, è la ragione stessa. La legge è razionale in quanto esiste un diritto naturale universale superiore a tutte le leggi date nel corso della storia.
…La ragione appare un dato oggettivo che opera su due piani: prescrive la concentrazione “assoluta” del potere politico e guida, “illumina” l’esercizio di tale potere. …Il diritto consiste in un comando sovrano, che è atto di volontà di un potere che lo impone: questo comando, essendo frutto di una volontà razionale, darà vita ad un insieme di dettami razionali, chiari e unitari" .

Pufendorf formulò la propria dottrina partendo da una visione volontaristica del diritto: il diritto è ‘volontà’ dell’autorità suprema; conseguenza fondamentale di questa impostazione è la mutevolezza del diritto lungo lo scorrere del tempo: il ‘valore’ del diritto non dipende quindi dalla sua vetustà e stabilità lungo i secoli ma —al contrario— dalla sua ‘novità’ …il diritto è tanto più ‘vero’ quanto più è ‘nuovo’. Il ruolo —volontaristico— della suprema autorità legislativa rafforza anche il presupposto della co-estensione del diritto con la giurisdizione dello Stato, superando così ogni particolarismo amministrativo e giuridico, conferendo al diritto portata generale.
Dalla ‘volontarietà’ del diritto discendono altre due conseguenze: l’imperativismo e lo psicologismo; la natura imperativa del diritto (legge=comando) impone che i sudditi la debbano/possano conoscere con esattezza per poterla osservare, ecco dunque la necessità che le legge sia chiara, semplice e non interpretabile; se il diritto, poi, esprime volontà sovrana, non si dà interpretazione delle norme da parte di nessuno, basta —semplicemente— ricercare e conoscere la voluntas legislatoris . Realizzazione precipua di questa teoria fu il c.d. “Codice Fredericiano” del 1751, curato da Samuele Cocceio, ma non reso vigente a causa della sua inapplicabilità pratica alla vita reale.

Secondo Leibniz il diritto è un ‘dato’ e la sua conoscenza è del tutto identica ad ogni altra conoscenza umana; ogni problema giuridico deve pertanto avere una risposta sicura ricavata per via logica da premesse certe attraverso le normali metodologie scientifiche.
La natura del diritto è ‘descrittiva’: le proposizioni giuridiche sono perciò tali non perché comandate o volute ma —semplicemente— in quanto ‘vere’; ne discende che il diritto è coerente e non ammette contraddizioni, le proposizioni giuridiche sono reciprocamente connesse in modo logico, il diritto ‘mancante’ si ricava per deduzione logica da quello già ‘noto’.
Un diritto di questo genere si presenta, quindi, in modo ‘sistematico’, poiché le proposizioni giuridiche si dispongono secondo un ordine, dagli assiomi generali e fondamentali alle proposizioni più particolari, in modo che ciascuna proposizione è in relazione sistematica, logica e concettuale con tutte le altre .

Montesquieu analizzando le istituzioni di diverse società riconduce la diversità delle leggi alla natura stessa dell’uomo in rapporto al contesto di appartenenza: la pratica politica deve perciò tener conto dei condizionamenti extragiuridici, delle peculiarità delle differenti società e della loro storia. Il grande pensatore francese, pur nella convinzione che l’insieme dei fenomeni sociali sia determinato da una ‘ragione originaria’ che regola l’universo, supera però il Giusnaturalismo rilevando un legame diretto tra popolo e diritto, che appare come l’insieme di leggi politiche e civili di ciascun popolo; non c’è un ‘diritto naturale’ unico per tutti i luoghi e tutti i tempi!
La legge è vista, pertanto, come rapporto necessario, uguale per tutti i membri dello stesso popolo: ‘rapporto necessario di giustizia’ derivante dal ‘diritto di ragione’ o dalla ‘natura’ stessa (la costituzione dell’essere umano) o dalla volontà del legislatore politico (legge positiva); le leggi positive sono quindi relazioni ‘naturali’ che si determinano nella società .
Il controllo in chiave anti-dispotica del diritto di ciascun popolo si ottiene attraverso la separazione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario); è così bandita l’interpretazione giuridica, vista come creazione di ‘nuovo diritto’ (non legittima per giudici e governati), e la scienza giuridica viene posta a servizio del legislatore che deve legiferare secondo scienza (la conoscenza, cioè, dei rapporti necessari tra le cose) .

La ‘lotta’ di Voltaire per affermare la ‘libertà dell’uomo’, pur non essendo di matrice giuridica, diede tuttavia ampio spazio alla polemica contro ogni restrizione: religione, istituzioni, tradizione …ed anche il diritto.
Per Voltaire il diritto naturale (universale ed eterno) è fondato su pochi divieti e molte libertà, mentre il diritto positivo vigente non era affatto un ‘completamento del diritto naturale’ ma una creazione di uomini rozzi ed interessati. Occorre perciò creare un nuovo diritto positivo, poiché libertà è vivere in un sistema governato da leggi. Il compito della nuova creazione legislativa (in rottura col regime precedente) spetta al monarca ‘illuminato’ che produrrà una legge ragionevole per garantire la libertà naturale dell’uomo. Questo diritto, unico per tutto il Paese, dovrà essere applicato e non interpretato altrimenti sarà la volontà (e l’interesse) dei singoli a prevalere, giudici e giuristi si trasformerebbero di nuovo in altrettanti legislatori creando nuovo relativismo giuridico .

Anche J.J. Rousseau entra in tema col suo ‘contrattualismo sociale’ attraverso cui propone un’alternativa al ‘contratto volontario’ di matrice giusnaturalista; il ‘contratto sociale’, infatti, non fissa la volontà dei contraenti ma è l’unica regola in cui può tradursi —secondo ragione— il rapporto esistente tra i soggetti, ed è regola che non deriva dalla volontà dei contraenti ma nasce dalla ragione per il fatto stesso che gli uomini appartengono ad una società. Il contratto sociale diventa così l’eterna immutabile razionalità della convivenza sociale che —se pur violata— non può essere annullata sul piano del diritto e resta in eterno. La legge costituisce la formula delle relazioni nello stato civile ove tutti i diritti sono stabiliti dalla legge: legge che è generale perché la volontà generale non può avere oggetto particolare ed è quindi anche astratta per non riferirsi a nessun caso concreto .

A queste linee propositive di nuove e specifiche impostazioni teoretiche va affiancata anche l’attività fortemente critica verso il vecchio regime normativo promossa da esponenti dell’Illuminismo giuridico, soprattutto italiano, quali Muratori, Rapolla, Di Gennaro; le loro opere contribuirono notevolmente al ‘collasso’ ab intrinseco del sistema dello Jus commune soprattutto per quanto riguardava l’aspetto giurisprudenziale e la gestione concreta del sistema giudiziario. La portata di queste posizioni critiche appare tanto più efficace quanto non direttamente implicante un nuovo assetto istituzionale (rivoluzionario) e, quindi, con una propria plausibile necessità anche all’interno di regimi di stampo conservatore come quelli pre-napoleonici o della stessa Restaurazione.

Il raffronto con le dottrine riformistiche dell’Umanesimo cinque-seicentesco rivela chiaramente come il concetto di ‘codificazione’ giunto alle soglie della modernità fosse quello ‘originario’ di consolidamento delle fonti giuridiche, della giurisprudenza e della dottrina pregresse, mentre fu solo dall’Illuminismo razionalista dei secoli XVII-XVIII, e dal Positivismo che ne seguì, che il concetto di ‘codificazione’ acquistò una nuova ‘anima’ giusnaturalistica e volontaristica: base del Codex non furono più le fonti precedenti ma l’autorità ed il ‘diritto naturale’ che la ragione conosce ed esplicita nella Lex promulgata dal legislatore.

g) Le peculiarità della Codificazione moderna
Il frutto cumulativo delle diverse dottrine scaturite dall’Illuminismo nelle varie parti d’Europa fu un plebiscito ‘tecnico’ a favore di leggi : semplici, chiare, poche, brevi e succinte.
La riforma appariva ormai improcrastinabile anche sotto il profilo politico, tanto più che il nuovo strumento —di per sé altamente equivoco— rendeva di fatto concordi rivoluzionari e conservatori, tanto sul piano teoretico che su quello politico-istituzionale e la soluzione ovunque invocata aveva lo stesso nome: “Codice” .
La ‘codificazione’ moderna, figlia delle diverse dottrine gius-razionalistiche, esige dunque per tutto il diritto, pubblico e privato, una sola fonte: la volontà del legislatore incarnata nella legge, dominata dalla ragione, in modo che i principi legislativi rappresentino i grandi principi razionali: uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, unicità del diritto, abolizione di ogni particolarismo giuridico, formazione di un corpo legislativo generale, semplice, chiaro che ognuno possa capire senza intermediazioni.
Fulcro metodologico del nuovo sistema giuridico è la ‘regola legale’ che si pone ad uguale distanza tra la decisione del giudice ed il principio generale ed astratto: né troppo casuistica, né troppo generale; tale da non risolvere tutte le questioni possibili ma capace altresì di offrire una serie di regole giuridiche (coordinate tra loro in un sistema) tali da fornire in modo semplice e chiaro una soluzione alle questioni che possono presentarsi .

Modello, prototipo e realizzazione ‘tipica’ di questo nuovo strumento legislativo fu il “Code civil” francese del 1804 , presentato come ‘creazione’ dell’Empereur ma elaborato in oltre 10 anni fin dai tempi di Robespierre; in esso i principi caratterizzanti la ‘codificazione’ presero corpo secondo modalità che ‘fecero scuola’ ad ogni altra codificazione moderna.
S L’uguaglianza del cittadino davanti alla legge è il primo assunto della codificazione moderna. L’ideologia ugualitaria, sviluppatasi lungo il ’700 ed arricchita politicamente dalla Rivoluzione francese, era divenuta ormai ugualitarismo giuridico; il diritto aveva ora un solo ‘soggetto’: il cittadino, cui il Codice attribuiva ‘predicati giuridici’; in tal modo la legge disciplinava non più le persone ma i loro ‘atti’, semplificando una pratica normativa dipendente, fino a quel momento, dal ceto, dal mestiere, dalla cittadinanza, dalla religione… ecc.
S L’unicità del diritto è legata direttamente all’idea di razionale completezza ed organicità del Codice, che s’impone come lo snodo centrale della giuridicità moderna: il Codice contiene tutto l’universo giuridico ed è atto a risolvere ogni conflitto —anche quello non previsto dal legislatore—, senza necessità di fonti suppletive o apporti giurisprudenziali (sempre incerti ed ‘interessati’) privi di valore giuridico, poiché questo risiede solo nel comando degli organi legislativi dello Stato .
S La funzione unificatrice è elemento peculiare della codificazione, tanto in ambito istituzionale, che geografico, che sociale. Superando il frazionamento giuridico dovuto alla pluralità delle fonti legislative, il Codice si sostituisce ad una miriade di norme sulla base di un modello teorico che riassume e struttura la materia giuridica in un ‘sistema’, che ha come referente unico il legislatore statale. L’unicità del Codice, poi, sopprime tutte le fonti giuridiche ‘locali’, così come quelle ‘personali’, abolendo i c.d. ‘stati’ (nobiltà, borghesia, clero) all’interno dell’organizzazione sociale .
S La chiarezza della legge garantisce ad ogni cittadino il proprio diritto e la propria ‘libertà’, rappresentando anche la miglior tutela da ogni forma di arbitrio personale. La legge dev’essere priva di ambiguità, lacune e contraddizioni; la sua applicazione sarà così omogenea ed univoca senza relativizzare il diritto o metterne in pericolo la ‘certezza’ attraverso l’interpretazione dei giuristi, che non possono sostituirsi al legislatore .

A conclusione di questo semplice, ma articolato, percorso lungo l’evoluzione dello strumento giuridico civilistico detto ‘Codice’, esplicitate soprattutto le premesse teoretiche e le scelte metodologiche caratterizzanti essenzialmente la codificazione civile moderna, prende corpo un serio dubbio circa l’omogeneità —e ‘compatibilità’— ideale ed operativa tra questo ‘strumento’ e l’opera voluta da Papa Pio X , che la conoscenza del percorso evolutivo della tecnica giuridica canonica contribuirà a rafforzare o fugare definitivamente.

V. Le tappe della ‘consolidazione’ canonica
a) I primi passi: la Collectio Dionysiana
Primo passo della c.d. ‘codificazione canonica’ fu senza dubbio l’opera di “Dionigi il piccolo”, monaco di origine orientale ma operante nella Curia romana, che curò agli inizi del VI sec. —in piena attività ‘codificatoria’ per il diritto civile orientale— una raccolta di Canoni conciliari e Decretali pontificie.
Le due collezioni formavano, nell’intenzione del loro compilatore, un unico Corpus Juris universale; come tali furono sempre conservate e tramandate insieme, indicandole con l’unico nome di “Codex canonum” o “Corpus canonum”. Papa Zaccaria in una lettera a Pipino del 747 le indica come “Liber Canonum” e “Liber decretorum” utilizzando una denominazione più antica ancora oggi in uso per indicare le due ‘parti’ della c.d. “Collectio Dionysiana”.
Pregio dell’opera di Dionigi non fu solo l’ottima traduzione dal greco dei canoni dei Concili ecumenici ma anche i criteri formali e sistematici utilizzati per ordinare i diversi testi, soprattutto pontifici, finemente selezionati per recepire le sole materie giuridiche di portata ‘universale’, distinguendosi così chiaramente dagli scritti ‘disciplinari’ più antichi i cui contenuti normativi erano spesso anche dogmatici o liturgici e non ‘specificamente’ giuridici; ciò fece della Collectio Dionysiana un punto di riferimento certo per la Chiesa di Roma lungo i secoli, fino a quando Papa Adriano I (anno 774) la consegnò anche a Carlo Magno —futuro Imperatore— quale Collezione giuridica ufficiale della Chiesa Romana (Collectio Hadriana) .
Il nuovo strumento normativo costituiva il ‘massimo’ raggiungibile per quei tempi e contribuì non poco —come tutti gli altri dello stesso genere— ad accrescere il prestigio della Sede romana, spiccando nettamente tra le altre raccolte di Concili e Sinodi africani, italici ed ispanici che andavano crescendo un po’ dovunque nella Chiesa d’Occidente .

b) Lo snodo decisivo: il Decretum Gratiani
Elemento decisivo nell’ottica adottata per questo studio è senza dubbio l’analisi della ‘sorte’ subita dal Decretum Gratiani che, da strumento di docenza di natura giurisprudenziale, si trovò ben presto, suo malgrado, ad assumere (vista la sua estensione: 3458 capitula, nei testi manoscritti) la funzione di jus consolidatum rispetto alla disciplina canonistica del primo millennio cristiano, secondo l’espressione dello Stickler: "terminus ad quem e terminus a quo" . Nell’immenso oceano dispositivo, universale e particolare, della Christianitas medioevale la quantità e qualità delle norme e disposizioni dell’autorità ecclesiastica e civile confluite nell’unum sacrum Imperium poneva certo problemi notevoli nell’individuare non tanto la lex (canonica), di fatto inesistente —almeno secondo gli elementi individuanti oggi questa categoria normativa—, ma anche il solo jus cui riferirsi nelle diverse circostanze operative; a questo si aggiunga la congerie di ‘false’ Decretali e Capitularia nati a tutela della libertas Ecclesiæ nel contesto della ‘Lotta per le investiture’ da poco terminata con il Concordato di Worms.
La “Concordia discordantium canonum” (questo pare fosse il titolo originale) si presentò agli studenti bolognesi come uno strumento didattico nato per guidarli nel difficile compito di ‘riconoscere’ la qualità del materiale normativo vigente e di saperne dare una lettura ed applicazione ‘attuale’. La stessa struttura dell’opera, articolata in Distinctiones e Causæ (divise a loro volta in Quæstiones), è assolutamente inequivocabile in quanto a ‘finalità’: il Magister accompagnava i propri discepoli nell’individuare i problemi di natura giuridica (i canoni discordanti), tanto teorici che pratici, e li aiutava a circostanziare, attraverso l’apporto delle Auctoritates , la situazione in oggetto e le possibili soluzioni, fornendo criteri di ‘verifica’ dell’applicabilità reale delle norme al caso in questione; un parere del Maestro (“dictum Gratiani”) poteva intervenire a completare il quadro ed offrire efficaci prospettive di soluzione.
Il confronto strutturale con le varie Collectiones del tempo (p. es. le Quinque Compilationes Antiquæ) è evidente: nessuna di queste ha struttura né ‘fonti’ analoghe alla “Concordia discordantium canonum” che, anzi, ricorda ben altri generi letterari —accademici— in uso nell’incipiente ‘Scolastica’ .

c) La nuova consapevolezza giuridica
- Liber Extra
Al Decretum si aggiunsero in pochi decenni le “Quinque compilationes antiquæ” per raccogliere le Decretali pontificie emanate dopo il Decretum o da esso rimaste escluse; nel 1230 Gregorio IX decise di ‘consolidare’ questo diritto vigente in un unico strumento normativo: il Liber Extra (anno 1234), tale in riferimento alla ‘consolidatio prima’ costituita ormai univocamente dall’Opera grazianea cui nessuno sapeva né intendeva porre mano per introdurre modifiche di alcun genere.
La qualità del lavoro di Raimondo di Peñafort (Cappellano di Gregorio IX) nel redigere il Liber Extra è illuminante per la comprensione del concetto di ‘codificazione’ che costituirà un topos nella mentalità ecclesiastica. Ben a ragione si accostò il suo impegno a quello di Triboniano nel far ‘decantare’ la normativa vigente, riorganizzandola in aderenza alle necessità giuridiche di tempi e circostanze così diverse da quelli in cui le varie norme erano state date, attraverso operazioni di scrematura, semplificazione, razionalizzazione, taglio e reintegrazione delle norme esistenti.
Di grande importanza metodologica è anche la ‘novità’ —tipica delle collezioni ufficiali/autentiche— del cambio di ‘estensione’ che le diverse norme subirono attraverso l’opera teoretica di Raimondo e la specifica integrazione e promulgazione pontificia attuate da Gregorio IX. La gran parte delle norme su cui si operò era infatti costituita da Decretali pontificie: risposte specifiche che i romani Pontefici avevano formulato a seguito di domande altrettanto puntuali da parte di Vescovi, Abati o altri membri della gerarchia ecclesiastica; a questi “atti amministrativi singolari” —per dirla con l’attuale linguaggio tecnico canonistico— la promulgazione gregoriana attribuì invece la portata di “leggi ordinarie universali”, dando nuova e specifica consistenza legislativa (vis ac potestas legis) a ciò che fino ad allora era stato poco più che esercizio di ‘potestà amministrativa’.
Sotto il profilo metodologico si era certamente ben al di là della ‘collectio’ che aveva rappresentato l’unica possibilità operativa a disposizione dei semplici ‘tecnici’ nell’organizzare materiale normativo senza lo specifico intervento dell’autorità ‘legislativa’; anche la ‘consonantia’ (Ivo di Chartres) la ‘concordia canonum’ (Graziano) erano ormai abbondantemente superate in quanto a ‘tecnica’ giuridica.
L’intervento autoritativo di Gregorio IX nel riorganizzare ed integrare il materiale normativo precedente va senza dubbio letto nella linea della ‘codificazione’ giustinianea (riscoperta e teorizzata a Bologna dai tempi di Irnerio) applicata con gli stessi presupposti e gli stessi criteri. L’esclusività del Liber Extra andava riferita al rapporto con le Collectiones precedenti da cui traeva le proprie fonti ed a cui doveva univocamente sostituirsi, non all’intero Jus vigente nella Chiesa; di fatto non venne abrogato il Decretum Gratiani in quanto non era —giustamente— considerato una ‘Compilazione’ , così come non vennero abrogate molte altre disposizioni non figuranti tra le ‘fonti’ del Liber Extra .

- Liber Sextus
Sessantaquattro anni dopo (3 marzo 1298) Papa Bonifacio VIII, per conservare nel tempo l’efficacia dell’opera di Gregorio IX mantenendo ‘ordine’ nell’operato normativo soprattutto papale (Decretali e Costituzioni di oltre quattordici Pontefici), promulgò il “Liber Sextus” in continuità coi cinque libri di cui si componeva la promulgazione pontifica precedente.
Di fatto, nell’arco di oltre cinquant’anni, erano già state redatte più collezioni ‘private’ di gran parte di questo materiale normativo, ma con gl’inconvenienti di sempre —data la natura specificamente ‘amministrativa’ della maggior parte delle Decretali—: circostanzialità della decisione, prolissità, ripetizioni, contraddizioni… Secondo le istruzioni impartite da Bonifacio VIII agli addetti all’opera, la collezione avrebbe dovuto essere adattata ai bisogni dell’epoca ed evitare due difetti: prolissità e superficialità. L’approvazione pontificia attribuì alle norme contenute nella Collezione valore di legge universale, abrogando ogni Decretale e Costituzione di portata universale promulgata dopo il Liber Extra che non si trovasse né inserita né richiamata nella Collezione stessa; la ‘Bolla’ di promulgazione era indirizzata alle Università di Bologna e Parigi… più tardi anche Salamanca.
Ai 3458 ‘Capitula’ del Decretum Gratiani e ai 1971 del Liber Extra se ne aggiungevano così altri 1298, oltre a 88 Regulæ juris improntate al diritto romano.

- Sulla scia delle promulgazioni ‘autentiche’ del XIII sec. anche Papa Clemente V fece raccogliere ed ordinare altro materiale normativo pontificio, soprattutto proprio; fu tuttavia Papa Giovanni XXII a promulgare le c.d. “Clementinæ” il 21 marzo 1314: era l’ultima promulgazione ufficiale di Collezioni normative di portata universale redatte su esplicito mandato pontificio.
La tradizione canonistica classica conosce tuttavia altre due Collezioni di Decretali pontificie dei secc. XIV e XV: le “Extravagantes Joannis XXII” e le “Extravagantes communes” pubblicate come Collezioni private da J. Chapuis a Parigi agli inizi del Cinquecento .

d) Il ‘punto fermo’ della normatività ecclesiale
Al termine del Concilio tridentino in cui la cattolicità precisò con grande attenzione vari aspetti del dogma di fede e della disciplina ecclesiastica attraverso, soprattutto, i “Decreta de reformatione” , s’impose, ancora una volta, la necessità di puntualizzare in modo chiaro le coordinate giuridiche del vivere ecclesiale nella nuova ‘configurazione’ post-scismatica.
Fu in quella circostanza che, come già accaduto per l’Opera di Graziano, la prassi ormai consolidata nell’uso comune di Curie, Tribunali e Scuole venne ‘assunta’ dalla Chiesa cattolica —ab extrinseco— come autorevole riferimento normativo e come tale ‘stabilizzato’.
L’attività editoriale del parigino J. Chapuis che nel 1505 raccolse sotto l’unico titolo di “Corpus Juris Canonici” il Decretum Gratiani, il Liber Extra, il Liber Sextus, le Extravagantes Johannis XXII, le Clementinæ e le Extravagantes Communes, fu fatta propria da Papa Gregorio XIII che ne ordinò una revisione ‘autorevole’ da parte dei c.d. “Correctores romani” per giungere nel 1582 all’editio romana, esito definitivo del diritto canonico ‘classico’.
Si realizzava in tal modo un nuovo ‘stadio’ della giuridicità canonica attraverso la ‘fissazione’ delle fonti autorevoli (al di là della effettiva autorità giuridica dei singoli documenti normativi) del diritto canonico vigente: Corpus Juris Canonici e Decreti conciliari tridentini .
Se, evidentemente, non si può attribuire all’adozione del Corpus Juris Canonici il valore di una ‘codificazione’ propriamente detta, sarebbe tuttavia ingenuo non riconoscere che in quella fase di riordino dottrinale ed istituzionale della Chiesa cattolica tale scelta abbia costituito un’affermazione pontificia di grande portata ed efficacia strumentale, in nulla inferiore ad altri atti di giurisdizione di portata universale (quale quello pio-benedettino).

Sotto il profilo unicamente dottrinale e per completezza di orizzonte tematico, non vanno dimenticate nel periodo successivo al Concilio Tridentino, e fino alle soglie del nuovo C.I.C., altre opere di ‘collezione’ giuridica canonica quali il c.d. “Liber Septimus Clementis VIII” redatto dal Card. D. Pinelli e stampato nel 1598 che rimarrà tuttavia senza l’approvazione pontificia, e —nella nuova ottica— il “Codex Canonum Ecclesiæ” di G. De Luise , lo “Jus canonicum generale distributum in articulos” di A. Pillet , il “Codex iuris pontificii seu canonici” di E. Colomiatti (in 9 volumi), il “Codex Sanctæ Romanæ catholicæ Ecclesiæ” di E. M. Pezzani ; questi ultimi ‘esperimenti privati’ come evidente ‘eco’ della richiesta codificatoria avanzata da più parti al Vaticano I .

A conclusione di questo breve percorso, è possibile riconoscere, anche nella vita giuridica della Chiesa, una necessità ricorrente di riorganizzare il diritto vigente, la giurisprudenza e la dottrina canonistica al fine di unificare e semplificare la gestione della vita ordinaria della comunità di fede, in una visione puramente ‘strumentale’ del diritto che, nella Chiesa, rimane sempre secundum et servum rispetto al primato della concreta vita cristiana.

VI. Questioni teoretiche ‘trasversali’
a) Questione terminologica
Dopo questo sommario —ma significativo— percorso attraverso raccolte e collezioni civili e canoniche di vario genere, risulta necessario un momentaneo ‘cambio di registro’ metodologicamente irrinunciabile: una explicatio terminorum, tanto urgente quanto risultano profonde le ‘precomprensioni’ generali in materia.
Si tratta di prendere coscienza della radicale instabilità terminologica ed equivocità del concetto chiave della questione che andiamo illustrando; il termine ‘Codex’, infatti, attraversando i secoli, è stato rivestito di significati assolutamente differenti, palesando la difficoltà teoretica e concettuale di individuare con chiarezza i lineamenti ‘formali’ della questione, rendendo così necessario —spesso— il ricorso ad un’indagine di tipo sostanziale ed un atteggiamento critico circa la terminologia impiegata dai diversi autori e nelle differenti circostanze.
Unica certezza sotto questo profilo è la natura e la portata del concetto di ‘Codice/codificazione’ in riferimento ai Codici civili europei moderni: la loro individuazione e definizione risulta senz’altro chiara poiché rispondente a precisi presupposti teoretici derivanti da Razionalismo, Illuminismo e Positivismo; lo stesso pare non affermabile, in linea di principio ed evoluzione storica, per la c.d. ‘codificazione canonica’.

Il termine latino ‘codex’ (contrazione di ‘caudex’) , dopo aver indicato le tavolette lignee cerate su cui si scriveva, passò ad indicare genericamente il libro composto di fogli indipendenti legati assieme come le tavolette dei ‘codices’ e che si leggeva voltando le pagine (in contrapposizione al volumen a forma di rotolo che si leggeva svolgendolo); progressivamente venne tuttavia specificandosi un significato più ‘contenutistico’ che strutturale, in relazione alla qualità di quanto scritto nelle sue pagine. Le applicazioni più importanti del codex erano relative ai documenti di cui premeva la conservazione ordinata, come i libri di commercio (codex accepti et expensi), le collezioni di leggi imperiali e gli atti giuridici in genere, tanto che fin dal basso Impero il concetto di codex venne relazionato all’idea del libro unito, compatto, ordinato e così cominciò ad essere in modo definitivo a partire dal ‘chiamato’ Codex Gregorianus.
La ‘fortuna’ di questa novità ‘letteraria’ fu determinata dalla facile accessibilità pratica dei testi normativi rispetto agli archivi imperiali (pressoché inaccessibili).
Come già illustrato, sia in ambito civilistico che canonico, l’utilizzo del termine fu alquanto altalenante e parecchie opere (anche ‘private’) si fregiarono, o furono indicate, col titolo di Codex senza che, per altro, ciò potesse costituire garanzia alcuna circa la specifica tipologia o portata dell’opera in questione che, pur essendo una raccolta —abbastanza— organica di materiale legislativo di sommo grado, non poteva arrogarsi pretese di sorta, soprattutto in quanto a valore giuridico. Il rapporto tra i primi quattro codici civili romanistici è evidente: il Codice Teodosiano era collezione ‘autentica’ che si affiancava ai Codici Gregoriano ed Ermogeniano che erano, invece, collezioni ‘private’; il Codice giustinianeo le incorporò tutte e tre e le sostituì cancellandone la vigenza.
Anche in ambito specificamente canonico il termine fu utilizzato già da Papa Nicola I (858-867) per indicare la Collectio Dionysio-Hadriana, come riporta lo stesso Graziano .
Alla stessa problematica appartengono altri termini spesso ricorrenti, soprattutto in ambito canonico, quali: Corpus e Decretum , il cui utilizzo molto diffuso, ma per nulla sistematico, allarga le prospettive sostanziali della materia, confondendo gli elementi (soprattutto formali e metodologici) ed impedendo una visione lineare e ‘progressiva’ dell’articolarsi della materia. Questa intricata situazione non permette così di rintracciare facilmente in ambito canonico il graduale ‘divenire’ caratteristico della codificazione civilistica, con la chiara possibilità di distinguere nettamente tra Codice e Codice in base ad elementi, anche formali, rispondenti a precisi presupposti teoretici e metodologici.
Pare pertanto che in ambito canonico si possa giudiziosamente sostenere l’affermazione secondo cui il ‘titolo’ (originale o attribuito in seguito) di una raccolta normativa non dice nulla della sua reale natura e consistenza sostanziale; di conseguenza parlare in modo teoretico (deduttivo) di ‘codificazione canonica’ semplicemente a partire dal ‘titolo’ della compilazione pio-benedettina potrebbe rivelarsi incauto …o addirittura errato.

b) Peculiarità della codificazione giustinianea
L’opera codificatoria dell’Oriente romano palesa autorevolmente una ‘necessità’ connaturale ad ogni sistema giuridico vigente per un tempo sufficientemente lungo: la periodica revisione del diritto per renderlo effettivamente proporzionato ed adatto alla società e cultura cui dev’essere applicato, dandogli ‘certezza’ ; tale ‘revisione’ si attua, metodologicamente, attraverso la rivisitazione delle ‘fonti’ giuridiche, la loro cernita, nuova correlazione ed adeguamento alla realtà socio-culturale di cui il diritto costituisce una delle maggiori istanze socializzanti, stabilizzanti ed organizzative . Sarà proprio questa ‘necessità’ a riaffacciarsi, più o meno regolarmente lungo il corso dei secoli, esigendo —almeno nei fatti— l’adozione (se non proprio la ‘creazione’) di un nuovo stadio normativo che, raccogliendo il passato e riorganizzandolo anche teoreticamente, offra alla vita sociale ed alla prassi giuridica punti fermi adeguati alla vita del momento.
Guida costante di questo processo, e caratteristica precipua della tecnica ‘codificatoria’, è lo sforzo di giungere, pur in presenza di materiali non facilmente convertibili, ad una formulazione oggettiva e generale della ‘pura norma’, accanto al tentativo di sistemazione razionale dei materiali stessi , la cui specificità metodologica sarebbe incauto attribuire alla sola ‘codificazione moderna’.
Occorre anche notare come in una visione organica del diritto quale quella consegnataci dal Corpus Juris, risulta completamente assente qualunque pretesa contro ciò che sia meta-codiciale, come accadde, invece, dalla codificazione moderna in poi; allo stesso modo il divieto di redigere Commentarii al Digesto aveva il semplice scopo di ‘congelare’ la status juris al livello di organicità testé raggiunto, impedendo fuorvianti ricorsi alle stesse fonti appena ridimensionate :
"Il carattere di definitività attribuito da Giustiniano alla sua compilazione ebbe, nelle sue costituzioni, due spiegabili ripercussioni. In primo luogo, fu abolita la legge delle citazioni di Valentiniano III: legge ormai superata dalla scelta che, in ordine ai vetera iura, aveva fatto lo stesso Giustiniano con la compilazione dei Digesta (e con le costituzioni ad essa connesse). In secondo luogo, come già detto, fu vietata ogni attività di elaborazione del materiale sistemato nei Digesta (e implicitamente nelle Institutiones). Che le leges novæ raccolte nel Codex non potessero formare oggetto di elaborazione giurisprudenziale era, per Giustiniano, addirittura ovvio.
In particolare, il divieto di elaborazioni in ordine ai Digesta era un colpo diretto alla giurisprudenza, sia pratica che scolastica, bizantina, la quale aveva dato prova, con la sua attività pregiustinianea, di eccessiva libertà e indipendenza nell'interpretazione dei iura classici, spesso troppo disinvoltamente adattandoli alle tradizioni orientali. D'altra parte, non va tralasciato di ribadire che Giustiniano, da buon autocrate, rifuggiva dall'ammettere che gli sviluppi dell'ordinamento giuridico potessero dipendere da altro che dalla volontà imperiale e che questo suo orientamento era potenziato dal valore di 'instrumentum regni', e più precisamente di elemento connettivo del ricostituito Imperium Romanum, ch'egli attribuiva alla grande compilazione" .

Altro elemento metodologico che Giustiniano legò nei secoli alla codificazione è la sua natura tipicamente ‘restauratrice’:
"lo spirito del Corpus iuris non può essere inteso, se non lo si inquadra negli ideali di restaurazione della romanità, che Giustiniano perseguì tanto attivamente e tenacemente in tutti i campi. Conscio dell'inquinamento subito dai principi giuridici romani in due secoli e più di decadenza, Giustiniano volle, almeno entro certi limiti, porvi riparo, non solo fissando in maniera indelebile i iura nella sua compilazione, ma anche preventivamente modificandoli e interpolandoli, in modo da eliminare tante incertezze e discussioni che erano state sollevate, nelle scuole e nella pratica, dalla lettura dei pareri divergenti dei giuristi… In molti casi egli si sforzò di togliere di mezzo le contraddizioni e le antinomie, scegliendo o creando la soluzione migliore, per poi adattare ad essa, con adeguate interpolazioni, i testi discordi. Talvolta, infine, innovò riconoscendo l'insopprimibilità di più moderne esigenze: tuttavia cercò, sempre che gli fu possibile, di rendersi interprete fedele delle direttive giuridiche più genuinamente romane.
E’ in questo senso che può e deve parlarsi di 'classicismo' di Giustiniano. Egli non si propose affatto, salvo che in qualche punto sporadico, di procedere al restauro dei testi giuridici classici, che sarebbe stata opera arida di antiquariato. Egli si propose invece di ripristinare il diritto classico nel suo insieme, e di ripristinarlo non per metterlo in una vetrina, ma per farlo sopravvivere. Quando, in un famoso passo della costituzione Tanta (§10), egli dice che ‘multa et maxima … propter utilitatem rerum transformata sunt’, bisogna credergli pienamente" .

Sotto il profilo ‘religioso’, che in questa trattazione non possiamo certo ignorare, è senz’altro necessario considerare adeguatamente l’impatto che la codificazione giustinianea aveva ottenuto presso la Christianitas medioevale, in particolare presso i civilisti e canonisti formati alla scuola bolognese (tra cui diversi Papi e uomini di Curia):
"Giustiniano cercò di attuare l’unità imperiale e legislativa, raccogliendo la secolare tradizione romana, riplasmata però dal cristianesimo; intese ricostruire l’impero romano su basi cristiane, in guisa che l’universalità dell’impero dovesse coincidere con l’universalità della Chiesa sotto il profilo della legge di Cristo. Il potere imperiale, per dichiarazioni ripetute di Giustiniano, ha fondamento nella volontà di Dio. L’impero diventa cristiano, in quanto lo Stato mira ad affermare e propagare la fede cattolica. …Gli imperatori cristiani si sforzano di ispirarsi alla legge divina, e nel pensiero di Giustiniano concettualmente non vi può essere discordanza tra i canones, intesi come lex divina, e le leggi imperiali. Questo carattere della codificazione giustinianea spiega come la Chiesa cattolica nel Medio Evo poté accogliere in linea di massima il diritto romano, appunto perché in questo, riplasmato dalla legislazione degli imperatori cristiani, i sacri canones avevano largo posto" .
Mentre l’Imperium medioevale —rafforzato dall’acquisizione del Corpus giustinianeo, così concepito— non si era sostanzialmente discostato da questa linea (eccetto questioni di chiara natura politico-giurisdizionale come le Investiture dei grandi feudi vescovili del centro Europa), l’Impero moderno post-rivoluzionario (giacobino, laicista ed anticlericale) aveva dato ben altra presentazione e prova di sé durante il XIX sec.: vedasi il ‘Concordato napoleonico’ del 1815, le soppressioni e gli incameramenti di enti e beni ecclesiastici, le legislazioni unilaterali in materia ecclesiastica. Viene spontaneo/necessario chiedersi, a questo punto, quale modello ‘codiciale’ avesse presente il ‘codificatore canonico’ pio-benedettino quando intraprese la propria opera: quello di Leibniz, Rousseau, Voltaire oppure quello giustinianeo?

c) Considerazioni sull’Opera di Graziano
A ben vedere, l’Opera di Graziano ha subito un grave fraintendimento di carattere metodologico: una vera e propria strumentalizzazione ideologica che l’ha snaturata trasformandola in ‘semplice’ —ma necessario— Compendium juris . La “Concordia” fu così trattata come vera ‘fonte’ giuridica autonoma, adottata anche presso la Curia romana e le altre istituzioni giuridiche ecclesiali quale costante punto di riferimento per la soluzione dei problemi giuridici: da ‘manuale di metodologia giuridica’ ispirato a ‘criticità’, essa divenne semplicemente ‘fonte riassuntiva’ del diritto della Chiesa del primo millennio!
Molto al di là di come Graziano aveva fruito dell’immensa raccolta documentale intrapresa da Ivo di Chartres (Decretum, Panormia, Tripartita), i suoi stessi ‘discepoli’ utilizzarono i Capitula —addotti da Graziano nella semplice qualità di argumenta o auctotitates— alla stregua di leges et jura trasformando ben presto anche i ragionamenti stessi del Maestro bolognese in una vera ‘collectio juris’ che ‘consolidava’ lo jus vetus del primo millennio .
Anche su questo punto il nostro percorso investigativo vede confermata l’ipotesi iniziale: è la stessa dinamica del vivere giuridico che impone —consapevolmente o no— la necessità di ‘consolidare’ il diritto vigente quando si verifichino determinate circostanze di ridondanza, inerzia, incertezza, sovraffollamento, ripetitività, formalismo, contraddittorietà del diritto in uso. Se ciò avviene consapevolmente (con adeguato percorso metodologico) ad opera di un legislatore illuminato, come fu Giustiniano, il diritto si troverà davanti ad un vero monumentum capace di attraversare i secoli ‘insegnando’ cosa sia e come ‘si faccia’ diritto… Se ciò avviene inconsapevolmente, attraverso un usus receptus, in balia della sola necessità di ‘semplificare’ l’orizzonte normativo vigente si rischia di travolgere — se pure ‘a furor di popolo’— le basi stesse della giuridicità!
Va pertanto notato come le auctoritates riportate da Graziano non siano leggi imperiali o pontificie; non si tratta dell’opera giurisdizionale della suprema Autorità di governo come avveniva nei Codici antichi, sono invece citazioni bibliche, patristiche, teologiche, giurisprudenziali… Di fatto i ‘capitula Gratiani’ —ed i suoi stessi dicta- vennero però comunemente utilizzati come ‘jus’ —se non addirittura Leges— a tutti gli effetti fino al C.I.C. 17.

d) Certezza del diritto
La c.d. ‘certezza del diritto’ costituisce una dimensione strutturale del diritto stesso, evidenziando la ‘necessità fisiologica’ di ri-fissare periodicamente i punti comuni di riferimento perché la “prudentia” necessaria nell’amministrare lo jus all’interno della società umana non scada in semplice (e volgare) proceduralismo o sterile dialettica, segni inequivocabili della crisi di qualunque sistema sociale, prima ancora che giuridico.
Purtroppo la percezione ‘moderna’ di questo delicato tema di portata non solo ‘pratica’ ma anche teoretico-filosofica ha finito per essere falsata proprio dai ‘presupposti’ della codificazione civile ottocentesca;
"fu per questa via che l’esigenza fondamentale dell’illuminismo nel campo giuridico…, quella della certezza del diritto, nata inizialmente dal giusnaturalismo che voleva una legislazione chiara e precisa riproducente il diritto naturale razionale, condusse invece al positivismo giuridico. Al di fuori della legge positiva non si riconobbe più alcun principio giuridico valido, e non si considerò più come diritto se non quello posto dal legislatore… La sua conclusione fu che come fonte del diritto fu intesa la volontà del legislatore, e che il diritto naturale, per qualche tempo celebrato ancora come l’essenza stessa del codice, fu presto dimenticato, e poi rifiutato ed irriso. Il millenario conflitto tra razionalismo e volontarismo terminava, nell’apparente accoglimento delle istanze del primo, con la totale vittoria del secondo" .
A ben vedere però, la formula “certezza del diritto” nasconde almeno due significati non ulteriormente riducibili: ‘certezza del diritto soggettivo’ e ‘certezza del diritto oggettivo’; la prima riguarda il risultato finale, la seconda gli strumenti per conseguirlo. Nella prima accezione la certezza che ci si aspetta e si pretende dal diritto riguarda il saper già a priori che la posizione giuridica soggettiva sarà affermata univocamente ed irreformabilmente; nella seconda, invece, si tratta di conoscere previamente le norme, le ‘logiche’ e le procedure attraverso cui sarà vagliata e garantita tale posizione giuridica soggettiva. Il primo caso riguarda, in realtà, soltanto la certezza dei (propri) diritti… Il secondo, per contro, riguarda il ‘diritto’ in quanto sistema organico di norme ‘certe’ in quanto le norme sono già fissate e la legge non è, di per sé, retroattiva.
In realtà le due posizioni non sono contraddittorie poiché agiscono a livelli differenti in vista di ‘valori’ differenti: la ‘certezza dei diritti’ è legata al valore (metagiuridico) della persona umana e della sua dignità (e salvezza eterna, in diritto canonico), la ‘certezza del diritto’ è legata, invece, al valore (giuridico) della generalità della legge cui ogni persona —anche l’Autorità ed il Giudice— deve sottomettersi (servata conscientia). Di fatto ogni sistema/Ordinamento giuridico conosce ed applica specifici istituti proprio per garantire la ‘certezza del diritto’ in entrambe le accezioni: nascono così la res judicata, l’usucapione, lo jus primi possidentis… ecc. per garantire, spesso attraverso la via giudiziaria, la ‘definitiva stabilità’ di fruizione di un diritto (soggettivo); allo stesso tempo le modalità di ‘creazione’ del diritto, la gerarchia delle fonti, l’interpretazione autentica, il ‘sindacato di costituzionalità’… ecc. intendono garantire la stabilità e fruibilità degli strumenti giuridici che informano l’Ordinamento.
Nonostante visioni contrarie da parte di canonisti (anche insigni) quali P. Fedele non pare tuttavia negabile la piena pertinenza di questa specifica dimensione giuridica (la ‘certezza’) anche al diritto canonico ; se infatti la ‘certezza dei diritti’ ripugna alla consapevolezza del canonista che, p. es., sulle cause circa lo ‘stato delle persone’ non può ammettere la res judicata o, nel diritto penale, deve procedere in modo ‘medico’ e pedagogico —anche præter legem—, la ‘certezza del diritto’ è altrettanto necessaria per conoscere a chi competa prendersi cura, ed in quali modi, della vita spirituale dei fedeli, oppure a chi possano rivolgersi gli stessi fedeli per ricevere ciò che la Chiesa possiede di più prezioso: Parola di Dio e Sacramenti (C.I.C. ’83, Can. 213).
In realtà proprio il fatto che un Ordinamento giuridico possieda istituti volti alla mitigazione della possibile iniquità del solo verdetto ‘legale’, come sono in diritto canonico la æquitas, la dispensa, la nova propositio causæ… ecc., conferma l’esistenza della ‘certezza del diritto’ tra i presupposti stessi dell’Ordinamento, quale istanza strutturale irrinunciabile.
E’ in quest’ottica tipicamente tecnica che lungo la storia dei diversi Ordinamenti giuridici si è assistito spesso ad un ‘processo’ di vera e propria ‘delegificazione’ attraverso le c.d. ‘consolidazioni’ del diritto vigente .
Il riordino sistematico e periodico della normatività ecclesiastica —così come sopra illustrato— risponde senza dubbi a questa esigenza del diritto stesso, tanto che in più occasioni la stessa Chiesa ha di fatto accolto l’opera ‘ordinatrice’ di ‘privati’ (Decretum Gratiani, Extravagantes Joannis XXII e Communes) per meglio delineare i ‘confini’ del diritto vigente attraverso cui unicuique suum tribuere.

e) Jus commune canonicum
Nonostante il termine sia ‘riapparso’ solo di recente nel linguaggio canonistico , in occasione della promulgazione del “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium” del 1990 in cui si è ribadito come il diritto canonico in esso raccolto sia soltanto il ‘diritto comune alle diverse Chiese cattoliche orientali’ , questo concetto ha almeno un millennio di vita in ambito canonistico senza nessuna ‘contraddizione’ né soluzione di continuità; è infatti coscienza assodata che tutto il diritto canonico oggi chiamato ‘universale’ sia sempre stato —e rimanga— in realtà il ‘diritto comune’ della Chiesa cattolica.
Occorre in quest’ottica ricordare come la struttura portante del diritto canonico, così come consolidatasi fin dall’inizio del secondo millennio cristiano, sia stata per sua stessa natura proprio quella dello ‘jus commune’ propriamente detto: un ‘diritto comune’ a tutto il Regnum (coincidente con la Christianitas, regolante i rapporti con la Suprema Auctoritas), vari diritti ‘particolari’ per le diverse comunità locali, un diritto ‘speciale’ dal XVI sec. per i nuovi territori di Missione; la configurazione che ne risulta(va) era pertanto così delineabile: jus commune (pontificio universale), jus particulare (Regioni ecclesiastiche, Diocesi ed Ordini religiosi) , jus missionarium (dipendente dalla S. Congregazione De Propaganda Fide, per i territori di colonizzazione europea), jus Romanæ Curiæ (diritto pontificio ‘amministrativo’ per la Curia romana).
A tutt’oggi questa è ancora la struttura di base dell’Ordinamento canonico in cui i diversi ‘Codici’ non hanno avuto altra mansione che ‘consolidare’ ed armonizzare il diritto comune loro contemporaneo.
Non si può inoltre dimenticare un’importante contingenza strutturale e ‘sistematica’ della disciplina ecclesiastica cattolica di metà Ottocento: il passaggio delle Chiese dei territori c.d. ‘di missione’ dallo jus missionarium (di competenza della S. Congregazione De Propaganda fide) allo jus commune canonicum, proprio delle Chiese europee; si trattò in modo particolare delle Chiese del continente americano, tanto meridionale che settentrionale , ormai giunte ad una ‘consistenza’ ed ‘autonomia’ sufficienti a garantirne il ‘normale’ funzionamento secondo le strutture e le norme del diritto canonico ‘universale’ e non più attraverso un regime di ‘controllo amministrativo’ pontificio.

In ambito canonico, pertanto, la c.d. codificazione non ha per nulla segnato la sconfessione e l’abbandono dello jus commune che caratterizzò —essenzialmente— la codificazione negli stati moderni, ma ha semplicemente costituito una ‘evoluzione’ della tecnica normativa —forse frettolosamente e sommariamente— mediata dall’ambito statuale. Dal 1917 il romano Pontefice non regge più la Chiesa universale mediante la ‘generalizzazione’ (giurisprudenziale) di Decretali ed atti amministrativi singolari, ma attraverso vere ‘leggi’ di portata universale raccolte, generalmente, nel Codice di diritto canonico.

VII. Premesse della ‘codificazione canonica’
A riguardo dell’opera pio-benedettina pare opportuno alimentare un profondo ‘dubbio metodologico’: la semplice adozione del termine tecnico ‘codex’ (e delle sue più tipiche caratteristiche ‘tecniche’: unità sistematica, semplicità, brevità e perspicuità ) è sufficiente ad indirizzarne univocamente la comprensione sul modello civilista ottocentesco, sottintendendo l’assunzione di quella che fu una vera ideologia, oppure si può pensare a ragione che l’idea di riferimento del Codex canonicum potesse ancor essere quella ‘originaria’ o comunque quella che già si era più volte concretizzata a manifestata nella Chiesa lungo i secoli nell’ottica del Corpus Juris canonici? In quest’ottica, d’altra parte, pare collocarsi esplicitamente il M.P. “Arduum sane munus” con cui Pio X diede inizio all’opera.

Circa le idee che hanno preceduto la ‘codificazione canonica’
"si può affermare l’esistenza di un “movimento per la codificazione” in seno al Vaticano I solo a condizione di immediatamente precisare che non si tratta di una precisa corrente, determinata ed omogenea per concezioni ecclesiologiche e scelte contingenti, ma dell’espressione di preoccupazioni ed esigenze quanto mai diffuse, che superano la stessa contrapposizione tra maggioranza e minoranza. A ben guardare i fautori della codificazione convergono solo su due punti che riguardano, rispettivamente, la denuncia di una situazione deplorevole e la natura dello strumento per provi rimedio" .
Agli autori più avveduti, soprattutto sotto il profilo storico, non è sfuggito come il burrascoso periodo ‘a cavallo’ del Concilio Vaticano I sia stato segnato nella Chiesa cattolica (romana) da un forte ed ‘autonomo’ movimento di riforma tanto più forte ‘ad intra’ quanto più crescevano le tensioni e le difficoltà col mondo esterno ; ne danno autorevole prova i diversi interventi pontifici —proprio di carattere normativo generale— volti alla ‘revisione’ di importanti materie giuridico-istituzionali, ponendo le basi di una nuova ‘era disciplinare’.
Va notato come l’opera riformatrice di Pio X fosse in realtà stata già ‘preceduta’ da una vera
"preparazione legislativa, dato che nella seconda metà del secolo scorso —l’Ottocento— furono emanate alcune costituzioni apostoliche e istruzioni, le quali, mentre riformavano il diritto vigente su determinate materie, costituivano altrettante codificazioni parziali, o testi unici . Ricordiamo, tra le principali: Pio IX, cost. 12 ottobre 1869 Apostolicæ Sedis, sulle censure latæ sententiæ; Sacra Congregazione dei vescovi e dei regolari, istr. 11 giugno 1880, sui processi amministrativi; Leone XIII, cost. 25 gennaio 1897 Officiorum ac munerum, sulla censura e proibizione dei libri; Pio X, cost. 8 ottobre 1900 Conditæ a Christo , sui religiosi di voti semplici" .
L’elemento chiave, tuttavia, in questa linea di riordino giuridico pre-codiciale è costituito senza alcun dubbio dalle decisioni già assunte da Papa Pio IX a riguardo della (raccolta e) revisione del diritto delle Chiese Cattoliche Orientali in chiara funzione di accentramento pontificio .
Non è senza rilevanza sostanziale (e scientifica ) che quasi nessun autore accenni mai a questo fatto quale prodromo della c.d. ‘codificazione canonica’ (latina) ignorando in tal modo come già in antecedenza al Vaticano I, e comunque prima del tempo in cui si possa parlare di ‘ideologia della codificazione’ all’interno della Chiesa, si erano fatti significativi passi verso un chiaro riordino della disciplina ecclesiastica, accentrando verso Roma ciò che sembrava volersene sempre maggiormente allontanare .

In un recentissimo studio sugli inizi della ‘codificazione canonica’ C. Fantappiè illustra con estrema puntualità una serie di documenti ed indizi che, facendo il punto della ricerca in merito, risultano utilissimi ad identificare il presumibile punto di vista di Pio X nell’intraprendere l’opera ‘codificatoria’; ne trarremo un aiuto prezioso per verificare presupposti ‘personali’ e metodologici del Pontefice codificatore.

- Come ben risulta dalla documentazione di carattere biografico, l’autentica ‘passione’ di Pio X per il diritto canonico, nascendo dallo zelo pastorale , era quella tipica del c.d. ‘pratico’ che, scevro dagli ‘ingombri’ propri dell’approccio accademico alle discipline giuridiche (teoria generale, filosofia del diritto, comparazione giuridica, storia delle fonti e della scienza… ecc.), si accosta al diritto con l’atteggiamento —tipicamente strumentale— di chi vuole e sa trarne ‘qualcosa’ di immediato ed efficiente …con una predilezione per l’aspetto ‘amministrativo’ che mira a ricondurre sotto il controllo istituzionale buona parte del vitale quotidiano, in una visione ‘pastorale’ delle strutture ecclesiali :
"come sacerdote e pastore —Pio X— aveva sempre constatato l’impossibilità di governare bene con leggi complesse ed antiquate e con un cumulo di decreti e di disposizioni che erano lungi dall’essere sempre in armonia fra loro o dall’essere confacenti con le nuove condizioni dei tempi" .
Dopo essere stato cappellano e poi parroco, Pio X svolse per diciotto anni l’ufficio di cancelliere e notaio della Curia di Treviso dove, profondendosi negli studi canonistici (non accademici) e sotto la guida del suo vecchio Vescovo, imparò a predisporre e redigere tutti gli atti ufficiali della Curia acquisendo una grande dimestichezza con la prassi amministrativa e giudiziaria. Una volta nominato Vescovo di Mantova inserì lo studio del diritto canonico tra le materie del corso istituzionale di teologia ed al termine del sinodo diocesano del 1888 stese personalmente i decreti sinodali con l’intento di redigere un compendio di norme opportune ai nuovi tempi ed in grado di essere comprese ed applicate anche dal popolo dei fedeli. Divenuto Patriarca di Venezia nel 1893 si adoperò per l’istituzione in quella città di una Facoltà giuridico-canonica per promuovere tra gli ecclesiastici lo studio del diritto canonico troppo sacrificato tra le diverse materie teologiche , facendo risaltare in modo inequivocabile la capacità di combinare nel governo delle Chiese particolari la dimensione pastorale con quella giuridica, attuando ogni riforma pastorale attraverso l’ausilio degli istituti e delle forme tipiche del diritto della Chiesa, coltivato con lo studio personale e la prassi di Curia .
"Incline d’istinto alle idee chiare e concrete, il giovane Sarto doveva essersi persuaso sin dagli ultimi anni di seminario che niente come il diritto poteva dargliele. Non certo la filosofia, o la teologia, che non erano sufficientemente normative e decisive; e neppure la teologia morale che, con la sua casistica, non dirimeva mai a sufficienza le questioni. Solo il diritto tagliava netto e corto. Unica difficoltà e purtroppo assai grave: il numero e il caos delle leggi" .

- Elemento della ‘personalità’ di Pio X senza dubbio decisivo in vista della ‘codificazione canonica’ era anche la sua percezione profondissima e sofferta dei ‘mali’ che incombevano sulla Chiesa all’inizio del XX sec., tanto sotto il profilo teologico/dottrinale che politico; il suo riferirsi idealmente ad antichi Pontefici rimasti famosi per il loro apporto ‘tutorio’ verso la libertas Ecclesiæ ne era il chiaro sintomo.
In particolare la mente dello storico corre ad altri momenti in cui la libertas Ecclesiæ spinse romani Pontefici a prendere posizioni audaci quanto forti ed irrinunciabili, ma assolutamente efficaci, stanti i tempi e le circostanze ; la Riforma Gregoriana è forse uno dei momenti più rappresentativi di questa tipologia. Anche in quella circostanza, dopo aver tentato varie vie ed espedienti (Sinodi locali, false collezioni di Decretali e Capitularia), dopo aver tentato inutilmente anche la via del confronto ‘personale’ con l’Imperatore ed i suoi ‘partigiani’, Gregorio VII non vide altra possibilità che un deciso ‘atto d’autorità intraecclesiale’: il celebre “Dictatus Papæ” con cui, ribadendo con forza le prerogative giuridiche della Sede romana, concentrava nelle proprie mani la totalità del potere giurisdizionale allora disponibile, tanto contro l’Imperatore che contro l’Episcopato feudale tedesco. Le coordinate sostanziali delle due iniziative pontificie appaiono assimilabili: decisione personale pontificia, di stampo spirituale e contenuto istituzionale, in contesto sostanzialmente ‘politico’, da utilizzarsi in ambito di rapporto con l’autorità temporale, di natura similare ai comportamenti della controparte (scomunica del Pontefice nella Dieta di Worms).
"Solo tenendo conto che la Weltanschauung di Pio X muove dalla cultura “cattolico-intransigente”, ma si sostanzia dell’impiego —per certi aspetti spregiudicato— di strumenti, regole, procedure di tipo moderno, da porre al servizio della difesa esterna e della ricomposizione interna della Chiesa, si può spiegare il duplice volto del suo pontificato: da un lato rivolto verso il passato, in un atteggiamento di chiusura verso la “modernità”, dall’altro risospinto verso il presente, nella ricerca degli strumenti più adatti e più efficaci per ammodernare l’apparato della Chiesa" .
Interessantissimo risulta, per altro, l’interrogativo posto dallo stesso autore circa il riferimento ad un determinato modello giuridico ed organizzativo nel promuovere un insieme di riforme di così altro livello di strategia ed organicità:
"un’ipotesi è che la concezione della sovranità posta alla base dello Stato accentrato europeo abbia, per certi aspetti, funzionato come un modello di “imitazione per contrasto” nella scelta della codificazione e nella strategia di riorganizzazione della Chiesa. Tratto dall’arsenale dello Jus Publicum Ecclesiasticum, il principio della perfectio o autarchia della Chiesa sembra avere ricevuto con Pio X una trasposizione compiuta di carattere spirituale nell’ordinamento canonico e nella struttura ecclesiastica" .
Di fatto Pio X decidendo per la codificazione del diritto canonico era consapevole che questa scelta —come già per le codificazioni statali moderne— diventava una scelta strategica ed un atto qualificante il governo della Chiesa universale, anche per i vantaggi più generali che potevano derivare tanto da un rinvigorito confronto ideale con gli Stati moderni, che da un accentramento romano della struttura ecclesiastica. La nuova fase della difesa della libertas Ecclesiæ (dopo il veto all’elezione pontificia del papabile Rampolla, alle soglie della Legge francese di ‘separazione’)
"esigeva [pertanto] una ferma presa di posizione e il ricorso a strumenti pubblici efficaci da contrapporre sullo stesso terreno da cui proveniva l’offensiva degli Stati liberali. Ora, questo terreno non poteva che essere quello del diritto pubblico della Chiesa sia ad intra sia ad extra" .

- Anche il profilo metodologico e la struttura adottata per il Codex canonico tradiscono un’impostazione teoretica piuttosto ‘semplice’ …pratica.
"In lui la valutazione negativa degli organi di governo della curia romana, probabilmente maturata durante la lunga esperienza veneta ed accresciuta nei primi tempi del pontificato, si coniuga con una volontà fortemente accentratrice e con l’esigenza —divenuta pressante a causa delle difficoltà interne ed esterne della Chiesa in quel momento—, di procedere con la massima rapidità ed efficienza" .
La dovizia di testimonianze circa l’interessamento fattivo ed i continui interventi e ‘suggerimenti’ strutturali e procedurali di Pio X nei lavori della ‘codificazione’ —stilando di suo pugno un progetto di massima, dove denuncia i difetti della situazione esistente, enumera le ragioni che devono muovere al provvedimento, indica i criteri da adottare per porre rimedio — inclinano, ancora una volta, verso una sostanziale ‘debolezza giuridico/teoretica’ dell’impianto codiciale con un’oggettiva limitazione della riflessione di base , certamente disponibile in qualcuno almeno dei canonisti impegnati nei lavori …senza dimenticare che quelli erano gli anni del più profondo radicamento nella c.d. ‘Scuola romana’ della dottrina dello Jus Publicum Ecclesiasticum che non avrebbe potuto trovare opportunità migliore per coronare il proprio ‘teorema’ dottrinale di una Chiesa come “societas juridice perfecta” .
Si colloca probabilmente in quest’ottica anche la scelta ‘minoritaria’ di procedere alla sola ‘codificazione’ tralasciando, invece, la ‘collezione’ dei documenti normativi precedenti, come invece suggerito dalla maggioranza dei Cardinali (canonisti) . L’approccio utilitaristico ed efficientista con cui Pio X affronta l’arduo compito della ‘codificazione’ pare giustificare abbondantemente il suo disinteresse ‘metodologico’ a tutto vantaggio dell’aspetto ‘strategico’ delle riforme intraprese per preservare la Christianitas dalla dissoluzione filosofica e politica moderna.
Sempre in ambito metodologico non pare inutile ricordare come durante i dodici anni dei lavori delle Commissioni lo stesso Pio X abbia preso parte attiva in quanto sommo Legislatore ‘preparando’ ed ‘anticipando’ svariati provvedimenti legislativi che costituirono un’anticipazione di norme del futuro Codice: Decreto 20 agosto 1910 “Maxima cura”, sulla rimozione amministrativa dei parroci, Costituzione 29 giugno 1908 “Sapienti consilio”, per il riordino della Curia romana, S. Congregazione del Concilio, Decreto 2 agosto 1907 “Ne temere”, sulla ‘forma’ della celebrazione del matrimonio canonico . Solo ai più sbadati non verranno in mente le “Quinquaginta constitutiones” di Giustiniano o le numerose Decretali richieste in itinere da Raimondo di Peñafort a Gregorio IX durante la redazione del suo Liber Extra …a parziale conferma della concezione codiciale sottesa e del metodo codificatorio realmente seguito.
L’11 marzo 1904, in una lunga nota autografa, indirizzata a mons. Gasparri, il Papa motiva la propria opzione a favore del metodo codicistico piuttosto di quello compilatorio
"con una serie crescente di argomentazioni miranti ad evidenziare gli svantaggi teoretici e pratici a cui andrebbe incontro l’aggiunta di una nuova Collezione al vecchio Corpus canonico… L’argomento principe che al Papa fa trascurare l’ipotesi della Collezione e propendere “per l’immediata codificazione” è ravvisato nella necessità di provvedere “all’assoluto bisogno del presente, che reclama norme precise nella disciplina ecclesiastica, nell’insegnamento del diritto, nella amministrazione delle Diocesi e nell’esercizio della giustizia nelle cause canoniche”" .
…Una gran fretta, dunque, che ha portato Pio X ad identificare —probabilmente e sbrigativamente— jus e lex , senza per altro nessuna plausibile precomprensione ideologica in merito; fretta di cui è eloquente segno anche l’evidente trascuratezza linguistica denunciata da più parti:
"Il quadro generale terminologico soddisfa poco. Principi promettenti di una purificazione del linguaggio giuridico, compiuta in parti singole del codice, vengono il più delle volte annullati nella loro efficacia dal fatto che in altre parti, e non di rado proprio nella singola parte in questione, vengono usati dei termini più antiquati. L’incoerenza del linguaggio giuridico obbliga a rinunciare di proposito al formalismo nell’interpretazione della legge, e a prendere sempre, quale filo conduttore, lo spirito e il senso della legge" .
La posizione di chi vuol vedere nell’organizzazione sistematica del Codice pio-benedettino una sostanziale assimilazione al ‘principio della codificazione’ (civilistica) affermando che: "un altro aspetto legato parzialmente all’adozione del principio della codificazione è l’organizzazione sistematica del Codice" , appare del tutto ‘strumentale’ e contraddittoria, visto che si indica il medium autonomo per il ‘transito’ dal diritto romano al Codice canonico attraverso un’opera letteraria tipicamente ecclesiastica: le Institutiones Juris Canonici del Lancelotti (difficilmente ‘in odore’ d’illuminismo a metà del Cinquecento); il comune sfondo romanistico alla tradizione giuridica di tutta Europa non può —correttamente— essere addotto per dedurre a posteriori una qualche forma di ‘assimilazione’ all’opera napoleonica.

VIII. La promulgazione del Codice
a) Il Codice
Una grave aporia metodologica —assolutamente macroscopica e sostanziale— cui difficilmente però si pone attenzione in tema di ‘codificazione canonica’, è costituita dal confrontare tra loro, ponendoli sullo stesso piano tecnico-concettuale, Codici di sostanziale natura ‘privatistica’, come quelli statuali civili , con un Codice di sostanziale natura ‘pubblicistica’ com’è, invece, quello canonico .
Già soltanto scorrendo la struttura del C.I.C. 17 (ma anche dei Codici canonici ) ci si rende conto che le materie normate sono di natura prettamente ‘pubblicistica’: diritto penale, diritto processuale, diritto patrimoniale (delle persone giuridiche), diritto del Clero e della gerarchia ecclesiastica, diritto degli Ordini religiosi, amministrazione dei Sacramenti. Il Codice canonico regolamenta di fatto i rapporti istituzionali all’interno della Chiesa: tra Organismi gerarchici e tra singoli ed Organismi gerarchici; il rilievo (assoluto) accordato alla singola persona appare sempre in chiave ‘derogatoria’ rispetto al ‘sistema’: quando l’osservanza della norma canonica può ostacolare il cammino spirituale di un fedele, allora il Pastore può/deve attivarsi per rimuovere gli ostacoli di natura umana —e spirituale— che possano risultare di detrimento alla salvezza eterna o alla santità di vita del singolo.
Ulteriore nota strutturale che differenzia radicalmente il Codice canonico (non solo pio-benedettino) dai Codici statuali moderni è il rapporto con un altro strumento giuridico altrettanto tipico della modernità: la ‘Costituzione’ (repubblicana o regia, popolare o octroyé), alla quale i Codici moderni, primo tra tutti quello napoleonico, si sono affiancati. Al di là della questione (postasi solo decenni dopo) della presenza e consistenza di un ‘diritto costituzionale canonico’ , è significativo che il Codex pio-benedettino non si inserisca a fianco di nessuna legge di rango costituzionale, né partecipi di questa dinamica ordinamentale più ampia propugnata dalle moderne teorie statuali e giuridiche, basate, appunto, sulla Costituzione come fondamento della convivenza sociale e politica all’interno dello Stato moderno (anche ‘restauratore’). Va anzi rilevato come il valore ‘tipico’ del Codice civile risalti tanto maggiormente nei regimi costituzionali ottocenteschi proprio in ragione della specifica ‘tensione’ instaurata tra Costituzione e Codice (civile): base del diritto pubblico, la prima, specifica e tutela delle libertà individuali il secondo , ciò che non può dirsi —ovviamente— del Codice di diritto canonico.
Altro elemento caratterizzante la codificazione statuale moderna —e che informa ab intrinseco i Codici ottocenteschi— è costituito dalla peculiare concezione della ‘legislatività’ nello Stato liberale moderno retto dal principio di legalità; di fatto tale principio, se ricondotto all’idea ‘storica’ di Codice —come più sopra delineata— non vale, in quanto lo stesso Giustiniano si fece codificatore in uno Stato tutt’altro che ‘liberale’ ed in cui non vigevano certo i c.d. principi ‘di legalità’ o ‘di separazione dei poteri’ che Montesquieu propose come base della concezione moderna dello stato liberale .
Allo stesso modo non pare corretto dedurre dalle filosofie giuridiche moderne il valore da assegnare alla norma canonica ‘codificata’ (nella lex) riportando tout court in ambito ecclesiale le logiche positivistiche e legalistiche sviluppatesi in ambito civile-liberale .

Senza intendere qui setacciare l’intera normativa codiciale pio-benedettina alla ricerca di ‘indizi’ o anche vere ‘prove’ a sostegno della tesi che si va esponendo, risulta per altro proficuo soffermarsi sui primissimi Canoni del C.I.C. 17 per coglierne l’accento ed il tenore ideale: si tratta dei Cann. 1-6 che specificano la ‘portata’ e l’estensione del Codice stesso.
- Il Can. 1 innanzitutto opera già una prima ‘partizione’ all’interno della generale giurisdizione della Chiesa Cattolica per la quale viene promulgato il nuovo Codice: le Chiese cattoliche orientali sono sostanzialmente estranee alla nuova Legge canonica. La prima affermazione del Legislatore codiciale riguarda, quindi, la ‘limitatezza’ di vigenza del Codice all’interno dello stesso Ordinamento giuridico .
- Dopo aver limitato i ‘destinatari’ della nuova legge, il Can. 2 limita anche la materia contenuta nel Codice escludendo l’ambito liturgico che ha normative specifiche; di fatto anche il Code Civil non trattava tutta la materia di competenza del legislatore statale.
- Di grande significato è senz’ombra di dubbio il Can. 3 che, se letto al di fuori di una raffinata ottica politica e diplomatica , manifesta un’esemplare sconfessione del principio cardine del diritto statuale moderno: lo Stato nazionale ‘absolutus’ in quanto “superiorem non recognoscens”. Nessun Codice frutto della filosofia razionalista, illuminista e/o positivista avrebbe riconosciuto che norme in qualche modo ‘esterne’ all’Ordinamento statale potevano derogare, avere anzi la preferenza, sul proprio Codice! Per la Chiesa cattolica, invece, il c.d. diritto pattizio, oltre che pienamente ammissibile sotto il profilo teoretico , è superiore al diritto ordinario espresso nel Codice e lo deroga senza particolari difficoltà, né chiede particolari procedure per la c.d. ‘recezione’ all’interno del proprio Ordinamento.
- Confermando la natura sostanzialmente ‘pubblicistica’ della legge canonica —e dello stesso Codice—, il Can. 4 non fa altro che ricordare come ciò che legittimamente appartiene ormai al patrimonio giuridico di ‘singoli’ (persone o enti) non venga abrogato dal Codice stesso.
- Il Can. 5 costituisce il fulcro della quasi totalità delle posizioni dottrinali che rifiutano la portata ideologica (‘codicistica’) del C.I.C. 17: il riconoscimento ed il mantenimento della Consuetudo quale fonte giuridica ‘attiva’ al di fuori del Codice costituisce infatti la più chiara affermazione della non-esclusività del Codice stesso, contro ogni inveterata critica …tanto da parte dell’Umanesimo che dell’Illuminismo che del Positivismo giuridico a partire già dal XVI sec. A questo proposito non può sottovalutarsi la considerazione anche di W. Aymans che, proprio sulla collocazione assegnata alla Consuetudo, giunge ad affermare che il Codice ha preso solo il modello esteriore delle codificazioni civili, non il contenuto sostanziale ; considerando l’avversione delle legislazioni civili nei riguardi del diritto consuetudinario .
- Sempre nell’ambito del rapporto con le ‘fonti’ giuridiche pregresse anche il Can. 6 apporta novità considerevoli rispetto alla presunta ideologia codificatoria canonica: la legislazione ‘particolare’, oggetto in ambito civilistico della più viva opposizione da parte del Codificatore statuale che pretese di eliminare ogni ‘altra’ fonte del diritto , non viene eliminata dal Codice —che quindi riduce grandemente la propria pretesa ‘esclusività’— se non quando contraria al Codice stesso, che potrebbe, tuttavia, anche disporre diversamente in casi specifici (Cfr. n. 1°); anche lo jus vetus in sé e per sé non perde molto del proprio valore, almeno interpretativo. Al n. 4°, poi, si afferma che in caso di dubbio per la discrepanza tra la norma codiciale e quella precedente "a veteri jure non est recedendum"!
Al Can. 6 va ricondotta anche la disposizione di Pio X di indicare le fonti del diritto precedente da cui le ‘nuove’ norme erano state derivate; viene in tal modo a cadere un altro dei presupposti ideologici della codificazione moderna: il c.d. ‘elemento psicologico’ che rimanda esclusivamente alla voluntas legislatoris i contenuti dispositivi della legge; se infatti una norma dichiarata attualmente vigente non deriva dal volere del legislatore —le motivazioni della norma non sono conosciute — ma ripropone, circostanziandola, una precedente disposizione nata per uno o più casi determinati (com’era per le Decretali pontificie) ciò che emerge al di là della mera disposizione legale è la ratio legis tanto cara proprio a quei Commentatori che già l’Umanesimo aveva radiato dall’orizzonte della scienza giuridica. In diritto canonico continua pertanto a prevalere la ratio contro la voluntas che ormai regnava incondizionata in ambito civilistico statuale… ponendo così altri dubbi ‘sistematici’ sull’effettività di una ‘codificazione canonica’.
"Ceterum iam diximus codicem, qui “unam respicit latinam Ecclesiam”, unicum non esse ratione habita divinæ legis consuetudinisque. Nec satis est. Nam plura extra codicem vagant, sive ad totam Ecclesiam quod attinet, veluti exempli gratia liturgicæ leges, sive ad localem particularem Ecclesiam quod pertinet, sicuti verbi gratia pacta concordata, sive etiam ad singulares personas quod spectat, prouti exempli gratia privilegia atque indulta" .
"Codificatio igitur in Ecclesia propriam formam habet, præsertim quia, statice et simul dynamice, ex integro obsignatur legis divinæ sigillo… inter Ecclesiæ et Rei Publicæ codificationes non potest tanta similitudo notari, quin inter eas maior sit dissimilitudo notanda" !

Ciò detto dei canoni pio-benedettini, non può restare senza effetto il confronto con l’incipit del “Code Civil” napoleonico; il ‘Titolo preliminare’ contiene infatti sei articoli che ben esplicitano il tenore e la portata di quanto (‘precede’ e) seguirà:
"Art. 1. Les lois sont exécutoires dans tout le territoire français… Elles seront exécutées dans chaque partie de la République…
Art. 3. Les lois de police et de sûreté obligent tous ceux qui habitent la territoire…
Art. 4. Le juge qui refusera de juger sous prétexte du silence, de l’obscurité ou de l’insiffisance de la loi, pourra être poursuovi comme coupable de déni de justice.
Art. 6. On ne peut déroger par des conventions particulières, aux lois qui intéressent l’ordre public et les bonnes mœurs"
.

Il valore quasi ‘mitologico’ del Codice che avrebbe dovuto —come di fatto fece in ambito statuale— spazzar via le innumerevoli vestigia di un passato giuridico ormai ‘indegno’ della modernità, si riduce di fatto a ben poca cosa quando si consideri ‘serenamente’ che cosa fu il Codice pio-benedettino in sé .

Circa il suo ‘inserimento’ —e la rispondenza— all’interno della storia/teoria generale della codificazione: tecnica giuridica, completezza formale ed estensione materiale, si deve osservare che il C.I.C. risponde "a sufficienza ai requisiti di brevità e chiarezza, ma assai imperfettamente a quelli di uniformità terminologica, generalità dei concetti, rigore deduttivo, precisione sistematica" ; di completezza formale (‘esclusività’) invece non si può certo parlare, tanto per la presenza del c.d. diritto divino (naturale e positivo) che per la conservazione delle consuetudini e del diritto particolare, che per il rimando alla legislazione civile; diversamente, per la quantità delle materie trattate, "la Chiesa possiede un codice quale nessuno Stato ha e nessuno Stato ha mai tentato di compilare" .
"La caratteristica del Codice non può dunque trovarsi nelle sue innovazioni, ma soltanto nella sua forma esteriore, nella astrattezza e generalità delle sue norme e nel loro ordine sistematico, nella eliminazione del troppo e del vano contenuto nelle leggi antiche; e il suo valore risiede soprattutto nella sua utilità pratica" .

b) La promulgazione
Considerando l’intero processo codificatorio canonico nel suo articolarsi e dispiegarsi temporale dal 1904 al 1917, è certamente necessario distinguere tra il ‘Codificatore’ (Pio X) ed il ‘Promulgatore’ (Benedetto XV) del Codice, sebbene si tratti di un’individuazione soltanto ‘di massima’.
Nonostante la maggioranza degli autori e commentatori consideri l’opera codificatoria e la sua applicazione come un tutt’uno senza soluzione di continuità, non è corretto attribuire a due protagonisti tanto diversi una continuità ideale e tecnica così ‘intensa’; tanto meno possono essere accomunate idee e decisioni pontificie concernenti le premesse e gli inizi dell’opera con quelle conseguenti la sua promulgazione ed il suo ancora ‘sconosciuto’ utilizzo all’interno del mondo giuridico ecclesiale cattolico: altro è disporre circa la struttura del Codice, altro è disporre circa la sua corretta(?) applicazione.
Certamente si deve considerare una sostanziale ‘continuità’ negli addetti all’opera, come il Card. P. Gasparri e gli altri membri delle Commissioni e Consultori, ma sarebbe ingiusto anche nei loro confronti considerarli ‘scleroticamente’ uguali a se stessi nell’arco di cinquant’anni della loro attività, iniziata, culminata o terminata ‘intorno’ al Codice.
E’ pertanto doveroso, per procedere scientificamente, tener conto dei cambiamenti di persone, circostanze e condizioni all’interno di quello che potrebbe essere considerato il ‘periodo’ della ‘codificazione canonica’: Pio X e Benedetto XV devono essere tenuti rigorosamente ‘distinti’ nei loro rapporti col Codice! Le intenzioni di Pio X nel 1904 e le affermazioni di Benedetto XV nel 1917 —e successive— non possono in alcun modo essere tenute nello stesso conto!
Giova, certamente, ricordare come Benedetto XV, a differenza di Pio X, avesse una vera ‘formazione’ giuridica (civilistica): prima di intraprendere gli studi teologici a Roma si laureò in Legge a Genova (1871-1875) con una Tesi su “L’interpretazione delle leggi” , risentendo inevitabilmente dei retaggi della giuridicità statuale moderna in modo ben differente da Pio X che si studiò il diritto canonico (amministrativo) in canonica ed in Curia. Questo significativo particolare ‘personale’ va certamente considerato nella valutazione delle affermazioni dottrinali e statuizioni dispositive del promulgatore del C.I.C. 17.
Particolarmente significativo si mostra in proposito l’intervento del professore e senatore P.E. Bensa (suo compagno di Facoltà) in occasione della commemorazione dello scomparso Pontefice presso la Regia Università di Genova il 2 giugno 1926; nella presentazione del giurista Giacomo Della Chiesa egli sottolinea l’attenzione e l’entusiasmo, da lui manifestati in occasione della Tesi di laurea, per il ‘nuovo’ Codice civile del Regno d’Italia da poco promulgato (1865) ; d’altra parte una Tesi sul tema ‘interpretazione delle leggi’ non poteva avere significato altrimenti, vista la ‘naturale’ avversione che dall’Umanesimo in poi si era manifestata proprio verso questo ‘tema’ giuridico ed istituzionale, bandito a livello teoretico e rigidamente normato a livello legislativo.
Sarebbe facile a questo punto rendersi conto del fatto che molte delle ‘accuse’ di ideologia genericamente attribuite alla codificazione intrapresa da Pio X riguardano in realtà atti di Benedetto XV o comunque del suo pontificato … tale è infatti la Circolare della S. Congregazione per i Seminari e le Università circa l’adozione esclusiva del metodo esegetico, tale è, ancor di più, il Motu ProprioCum juris canonici” con cui il romano Pontefice preveniva il ‘discredito’ del Codice appena promulgato e fissava i criteri e le modalità per la sua ‘integrazione’ ; nella stessa linea si colloca anche la contestuale istituzione della “Commissione per l’interpretazione autentica del C.I.C.” (quale legame personale tra la Tesi di laurea in diritto civile e questa decisione per il Codice di diritto canonico?) …tale è anche la “Prefatio” del Card. Gasparri allo stesso Codice .
Alla luce di questi, pur semplici, dati pare legittimo chiedersi se non sia stato proprio Benedetto XV ad aver ‘professato’ —più o meno consapevolmente— una vera ‘ideologia codificatoria’ di stampo civilista moderno; la sua formazione giuridica, all’interno di un contesto ancora entusiasta della codificazione moderna (il Regno sabaudo, assoluto ed ‘illuminato’ in pieno Risorgimento ), lo avvicinava infatti in modo ‘pericoloso’ ad un genere di ‘idee’ che mai si sarebbero potute conciliare coi presupposti dottrinali antimodernisti di Pio X, che aveva iniziato la propria opera su ben altre premesse e con ben altri scopi… come la storia pare dimostrare ormai con sufficiente chiarezza e certezza.
Altro elemento da considerarsi con attenzione nel valutare le diversità di rapporto tra Pio X, Benedetto XV ed il ‘loro’ Codice canonico, è il differente atteggiamento verso la ‘modernità’, le sue idee ed i suoi esiti; è risaputo come Benedetto XV, pur senza (poter) sconfessare apertamente i suoi predecessori più accesi, non li abbia tuttavia seguiti nella loro crociata, lasciandone cadere molte istanze ‘teoretiche’ ed operando una sostanziale ‘conciliazione’ col nuovo ‘Evo’ socio-politico, anche all’interno stesso della cattolicità, combattendo più apertamente gli ‘antimodernisti’ che non le loro ‘vittime’ e negando loro libertà di azione nomine Ecclesiæ .

Allo stesso modo, poi, non può essere sottovalutato lo ‘zelo’ degli stessi tecnici (e ‘teorici’ della Codificazione) una volta che ebbero tra le mani la ‘loro’ preziosa opera ed un avallo papale ben diverso dal rigido controllo dottrinale del primo Papa ‘codificatore’… In questi casi spesso i discepoli ‘superano’ i maestri… soprattutto nei ‘limiti’ che impongono alla loro opera e dottrina!
Diventa perciò ragionevole, nel contesto post-codificatorio, ‘rivalutare’ anche la figura del Card. P. Gasparri, ormai ultima ‘musa’ di tutta l’opera ed indiscusso teoreta —a posteriori — e ‘custode’ della codificazione stessa… come ben dimostra la sua attività dopo il 1917 nel predisporre la raccolta delle Fonti , nello stendere la Prefazione al C.I.C. e, più generalmente, nel trasmettere alla storia il proprio punto di vista sulla codificazione pio-benedettina .
Formato canonisticamente alla scuola del “Seminario romano” (1870-1877) negli anni più floridi dello Jus Publicum Ecclesiasticum trapiantato nella capitale della cattolicità , P. Gasparri fu docente di diritto canonico presso l’Institut Catholique di Parigi dal 1880 per 18 anni, guadagnandosi la reputazione di valente canonista, tanto da essere chiamato da Roma a dare il proprio apporto alla risoluzione di scottanti problemi quali la validità delle ordinazioni episcopali anglicane (1894), preludio al definitivo ‘insediamento’ presso la Curia romana.
R. Aubert nota con perspicacia come, dopo il ‘tradizionale’ commento delle Decretali, il promettente professore parigino avesse aggiunto anche lezioni di ‘diritto ecclesiastico’ (Jus Publicum Ecclesiasticum), facendosi apprezzare per la chiarezza e, soprattutto, la sistematicità della trattazione, nuova per l’epoca. Poco portato verso la speculazione teoretica (nonostante la laurea in filosofia ed in teologia), con una certa ‘fatica’ verso la storia (alla quale non si dimostrava propenso), prevaleva in lui l’attenzione per la componente ‘pratica’ ed efficace del diritto che ne fece anche un fine diplomatico ed uomo di governo, Segretario di Stato di due Pontificati.
Sotto il profilo tecnico fu lui la ‘vera’ anima di tutta l’opera ‘codificatoria’, dalla ‘promessa’ di realizzarla in vent’anni, al suo coronamento in poco più di tredici, alla presidenza della “Commissione per l’interpretazione autentica del C.I.C.”, al suo ‘patrocinio’ tecnico e teoretico ben oltre la scomparsa di tutti gli altri grandi protagonisti.
Nella ridda di ipotesi, illazioni e documenti circa la reale ‘paternità’ dell’idea della codificazione (questione posta già nel 1936 da N. Hilling) non sono comunque trascurabili alcuni elementi: "Papa Sarto non aveva alcuna affinità con lui che, nonostante le origini, aveva tutte le caratteristiche dell’intellettuale e del diplomatico consumato, ma ne subì il fascino e gli diede carta bianca" …accomunato dallo stesso obiettivo: il Codice, illico et immediate!
"Occorre poi tener conto della stagione parigina del Gasparri ossia del suo percorso intellettuale, rivolto a dare una sistemazione logica alle materie canonistiche, come anche dell’influenza esercitata su di lui dalla cultura giuridica francese, che aveva fatto della codificazione un vero e proprio mito in grado d’influenzare anche l’attività scientifica di diversi canonisti, distintisi per aver fornito, a puro titolo privato, esemplificazioni e codificazioni parziali del diritto della Chiesa" ,
…uno scolion con cui anche lo stesso Gasparri, secondo alcuni autori , si sarebbe misurato .

Risponderebbe pertanto ai fatti —e più ancora ai personaggi— la critica che una certa componente ideologica codificatoria si sia diffusa nella Chiesa cattolica del XX sec.; allo stesso tempo bisognerebbe altresì riconoscere contestualmente che questo accadde dopo il 1914, lasciando sostanzialmente impregiudicata l’ispirazione e la ‘natura’ dell’opera giuridico-pastorale di Pio X.
Già M. Falco nel 1925 aveva rilevato come lo stesso Papa Benedetto XV abbia esposto — proprio nella Costituzione di promulgazione del C.I.C., “Providentissima mater Ecclesia”— idee e convinzioni erronee circa la ‘portata’ del nuovo strumento giuridico, indicato —enfaticamente— come “novum totius canonici iuris Codex” …come se ‘altri’ (contrapposti a novum) ce ne fossero stati in precedenza. Allo stesso tempo non era corretto neppure affermare che si trattasse del Codice “di tutto il diritto canonico” (universale o commune, che dir si voglia), data la grande quantità di norme della stessa ‘forza e valore’ esplicitamente lasciate extra Codicem (Cfr. Cann. 1-6) e/o contestualmente promulgate. Nella stessa direzione l’enfasi del breve discorso, tenuto in Vaticano nella vigilia dei Ss. Pietro e Paolo nella cerimonia di presentazione ufficiale del nuovo C.I.C., conferma ed amplia i medesimi presupposti: il Codex contiene tutte e sole le leggi che reggono oggi la Chiesa!
Non meno che ‘misterioso’ —ma altrettanto eloquente— rimane poi il significato dell’affermazione pontificia "ci proponiamo di zelarne la fedele osservanza, chiudendo l’orecchio ad ogni domanda di qualsiasi deroga" ; sul suo esempio anche altri Prelati dimostrarono pubblicamente di ‘non sapere’ con precisione ciò di cui andavano tessendo le lodi .
Il pregiudizio teoretico ‘codicistico’ era evidentemente forte… non attribuibile, però, a Pio X che, nel dare inizio all’opera codificatoria, nulla aveva scritto del Codice in se stesso, contentandosi di illustrarne la necessità .

IX. Conclusioni: codificazione canonica e metodologie di approccio
La Circolare “De novo iuris canonici”, nell’intento —zelante— d’indicare una metodologia ‘adeguata’ di approccio al Codice appena promulgato, impose ai canonisti un metodo, l’esegesi, caratterizzato da una serie di presupposti teoretici che —se pienamente rispondenti alla codificazione civile moderna— risultavano tuttavia assolutamente estranei ed inadeguati alla natura del Codice pio-benedettino, finendo così per rinchiudere una scienza antica di nove secoli (almeno) tra le angustie di ‘quattro pagine’ di carta stampata, sequestrandola irrimediabilmente a se stessa, per sottometterla alle angherie di quella ideologia modernista alla quale Pio X (il ‘codificatore’) avrebbe voluto sottrarre la Chiesa.
Senza scandalizzarsi inutilmente, un minimo di consapevolezza storica permetterebbe di rintracciare lungo i secoli altri tristi ‘esempi’ di come lo ‘zelo riformatore’ abbia potuto travalicare i propri stessi presupposti imponendo alla prassi comune ‘verità’ assolutamente parziali, quando non anche macroscopici errori; due esempi per tutti: la condanna del Clero concubinario in piena Riforma Gregoriana, ed il divieto delle traduzioni della S. Scrittura in lingua ‘volgare’ in tempi di ‘contro-riforma’.
- Il Cardinale riformatore Umberto da Silvacandida, come ben risaputo, si scagliò più volte con veemenza contro il Clero concubinario e simoniaco insegnando con forza come la perversione di questi ministri dell’altare fosse talmente bieca da rendere anche invalido il loro agire ministeriale… e sacramentale. Peccato che, già dai Sinodi africani presieduti da S. Agostino contro i Donatisti proprio sulla questione della ‘validità’ dei sacramenti amministrati da Chierici ‘indegni’, fosse stata affermata nella Chiesa la dottrina secondo cui l’indegnità morale del ministro non compromette la ‘validità’ del sacramento… a piena tutela della validità ed efficacia dei sacramenti stessi ex parte fidelium .
- Allo stesso modo, l’impeto di riforma ‘tridentin(ist)a’ aveva spinto Papa Paolo IV nel 1559 a vietare —proprio marte— le traduzioni in lingua volgare della S. Scrittura sottoponendo anche tali traduzioni all’Inquisizione, benché nulla il Concilio di Riforma avesse deciso in merito… data soprattutto la diametralità delle tendenze manifestatesi tra i Padri conciliari . La storia, però, ci ha consegnato come ‘frutto conciliare tridentino’ questa unilaterale decisione che tante critiche ha ‘collezionato’ fino ai tempi del Concilio Vaticano II.

Venendo direttamente alla vexata quæstio della metodologia esegetica da applicarsi al Codice pio-benedettino, giova esplicitare alcune delle convinzioni ideologiche —propugnate dalla “école de l’exégèse”— che continuavano ad esercitare un notevole influsso negli ambienti pontifici di studio e di Curia ai tempi di Benedetto XV.
Un esame rigoroso della dottrina ‘esegetica’ —già condotto negli anni ’20 da J. Bonnecase — evidenzia come l’elemento metodologico (l’esegesi) fosse in realtà solo strumentale ad una vera ‘ideologia codificatoria’ contraddistinta da cinque tratti tipici: 1) culto del testo della legge, 2) predominanza della volontà del legislatore, 3) carattere profondamente ‘statalista’, 4) presenza di un ‘principio superiore’ del diritto, 5) dogmatismo autoritativo . Secondo la dottrina/ideologia ‘esegetica’ la norma codificata ‘vale’ in virtù della sua promulgazione autoritativa e dev’essere applicata ‘letteralmente’; di fatto jussum, jus e justum coincidono nel Codex e al giurista non rimane che ‘leggere’ il Codice ed applicarlo, senza nessuna ‘interpretazione’ che lo porrebbe illegittimamente in una posizione di ‘giuris-dizione’ (propria del legislatore) . Quando il Codice (la lex) “è” lo jus —anziché contenerlo ed esprimerlo— , la massima fedeltà al diritto sta nell’accostarsi al Codice in modo intensivo … poiché nello jussum la ragione ha dato il meglio di sé .
Codificazione moderna ed esegesi si corrispondono in modo biunivoco derivando, di fatto, dalle stesse premesse filosofico-istituzionali ; una visione ‘codicistica’ postula di fatto un approccio ‘esegetico’, così come un approccio esegetico induce una visione codicistica… proprio quanto accadde al diritto canonico sotto il (civilista) Benedetto XV.

Davanti alla perentorietà dell’imposizione metodologica (e teoretica) della S. Congregazione, assolutamente nuova (ed ingiustificata) per la Canonistica, si ebbero due reazioni contrapposte: una ‘laica’ ed una ‘clericale’… comunque radicalmente contrarie all’esegesi stessa.
I canonisti ‘laici’ (docenti di diritto ecclesiastico o canonico presso le università statali, soprattutto italiane) non si curarono affatto della prescrizione (in-pertinente sotto il profilo tecnico-metodologico), forti anche della consapevolezza di essere ‘fuori’ dalla giurisdizione della S. Congregazione e procedettero applicando anche al diritto canonico ‘codificato’ la c.d. ‘dogmatica giuridica’ già in uso per il diritto statuale vigente e per quello romano antico ; la quasi totalità dei canonisti ecclesiastici invece, con animo sostanzialmente ‘tradizionalista’ , si sottomise con remissività all’imposizione ‘pontificia’, cercando tuttavia —ben presto— scampo in un preteso nuovo modo di impostare l’approccio al diritto canonico: la c.d. ‘teologia del diritto’ . Ne nacquero due ‘scuole’ canonistiche : la c.d. “Scuola laica italiana”, che ebbe i suoi sviluppi anche in Spagna presso l’Università di Navarra (ed oggi anche presso la “Pontificia Università della Santa Croce” a Roma), e la c.d. “Scuola di Monaco” incentrata sulle dottrine di K. Mörsdorf presso la Ludwig-Maximilian-Universität di Monaco di Baviera (accolta poi a Friburgo, Lugano, Paderborn, con un buon seguito da parte di vari canonisti Gesuiti ed ampi strati della Gerarchia cattolica).
Di fatto, a parte l’editoria ‘di rito’ legata a questo genere di eventi giuridici (commentari esegetici e simili), le due ‘Scuole’ procedettero in massima parte secondo i propri indirizzi, trascurando di dare spazio ad una metodologia imposta ideologicamente d’autorità: la c.d. ‘Scuola di Navarra’ ha sviluppato una linea di ricerca ed editoria rivolta alla dimensioni più ‘costituzionali’ e strutturali del diritto canonico, sulla falsariga della trattatistica statuale (diritto costituzionale, diritto amministrativo… ecc.); la ‘Scuola di Monaco’ si è dedicata invece particolarmente ai ‘fondamenti’ ed alle implicanze teologiche del diritto ecclesiale; per entrambe l’attività puramente ‘esegetica’ è da ritenersi assolutamente marginale.
Va inoltre rilevato sotto questo profilo il forte dissenso metodologico espresso nei fatti anche da canonisti Membri delle stesse Commissioni pontificie per la codificazione: l’esempio maggiore è quello del gesuita P. Vidal che, aggiornando la monumentale opera del confratello (lui pure Consultore) X. Wernz , non solo ne conservò la struttura di base ma utilizzò complementarmente ben quattro metodi: esegetico, sistematico, storico e pratico, aggiungendo lo Jus novum al vetus in una nuova opera dalle salde origini tradizionali . Lo stesso A. Vermeersch (e J. Creusen con lui, gesuiti), senza curarsi particolarmente del perentorio indirizzo metodologico assegnato dalla S. Congregazione, insegnò già dagli anni ’20 che:
"Scientia iuris canonici constat principiis iuridicis tum generalibus tum legislationis Ecclesiæ propriis, historia legum ecclesiasticarum, interpretatione analytica et systematica vigentis disciplinæ. Quare iuris canonici studioso opus sunt scientiæ theologicæ, historicæ et iuridicæ" .
Ben presto anche da parte della stessa S. Congregazione cominciarono a notarsi sensibili segni di ‘cedimento’ metodologico (ma, più ancora, ideologico); nell’Istruzione, infatti, indirizzata nel 1920 agli Ordinari italiani a proposito delle riforme che il C.I.C. richiedeva circa il funzionamento dei Seminari, le indicazioni impartite per l’insegnamento del diritto canonico all’interno del c.d. ‘corso istituzionale’ in vista dell’ordinazione presbiterale non mostravano affinità con quanto già prescritto solo qualche mese prima per lo studio ‘accademico’ dello stesso diritto canonico:
"il Diritto Canonico dovrà essere insegnato in forma d’istituzioni, facendo cioè un’esposizione succinta e ordinata delle prescrizioni contenute nel Codice, con le opportune nozioni e principi, ricevuti comunemente in questa scienza. … Non si omettano all’occorrenza, i necessari confronti fra la legislazione canonica e la civile. —A questo studio si premetta un breve ma succoso trattato di Diritto Pubblico Ecclesiastico, dove si espongano nettamente i poteri della Chiesa e la posizione giuridica di essa di fronte allo Stato—" .
Quando poi, a distanza di un decennio (1931), la stessa S. Congregazione nelle “Ordinationes ad Constitutionem apostolicam "Deus scientiarum Dominus"” di Papa Pio XI approntò il nuovo piano degli studi per le Università e Facoltà ecclesiastiche non vi indicò alcuna specifica in merito alla metodologia esegetica , riproponendo di fatto lo schema di docenza Canonistica tradizionale.

Tirando le somme di questo lungo ed articolato percorso si può affermare con sufficiente consapevolezza scientifica (e morale) —e buona pace di C.M. Redaelli — che il Codice pio-benedettino altro non fu che una “consolidatio juris communis, di matrice teoretica pre-moderna; le disposizioni e teorie che ne hanno seguito la promulgazione, discostandosi dalla volontà dell’iniziatore dell’Opera, non possono mutarne la natura strutturale né metodologica; l’approccio esegetico imposto dalla S. Congregazione nel 1917 risulta, conseguentemente, del tutto ingiustificato ed incondivisibile sotto il profilo teoretico e metodologico.
A questa imposizione, anzi, ed allo scompiglio da essa portato tra le file dei canonisti del secolo scorso, deve farsi risalire buona parte dei motivi di crisi della Canonistica preconciliare, così come dell’attuale situazione di ‘stallo’ teoretico in cui si continuano a confrontare —in una sostanziale guerra di trincea— le due Scuole emergenti.

In prospettiva: a) ridimensionato l’approccio ‘esegetico’, b) considerata la natura ‘dissenziente’ della c.d. ‘teologia del diritto’, c) dando il giusto peso metodologico alle moderne teorie ‘dogmatiche’ giuridiche, diventa possibile e necessario applicare al C.I.C. pio-benedettino un approccio metodologico secondo la tradizione canonistica classica: attenta alle fonti, curiosa circa la ratio legis, circostanziata a riguardo del fine della norma canonica, rispettosa (ma non succube) dell’autorità, capace di trarre dal cammino di formazione della norma canonica la sua vera vis ac potestas, in un orizzonte ormai maturo e capace di restituire alla Canonistica la propria dignità di vera ‘scienza giuridica’ (a tutti gli effetti e sotto ogni profilo), senza dover questuare da altri il proprio ruolo, né offrirsi a ‘qualcuno’ come semplice ancilla.

Gherri Paolo


pubblicato in: APOLLINARIS, LXXVII (2003), vol 3-4, p. 827-898.