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Canonistica e questione epistemologica: l’apporto di T. Jiménez Urresti



1. Concilium - 2. L’Editoriale del 1965 - 3. L’opzione epistemologica - 4. La ‘de-teologizzazione’ del Diritto canonico - 5. La dottrina - 6. Il sillogismo deontico - 7. Il presupposto di base - 8. Il ‘fondamento’ - 9. Il Diritto canonico: essenza - 10. Il Diritto canonico: logica operativa - 11. Genericità e relatività delle norme - 12. La Canonistica - 13. La questione epistemologica - 14. La questione terminologica - 15. L’impatto dottrinale - 16. Conclusioni.

“Teodoro Jiménez Urresti chi era costui?” …avrebbe chiesto l’acculturato don Ferrante (ERRATA CORRIGE: era don Abbondio!!!)di manzoniana memoria.
E questo diranno certo parecchi —anche oggi— di uno dei canonisti dello scorso secolo tra i più disattesi e meno considerati, nonostante i suoi scritti abbiano richiamato per anni l’attenzione degli studiosi dalle pagine di autorevoli testate canonistiche e teologiche, su tematiche ancor oggi di primaria importanza.
Il suo nome è stato spesso ‘dimenticato’ a vantaggio di altri esimi canonisti che con le loro riflessioni (anche concordi con le sue) fomentavano però in modo più diretto il confronto tra le diverse scuole dottrinali; allo stesso modo l’opera della sua maturità scientifica: “De la Teología a la Canonística” (anno 1993) è come ‘scivolata’ sulle onde del vivace confronto tra i discepoli di Mörsdorf-Corecco e quelli di Del Giudice-Lombardia arenandosi su qualche spiaggia lontana dai ‘lidi’ accademici più frequentati nel volgere di millennio; generalmente ‘tralasciato’ da chi illustrava il contemporaneo panorama dottrinale canonistico.
A quarant’anni dalla pubblicazione del ‘famoso’ Editoriale di Concilium del 1965 (ediz. francese) —firmato insieme con Petrus Huizing (Docente a Nimega — Olanda) e Neophitus Edelby (Vescovo cattolico orientale e Padre conciliare)— è doveroso però issare di nuovo la sua vela perché il vento della scientificità vera possa finalmente sospingere anche noi verso i lidi della ‘buona dottrina’ e —soprattutto— dell’autentica Scienza canonistica.

1. Concilium
Il nome di Teodoro Jiménez Urresti , al di là dei numerosi articoli su riviste specializzate, è legato storicamente all’Editoriale di Concilium del 1965 col quale si inaugurava la “Sezione di Diritto canonico” della “Rivista internazionale di Teologia, Concilium”, che Jiménez Urresti avrebbe poi diretto per sette anni, fino al 1971.
L’apporto dottrinale più caratteristico di Jiménez Urresti, che emerge coerentemente in tutti i suoi scritti, riguarda l’approccio epistemologico alla Canonistica ; il suo assillo ed il suo cruccio costante è stata, infatti, la distinzione/relazione tra Teologia e Canonistica in un impianto di riflessione dottrinale che, pur dipanandosi lungo un trentennio, emerge però in pienezza soltanto nell’ultima Opera che porta proprio un titolo programmatico: “De la Teología a la Canonística”.
E’ probabilmente alla sua passione cristallina per un approccio tecnico come quello epistemologico che dev’essere ricondotta la difficoltà di molti autori (dottrinalisti) a prendere in considerazione le sue argomentazioni e, più radicalmente, il suo insegnamento, motivando —forse così— la disaffezione per la sua opera dottrinale. D’altra parte era ben più facile per la maggioranza dei canonisti e teologi introdurre o accettare il ‘caldo’ confronto su tematiche prettamente teoretiche piuttosto che non avventurarsi verso le ‘fredde’ istanze epistemologiche, troppo imparentate con fisici e matematici.
Quando poi in epoca post-conciliare la Teologia fu accostata alla Canonistica, pretendendo di esserne la ‘quintessenza’, —uno stadio avanzato ed innovativo— non restò spazio alcuno per un serio confronto epistemologico, nonostante ‘certi’ canonisti avessero bocca e penna piene di questa parola: Corecco docet.
L’avventura di Concilium fu senza dubbio fondamentale, ma non meno drammatica, per T. Jiménez Urresti che ben presto dovette accorgersi di essere ‘solo’ (unico epistemologo e metodologo) pur all’interno di una linea dottrinale teoreticamente condivisa: è sufficiente —infatti— scorrere gli indici di Concilium per rendersi conto dell’enorme distanza tra le ‘sue’ tematiche e quelle degli altri collaboratori. L’esito di quel percorso intellettuale e dottrinale, per quanto condiviso in linea teorica almeno nell’intuizione, è sotto gli occhi di tutti: nel 1979 la “Sezione di Diritto canonico” fu sostituita da quella di “Istituzioni ecclesiali” che continuò (con cadenza ormai biennale) la linea, irreversibile, delle speculazioni sulla —generica e teoretica— istituzionalità ecclesiale, tralasciando di offrire una necessaria proposta metodologica capace di proporre al ‘canonista conciliare’ gli strumenti adatti per affrontare con piena dignità il proprio prezioso (e spesso ingrato) lavoro.
A differenza delle altre riflessioni canonistiche strutturatesi nei decenni della preparazione conciliare (Navarra e Monaco), configurabili in vere e proprie ‘Scuole’ , l’attività di Concilium non può essere interpretata in un’ottica di sistematicità: si è trattato piuttosto di dare spazio nell’immediato post-Concilio ad istanze teoriche ed esperienze pratiche che potevano ‘consonare’ col ‘programma’ enunciato nel 1965, in un’ottica di complementarietà di pensiero e punti di vista, attorno a tematiche di grande rilievo e portata istituzionale e teologica come “il potere nella Chiesa”, “la contestazione nella Chiesa”, “la scelta dei vescovi”, ecc.
Proprio per questo particolare approccio (tipico di una rivista ‘teologica’) il contributo canonistico di Concilium ha raggiunto l’apice negli anni precedenti la promulgazione del CIC 83, quando la riflessione teologico-pastorale poteva ancora esprimere i propri desiderata ed auspici ed anche le semplici ipotesi teologico-istituzionali potevano prospettare una qualche plausibilità.
Con la promulgazione del nuovo Codice però si lasciò definitivamente cadere la sensibilità più tipicamente tecnico-giuridica (mai esplicitata in realtà) per un sostanziale riflusso ‘teologico’ che ha contribuito a spostare il centro della riflessione dal Diritto reale (quello promulgato e vigente) al Diritto ideale (quello che probabilmente non riuscirà mai a diventare effettivo perché più legato ai desideri dei teologi che alle necessità delle Comunità cristiane): uno jus accademice condendum. La prevalenza quasi totale dell’aspetto dottrinale e, più ancora, la mancanza di una reale proposta metodologica (scientifica) hanno fatto sì che gli autori della Rivista si trovassero ‘spiazzati’ davanti ai 1752 canoni del nuovo Codice di Diritto canonico verso i quali non manifestarono nessuno sforzo tecnico, neppure a livello ‘strutturale’.
Proprio questa mancanza metodologica segnò la fine sostanziale del cammino intrapreso dalla Rivista, così come il naufragio di quella che non riuscì neppure a diventare la Scuola canonistica di Concilium e —probabilmente— motivò —ben prima— l’uscita di scena di T. Jiménez Urresti; d’altra parte il ‘punto di vista’ africano, peruviano (caucasico… transiberiano) su una determinata forma istituzionale nella Chiesa non poteva produrre molto di più quando, concluso il periodo dello jus condendum, si disponeva ormai del nuovo Codice di Diritto canonico nella sua concretezza di jus vigens. L’eccesso d’attenzione teologica al vissuto istituzionale quotidiano, rispetto ad una —comunque— necessaria riflessione teoretica di natura scientifica e metodologica sulla realtà del Diritto canonico come tale, manifestò probabilmente l’infecondità della collaborazione intrapresa negli anni ’60.
Visto pertanto che l’opzione epistemologica, non era riuscita a decollare a Nimega, Jiménez Urresti si concentrò su Toledo e Salamanca dove, nell’ambito accademico, le idee poterono essere raccolte e fissate, forse più per chi le ‘aveva concepite’ che per i posteri, ai quali l’Opera del 1993 si presenta in modo piuttosto dissuasivo.

2. L’Editoriale del 1965
Il manifesto inaugurale dell’attività canonistica di Concilium è profondamente segnato dalla mano di T. Jiménez Urresti e l’intento di “de-teologizzare” il Diritto (e “de-giuridizzare” la Teologia) trova senza dubbio in lui il proprio fondamento teoretico più puntuale e consapevole, prospettandosi ben oltre un semplice slogan, come —invece— fu interpretato da molti, anche favorevoli a questa nuova linea dottrinale. Gli articoli che seguiranno saranno solo una esplicitazione di quanto racchiuso ed evocato da questi due termini programmatici: Teologia e Diritto sono discipline così diverse che non è possibile, né tanto meno legittimo, accostarle e valutarle allo stesso modo ; il loro rapporto è tuttavia vitale e vivente nella Chiesa, al punto che è la stessa vita ecclesiale che, spesso impercettibilmente, prende spunto dai contenuti teologici (‘generici’) per tradurli in concreti modi di agire (‘specifici’), che diventano anche regole d’azione a servizio di una più efficace opera evangelizzatrice e pastorale.
La ‘novità’ dell’Editoriale del ’65 consiste proprio nel proporre intenzionalmente un approccio al Diritto canonico in chiave ‘pastorale’, richiamandolo dall’ambito ‘morale’ al quale era stato confinato ancora nel primo mezzo secolo scorso. La de-teologizzazione del Diritto canonico consiste proprio nel ricollocarlo dall’ambito teoreticamente valoriale a quello concretamente vitale, riconoscendogli un autentico primato, d’ordine pratico invece che teoretico.
In questa linea consisteva il condiviso con P. Huizing ed il resto della Direzione di Concilium.

L’impegno di una rivista teologica come Concilium nel campo del Diritto canonico si motiva —secondo i tre firmatari— a partire dalla ragione che “il Diritto canonico e la Teologia hanno tra loro dei rapporti essenziali”: 1) si può parlare di una Teologia ‘del’ Diritto canonico e di una Teologia ‘nel’ Diritto canonico; 2) non identificazione della Teologia col Diritto canonico; 3) accusa dei pastoralisti al Diritto canonico di non avere un’agilità sufficiente e di mancare di efficacia strumentale; 4) principio della relatività canonica e della genericità degli imperativi teologici .
L’elemento dottrinale maggiormente condiviso (come si vedrà negli anni a seguire) è la concezione del rapporto tra Teologia e Diritto canonico: l’una fonda, anche se in modo ‘generico’, ciò che l’altro specifica ‘in’ e ‘per’ un determinato ‘tempo’ storico: vedasi a dimostrazione di ciò l’evoluzione delle dottrine —dogmatiche— sui Sacramenti o la collegialità episcopale.
Secondo gli autori, la Teologia offre al Diritto canonico le basi ‘pre-giuridiche’ ed il fine ‘meta-giuridico’, lasciando poi al Diritto canonico l’incombenza concreta di declinare questi elementi ‘generici’, ma altrettanto immutabili, nelle diverse situazioni concrete di vita della Comunità di fede, in modo non difforme da come nell’ambito della c.d. Morale speciale si declinano i diversi valori traendone le c.d. norme morali legate, senza dubbio alcuno, alle differenti circostanze e situazioni di vita dei credenti, “omnibus adiunctis perpensis”, da qui la relatività canonica rispetto alla assolutezza teologica. A sua volta proprio la consapevolezza della relatività canonica dovrebbe aiutare a non assolutizzare teologicamente i comportamenti canonici della storia, come se un fatto canonico potesse costituire immediatamente anche un legittimo locus theologicus da cui dedurre direttamente principi dottrinali di pronto utilizzo speculativo e pastorale. Di fatto proprio la varietà e contradditorietà delle discipline canoniche vigenti in varie parti della stessa Chiesa manifesta la presenza e ‘possibilità’ di diverse Teologie, servata fide catholica, anche in ambito sacramentale: vedasi p. es., l’Iniziazione cristiana nelle Chiese Cattoliche Orientali o il ‘loro’ ministro del Matrimonio.
“Il Diritto canonico, poi, è uno strumento a servizio della pastorale e, come tale, è necessario adeguarlo continuamente, revisionandone la fedeltà teologica e la reale rispondenza operativa; proprio in questa luce si evidenzia come la ‘teologizzazione’ del Diritto canonico, assolutizzandone le disposizioni normative, ‘immobilizza’ la verità teologica trasmettendo questa stessa immobilità alla pastorale che diventa, inevitabilmente, moralistica e giuridista. Gli autori paiono tuttavia convinti anche del contrario: esiste una ‘pressione’ del Diritto canonico, sospinto dalla pastorale, sulla Teologia perché questa gli detti i limiti teologici immutabili all’interno dei quali il Diritto canonico può continuare a muoversi in ciascun ‘oggi’ della vita ecclesiale. […]
‘Concilium’ vorrebbe [pertanto] aiutare i teologi a “degiuridizzare” la Teologia ed i canonisti a “deteologizzare” il Diritto canonico. In tal modo questi potrebbero in definitiva collaborare coi teologi della pastorale e dell’ecumenismo, così come coi legislatori, per presentare la Chiesa e le sue funzioni con un aspetto canonico che la renda progressivamente più attraente e munita di un apparato legislativo sempre più adeguato ai segni di ciascun tempo, come la voleva Giovanni XXIII. Esso vuole dunque avere, per missione e segno, il segno e la missione del Vaticano II: essere “cattolico, ecumenico e pastorale”” .

3. L’opzione epistemologica
Pur non utilizzandone le categorie, il linguaggio e le logiche formali , T. Jiménez Urresti ha tuttavia articolato una vera riflessione epistemologica, tanto più importante ed innovativa quanto tale livello di approccio alle problematiche metodologiche era ancora sconosciuto in ambito genericamente ‘teologico’ ed ecclesiastico .
Caratteristica peculiare della sua riflessione fu senza dubbio il sostanziale perseguire la finalità epistemologica (fondativa ed articolatrice della Scienza e del suo specifico metodo) utilizzando tuttavia le categorie e le logiche della Scolastica e del Tomismo, alla cui scuola —come tutti— era cresciuto nei decenni che avevano preceduto il Concilio. Si creò in tal modo un vero gap tra la sua intuizione (coi risultati costantemente perseguiti) e lo ‘strumentario’ adottato: innovativi i fini ma ‘tradizionali’ i presupposti, più che moderne le conclusioni ma ‘scolastici’ i ragionamenti.
La difficoltà dottrinale generata da questo modo di articolare la riflessione risalta ancora maggiormente nel raffronto con la linea seguita soprattutto da E. Corecco che utilizzò, invece, categorie e logiche formalmente conciliari (terminologicamente parlando) ma per confermare un’impostazione che rimaneva assolutamente tradizionalista nel modo di concepire l’essenza, il ruolo e la collocazione tanto del Diritto canonico che della Canonistica . A questo ‘incrocio’ tra concezione di fondo e categorie adottate per perseguirla deve attribuirsi il successo dottrinale di chi ha saputo meglio sfruttare il ‘linguaggio’ del tempo (Corecco) rispetto a chi, per rimanere saldamente ancorato alla sana doctrina, si è visto penalizzare nella recezione dei nuovi contenuti proposti (Jiménez Urresti): un’altra scontata vittoria del trasformismo conservatore sulla vera innovazione, scientificamente fondata ex integra traditione.
La volontà fermissima di far sbocciare la necessaria autonomia scientifica della Canonistica dalle radici più autentiche della tradizione teologica tomistica, attraverso una dimostrazione ampiamente fondata ed argomentata, costituisce certamente la maggior difficoltà di approccio al pensiero maturo di T. Jiménez Urresti che, soprattutto nell’Opera conclusiva, si articola secondo percorsi e logiche certamente inadatti al momento teologico contemporaneo (nostro e suo), rendendone difficilmente recepibili e l’intuizione e le conseguenze. Ancora una volta un metodo rigoroso, ma inadatto ai lettori, ha penalizzato un contenuto assolutamente inoppugnabile sotto il profilo scientifico, mentre la tattica di blandire l’uditorio con le parole del momento continua a raccogliere successi e consensi (ed a mietere vittime inconsapevoli).
E’ proprio per questo motivo che una vera comprensione della dottrina di T. Jiménez Urresti può avvenire solo attraverso una sua necessaria collocazione all’interno dell’ambito epistemologico anziché teologico, richiedendo —al contempo— una sorta di trasposizione concettuale per poter essere più facilmente recepita nei giorni (nostri) in cui dell’immenso armamentarium Tomistico-Scolastico non restano che isolate vestigia, e la riflessione teologica in generale preferisce articolarsi a partire da altre categorie più consone ai livelli della riflessione scientifica e filosofica del terzo millennio cristiano ; il pur pregevole tentativo di C.M. Redaelli di ‘dedurre’ dagli scritti dell’autore un’idea e ‘definizione’ di Diritto canonico, da mettere a confronto con gli altri autori postconciliari, si mostra perciò inadeguato e —metodologicamente— non-corretto: inefficace semplificazione di una problematica in realtà neppure percepita .

4. La ‘de-teologizzazione’ del Diritto canonico
Tanto si è detto e scritto a proposito della formula —in realtà troppo sintetica— “de-teologizzazione del Diritto canonico”, e della sua reciproca (“de-giuridizzazione della Teologia”), senza tuttavia cogliere quasi mai la portata autenticamente metodologica e profondamente anti-ideologica di questi concetti; purtroppo solo nell’ultima Opera l’autore riesce ad esplicitare con chiarezza la sua intuizione di base, la fedeltà alla quale gli è costata il sostanziale isolamento teoretico e dottrinale.
Il giusto strumento interpretativo gli è offerto proprio dall’interno dello stesso mondo teologico post-conciliare, popolato ogni giorno di più dalla nascita di c.d. Teologie aggettivate (dette altrimenti Teologie dei genitivi); si tratta di un ‘secondo livello’ della Teologia concernente le cose umane, e le creature in quanto riferite a Dio come proprio principio e fine, in un orizzonte ampio quanto le realtà terrene ed umane che possono così diventare —tutte— ‘oggetto’ di Teologia.
“Negli ultimi decenni son venute formulandosi molte [di queste Teologie], tra di esse le Teologie della storia, della politica, della rivoluzione, della liberazione; […] e la Teologia del Diritto canonico. Esse hanno reso di attualità il tema del loro metodo: della loro ragione formale logica, del regime interno del loro procedere, della loro critica scientifica o Epistemologia” .
L’autore osserva però acutamente —e correttamente— che queste c.d. Teologie sono in realtà soltanto di secondo grado, costituiscono cioè un’altra realtà teologica, non certamente ex æquo con la Teologia propriamente detta, la quale ha per oggetto la Rivelazione divina, occupandosi principaliter de Deo, principalius de rebus divinis. In questa confusione, poi, emergono non solo “aggettivazioni determinative” (geografiche o storiche) ma anche “ideologiche” (conservatrice, integralista, rivoluzionaria […]) , capaci di mettere in luce aspetti e tendenze probabilmente già presenti da secoli anche nella sana doctrina cattolica; è quella che l’autore chiama, appunto, “teologizzazione”.
In quest’ottica ciò che s’intende per “de-teologizzazione” non è tanto una inutile, quanto assurda, eliminazione dal Diritto canonico della componente teologica (la Teologia ‘nel’ Diritto), quanto piuttosto l’eliminazione della ‘teologizzazione’ del Diritto canonico; proprio perché c’è Teologia ‘nel’ Diritto canonico, questa dev’essere colta e rispettata nella sua peculiarità e pregnanza, senza tuttavia sostituirsi al Diritto canonico stesso.
Il problema non è quindi la Teologia —contenuta— ‘nel’ Diritto, ma la “teologizzazione” —del contenuto— ‘del’ Diritto! I ‘termini’ giocano qui un ruolo fondamentale al punto che, probabilmente, conviene —per chiarezza interpretativa— sostituire l’azione del teologizzare (“teologizzazione”) con ciò che è stato ‘teologizzato’ (“teologismo”, come lo chiama T. Jiménez Urresti); in tal modo quanto proposto si configura come eliminazione dei teologismi di cui il Diritto canonico è (stato) vittima.

Partendo da questa lucida consapevolezza, nel Cap. VIII dell’Opera del 1993 (“Naturaleza del silogismo normativo: mediación de la historia y positivación en el juicio deóntico”), sotto il titolo “Epistemología de las Ciencias Deónticas” l’autore illustra il “teologismo” come la peggior piaga della Canonistica (sua) contemporanea; d’altra parte, se contro il “giuridismo” era già stata tale la critica nel periodo —pre e post— conciliare che non valeva la pena di soffermarsi ulteriormente, sulla “teologizzazione” non si era ancora giunti a quel minimo di coscienza, né pastorale né scientifica, che permettesse di smascherarne le insidie che, anzi, venivano continuamente accresciute dagli apprezzati interventi degli autori della Scuola di Monaco.
La profonda preparazione e competenza (ed aggiornamento) dell’autore in campo teologico gli permettono di affrontare il tema della “teologizzazione” del Diritto canonico facendo tesoro della pregnante critica epistemologica già mossa da Clodovis Boff (fratello di Leonard) alla c.d. Teologia della Liberazione (omologa per vari aspetti alla Teologia del Diritto). Citando espressamente C. Boff, T. Jiménez Urresti così argomenta :
“il teologismo consiste nel considerare l’interpretazione teologica come l’unica versione veritiera o adeguata del reale. Questo spirito porta il teologo ad opporre artificialmente la lettura teologica ad altre letture, come se l’unica lettura legittima fosse la sua. Egli critica il ‘materialismo’ o la ‘parzialità’ delle altre letture, come se quella teologica fosse la lettura totale ed esaustiva della realtà […] Si dà teologismo laddove una Teologia ha la pretesa di incontrare dentro le proprie mura tutto ciò che è necessario per esprimere adeguatamente il Politico [ed il Canonico], nello stesso istante in cui essa ignora i presupposti silenziosi, dal punto di vista delle Scienze Sociali, implicati nella sua trattazione” .
“Il teologismo prende la Teologia come fosse un discorso universale ad anche totalitario, e soprattutto la ‘mescolanza semantica’ ed il ‘bilinguismo’ non permettono di pensare, in termini appropriati, la collocazione e la funzione specifiche delle Scienze del Sociale con relazione alla Teologia e viceversa” .
“Secondo il teologismo la Storia e la Società non permettono di essere accostate correttamente se non dalla Teologia. In tal modo, la dualità Salvezza-liberazione, legittima in quanto dualità linguistica e analitica, nel teologismo si cambia in vero dualismo ermeneutico, nel quale si confrontano due interpretazioni in modo antagonistico. E poiché urge articolarle, il teologismo le compone in modo fittizio e contraddittorio, visto che le ha rese anticipatamente opposte, secondo una concezione religiosa viziata nelle proprie basi” .
“Procedere come se la Teologia dovesse dare ordini alle altre discipline è non solo un anacronismo, per di più inutile, ma anche l’espressione di quell’eccesso che tenta di saper tutto e che nella Teologia assume la figura del ‘teologismo’. In ambito d’incontro con le Scienze, il ‘teologismo’ si caratterizza per questa volontà panlogista di spiegare tutto e totalmente col ricorso esclusivo alle forze spirituali o ai fattori soprannaturali. In tal modo non sospetta la necessità di introdurre, tra i fenomeni in questione ed il significato teologico, le innumerevoli mediazioni disvelate dalle Scienze” .
Quanto queste considerazioni epistemologiche, sviluppatesi all’interno di un ambito prettamente teologico, siano perfettamente calzanti con la linea dottrinale di T. Jiménez Urresti in riferimento soprattutto alle dottrine propugnate dalla Scuola di Monaco, che rinverdiva le posizioni maggiormente tradizionaliste della Teologia cattolica preconcilare, non necessita dimostrazioni .

5. La dottrina
Fulcro della riflessione che Jiménez Urresti propone nel suo “De la Teología a la Canonística” è la distinzione/contrapposizione dei metodi-propri della Teologia e della Canonistica: speculativo il primo, deontico il secondo; il resto pare semplice cornice e complemento ad un’idea fissa che per oltre trent’anni ha occupato le attenzioni e le riflessioni non solo del canonista ma, forse più ancora, del teologo che ha cercato proprio nella diversa natura delle due Scienze i loro punti di convergenza e quelli di legittima e necessaria separazione; il tutto saldamente basato ed argomentato a partire dalla dottrina di S. Tommaso (citato almeno 121 volte), con una scelta che, se per i ‘moderni’ appesantisce certamente l’argomentare, lo rende tuttavia inoppugnabile sotto il profilo logico-formale e teologico-tradizionale, restituendo risultati davvero conclusivi e non ‘consociativistici’ come quelli propagandati da E. Corecco & C che scartano senza appello non solo le conclusioni ma, molto più, le premesse e le logiche della Scolastica, accusate di giusnaturalismo e, quindi, —barthianamente— estranee ad un vero approccio ‘di fede’ .
Il nostro autore, che imposta il proprio argomentare partendo dalle certezze di base della propria formazione filosofico-teologica di stampo marcatamente tomistico (ignorando —forse per scelta consapevole— il linguaggio proprio delle Scienze moderne e della stessa Epistemologia, ma applicandone le linee portanti), suddivide le Scienze sostanzialmente in tre grandi categorie in ragione dell’oggetto della loro conoscenza, indicandole secondo il vocabolario della Scolastica : “Filosofia” (le cose che sono), “Tecnologia” (le cose che si fanno), “Deontologia” (gli atti di condotta, il “dover essere”) , che egli suddivide nuovamente in due sottocategorie: le Scienze delle cose osservate (Scienze storiche e sociologiche) e le Scienze delle cose da osservarsi (norme che regolano la condotta umana).
Ad ogni tipologia scientifica corrisponde una propria logica, un proprio metodo , un proprio oggetto formale ; così la logica della Filosofia è enunciativa, immediata (ratio cognoscibilium, ratio cognoscendi), quella della Tecnologia è fattiva (ratio factibilium, ratio faciendi), mentre quella della Deontologia è storica per il passato (ratio actorum) e decisionale per il futuro (ratio agibilium, ratio agendi) ; la logica deontica applicata al futuro può essere chiamata anche logica normativa e si articola in tre Scienze differenti: Etica, Morale, Diritto .
All’Etica appartengono i presupposti fondazionali del dover essere-agire umano, alla Morale i presupposti contenutistici dell’agire umano, al Diritto le norme concrete di relazionalità interpersonale; in altri termini: all’Etica interessa l’atto in quanto umano, alla Morale l’atto-umano in quanto buono, al Diritto l’atto-umano-buono in quanto relazionalmente giusto.
Chiave di volta dell’intera argomentazione è la differenza incolmabile tra i presupposti della Teologia e quelli della Canonistica, presupposti che ne condizionano le logiche operative: la Teologia, come la Filosofia, procede in modo deduttivo, per argomentazioni, dal certo al dimostrabile, il ragionamento sull’‘essere’ si attua pertanto per necessità ontologica —attraverso il sillogismo formale-modale—; la Canonistica, invece, procede per contingenza storica fornendo risposte puntuali e circostanziate alle necessità assiologiche e teologiche che una determinata Comunità (di fede) incontra o esprime nella propria quotidianità: jus sequitur vitam —sillogismo deontico—.

“Nel sillogismo formale-modale, il predicato concreto della minore è contenuto nel soggetto universale della maggiore, e questo è il ponte o l’inferenza per collegarlo col predicato della stessa maggiore: la sua conclusione afferma che il soggetto della minore è pure un caso del predicato della maggiore universale. Così, la conclusione si limita ad esplicitare qualcosa di concreto —la minore— che stava contenuto implicitamente nella proposizione maggiore universale. […]
Nel sillogismo deontico, la premessa maggiore è la norma, che è di prescrizione non universale, ma generale, ut in pluribus; e la premessa minore è il concreto del suo compimento secondo le previsioni, poiché ancora non esiste, né si tratta di qualcosa di nozionale, né prefissato o sottomesso a necessità, ma atto libero di condotta prevedibile per il futuro, futuribile. Per questo non ottiene certezza, ma solo congettura di ciò che sarà quale si prevede. Si tratta di giungere a sapere se tale atto previsto, che si pone come premessa minore del sillogismo, sia consonante con la norma prefissata e ne sia compimento. Sempre sono futuribili due possibilità doppiamente ipotetiche, la cui realizzabilità fattiva si constaterà nella prassi: una, quella realizzabile secondo la previsione e in conseguenza si attua o non si attua (rimanendo nel puro futuribile); e l’altra, quella non realizzabile secondo il previsto, per cui o si corregge secondo il dettato della prassi sul momento per una nuova decisione e si attua o si rinuncia ad attuare. Nessuna di queste possibilità è affermabile con certezza; ma la prima è più prevedibile, presumibile, presupposta che si attuerà, nell’ipotesi che la previsione risulti, al momento di attuare, quale si previde” .
“Il raziocinio o sillogismo delle decisioni, e, più in concreto, quello del giudizio deontico o normativo, è imprescindibile per l’adempimento di ogni norma, poiché l’uomo, quale essere intelligente, agisce decidendosi per finalità, non alla cieca, ed essendo libero, non agisce come tale per necessità fisica, metafisica o nozionale: in tutto il suo agire umano, agire tutto cosciente e libero, egli pone in gioco la sua intelligenza, e la sua decisione libera della sua volontà libera. Per questo deve procedere attraverso la logica delle decisioni, che è la logica della finalità o causa finale, che è la logica normativa o deontica. […]
Nel proprio sillogismo, la norma da adempiere, già data, costituisce la premessa maggiore; la premessa minore la costituiscono fattori di altro ambito, della storia, per questo motivo sono necessarie le riflessioni sulla funzione o mediazione della storia in questo sillogismo; che si conclude con il giudizio e la decisione concreti di quale azione porre nel compimento della norma. Per preparare questo giudizio e questa decisione sull’atto concreto da porre, è necessario, se la norma è sociale, farla entrare nell’ambito dell’orizzonte storico o periodo storico in cui la si deve attuare, cosa che si compie attraverso la cosidetta determinazione (termine usato normalmente da S. Tommaso d’Aquino), concretizzazione, specificazione, e più frequentemente storicizzazione, in un ordinamento si dirà ordinamentazione, e in Diritto positivazione della norma originaria” .

6. Il sillogismo deontico
Citando abbondantemente S. Tommaso ed utilizzando categorie argomentative assodate ormai da secoli di frequentazione filosofica e teologica, l’autore continua illustrando le specifiche più proprie del sillogismo normativo o deontico, che costituisce la chiave di tutta la sua dottrina, in continua dialettica con la logica formale tipica della Teologia speculativa dalla quale mette ogni impegno per differenziarlo:
“per attuare rettamente si richiede una duplice conoscenza: quella del generale e quella del concreto previsto. Il difetto di una delle due è sufficiente perché risulti impedita la correttezza dell’attuazione . Non è tuttavia la conoscenza dell’universale o norma generale a ricoprire la funzione principale nell’attuazione, quanto piuttosto la conoscenza del concreto, poiché le attuazioni avvengono nel concreto” .
Quanto illustrato, anche minuziosamente, dei ‘termini’ di questo procedere decisionale concreto risulta particolarmente significativo nel proprio articolarsi:
“la premessa maggiore: la norma originaria.
La premessa maggiore del sillogismo normativo è la norma o legge da compiere, legge deontica, di causalità finale, poiché ogni soggetto deve adempiere con un atto da porre, per cui deve prima prevederlo. E come la prescrizione della norma è astratta, generica e generale, non prescrivendo il concreto dell’atto, ma l’atto da porre, la norma è soltanto passivamente aperta ad essere determinata attraverso la decisione di ogni soggetto (l’autorità sociale che la positivizza; e sempre il soggetto che la concretizza) […].
- L’esperienza degli uomini onesti insegna che il prescritto dalla norma è, obiettivamente, di portata generale, poiché, osservandolo, s’intende solitamente che essa vige nei casi similari o comuni o di maggioranza, ut in pluribus accidit, di ciò che prescrive, ma può solo tipificare ciò che è comune tra i casi, e così è obiettivamente solo di prescrizione comune, senza considerare i casi rari, ut in paucioribus deficit.
- La norma si colloca nell’ambito dell’astratto, che è a-storico, ma la sua astrazione è generica a causa della ragion pratica; non universale a causa della ragione speculativa; non si filosofa degli ‘universali’, ma del generale. E il compimento [si pone] nell’ambito del concreto, storico.
- La norma è generica, per il fatto che, all’interno della sua astrazione, manca concretezza, individuazione, che deve esser data dal soggetto che la osserva.
- Conosciuta la causa negli esseri fisici se ne conoscono gli effetti, poiché procedono per necessità fisica; e se a volte si danno accidenti, effetti chiamati per accidens, sono dovuti alle leggi fisiche dell’essere o alla congiuntura di queste con quelle degli altri esseri appartenenti alla relazione, la cui totalità armonica non si conosce. Negli enti storici, gli effetti, che sono gli atti di condotta sociale, non sono preordinati dalla causa, dalla norma, con alcun atto e modo concreto, ma solo astrattamente e genericamente dai casi generali o tipificati in essa, secondo quanto accade nella maggioranza dei casi, ut in pluribus, come dice S. Tommaso e gli autori medioevali. Per questo possono darsi altri atti e d’altro modo, ut in paucioribus, e compreso ut in hoc casu; che, come si è detto: non è un per accidens, ma un per se, è un ‘per propria natura’, che nelle materie deontiche, è di causalità finale” .
Se ciò che è stato così affermato circa la portata della norma/legge non costituisce in sé nulla di particolarmente illuminante, a parte la chiara opposizione tra ‘universale’ e ‘generale’, che può aprire qualche feconda prospettiva di comprensione di come non si possano identificare —o trattare allo stesso modo— ‘speculativo’ e ‘deontico’, più profonde paiono invece le idee espresse circa le circostanze concrete in cui la norma/legge deve essere applicata.
“La premessa minore: la mediazione della storia:
Il sillogismo normativo è imprescindibile per attuare, benché possa realizzarsi più o meno spontaneamente, senza necessitare una esatta riflessione, quando non si tratti di decisioni importanti. E’ un giudizio per conclusione in una situazione concreta, che “non presenta eccellenza” o “grandezza desiderabile per se stessa, come nelle conoscenze universali e necessarie, ma è desiderabile come utile e necessario per attuare, che si fa solo per atti concreti”. Per realizzarlo ed ottenere la conclusione, la premessa maggiore è già data nella norma originaria; all’agente resta solo da preparare la minore.
Ciò che più importa e lo specifico proprio in questo sillogismo è la premessa minore: che racchiude l’appello alla storia. Si tratta perciò di una premessa complessa, formata dalla previsione della possibilità dell’atto concreto col quale adempiere alla norma, ed osservarla a sua volta secondo la storia prevista. Come ogni atto di condotta esiste solo in concreto e solo nel momento di esser compiuto, non prima, anche se previsto, né dopo, anche se ne rimangono gli effetti. Per questo, propriamente parlando, non può essere vero, né falso, poiché non si tratta, non standoci dentro, della “adæquatio mentis ad rem”, non esistendo la cosa. E’ il contrario: la sua ‘verità’ è quella prevista e decisa ‘adæquatio rei (actus) ad mentem-voluntatem’ del soggetto, e di questa alla volontà del legislatore […].
Questo appello alla storia è imprescindibile, perché la prescrizione astratta della norma, in quanto astratta, extraesistenziale ed extrastorica, per essere osservata deve essere introdotta nella esistenza, e nella norma sociale essere introdotta nella storia, essere storicizzata. Ciò richiede appello ad un altro ordine distinto dall’astratto, distinto da quanto è e contiene la norma, che contiene solo l’imperativo di essere storicizzata, ma senza la propria capacità virtuosa di estrarre da sé medesima la storicità necessaria, la norma si trova solo nella pura potenza di riceverla; può darsela solo il soggetto, che è un ente storico, il soggetto che deve compierla, ma l’atto del compimento lo calcola prima appellando alla storia” .

7. Il presupposto di base
Il presupposto indiscusso da cui parte T. Jiménez Urresti per delineare i concetti implicati nell’agire deontico umano, ed i loro rapporti reciproci, è la storicità intesa nella sua accezione più ampia ed esistenziale e lontana da ogni possibile svista storicistica, in quanto, cioè, necessitante o in qualunque modo deterministica.
“Visto che la prescrizione della norma —in questo caso sociale— è a-storica ed il suo adempimento è storico, è necessario far appello alla storia per poterla adempiere facendola entrare attraverso il suo compimento, che sarà parte della storia. Si tratta, cioè, di evidenziare l’apporto della storia alla stessa storicizzazione della norma a-storica per poterla adempiere. Entrando però in quest’ambito, occorre ricordare tre note o momenti logici a riguardo della storia:
- Per un lato, nella storia (materiale) del mondo, non si danno due atti interamente uguali […]
- Per un altro verso, ogni norma originaria sociale, un quanto norma è indirizzata a molti soggetti, e come norma sociale esige di essere compiuta socialmente da questi molti […]
- Ancora, la storia (materiale) del mondo non è fatta da un solo agente storico umano, né da un popolo, di conseguenza nessuno di essi è soggetto agente di tutta la storia […]” .
“Supposti questi punti, il margine della genericità ed astrazione della prescrizione di ogni norma evidenzia il margine della libertà, fisica e morale, circa l’attuare o il porre l’atto storico di ogni suo compimento. Libertà per ciascun atto che si mantenga dentro all’imperatività generica ed astratta della norma: libertà di configurare la forma storica dell’osservanza della norma” .
“Venendo alla Chiesa ed alle [sue] motivazioni qualitative, va detto che la storia di questa, che è società o ente storico già costituito, contiene le tre dimensioni della storia, con differenze qualitative rispetto ad ogni altro ente storico, che corrispondono a distinte motivazioni e configurano storicamente la Chiesa, dandole forma storica, per confluenza e concausa delle tre dimensioni già dette:
- Prima: la sua storia, quale risultato del suo stesso attuare storico, attenendosi, in costante referenza o appello, alle sue origini divine, alla propria norma originaria o fondamentale, realizza la propria storia: in essa, che discende da quando nacque, si situa e da essa trae ogni proprio atto storico: per la sua fedeltà alla propria legge originaria, ogni suo atto storico va costruendo la storia ecclesiale, l’unica vigente ‘Storia della Salvezza’; e la Chiesa va configurandosi in modo valoriale-storico nella sua propria identità essenziale in ciascuna sua storia parziale in ogni orizzonte storico in cui si incarna. In tal modo le sue origini storiche e tutta la sua storia le risultano medium a quo per la sua dinamica e costante configurazione storica.
- Seconda: la storia propria della Chiesa, unico ente storico della salvezza, entra nella storia dell’umanità, come entrò il Verbo incarnato. Così, ogni suo atto entra, si caratterizza e si situa nella storia totale umana, in concreto nella storia del momento e luogo storici del mondo. E questa storia concreta del mondo nella quale si situa è la situazione e circostanza storica, condizionante favorevolmente o sfavorevolmente, della storia e di ogni suo atto. In tal modo, questa storia del mondo è il medium in quo si situa.
- Terza: la storia dell’ente storico non solo si situa nella detta storia totale umana in cui si attua, ma è anche parte della stessa, nel suo tempo e luogo (età-ambito storico). Per questo, ogni ente storico ha necessità di attenersi a questa storia del mondo, cioè, alle leggi naturali della storicità e alle leggi storiche di ciascuna epoca. Così la storia di ciascun tempo e luogo, di ciascuna cultura, è anche medium quo della sua configurazione storica, come fece il Verbo Incarnato, come riconosce il Vaticano II.
Questa distinzione, tra la storia quale medium in quo ciascun ente storico colloca la propria storia, e la storia quale medium quo per mezzo di cui è configurata la sua propria storia, è fondamentale per lo studio di ogni Scienza sociale deontica: la cosiddetta Filosofia (Teologia) ‘tradizionale’ ha considerato e continua considerando ampiamente il fattore storico quale ‘medium in quo’, cioè circostanza, omettendola come medium quo, configurante l’atto. Questa è la ragione per cui le si rimprovera il difetto di soffrire di idealismo o teologismo” .

Un’impostazione di questo tipo porta ad evidenziare un presupposto di solito non colto da coloro che accusano l’autore di semplice sociologismo o rinnovato giusnaturalismo: proprio la de-teologizzazione del Diritto, infatti, impedisce di ritenere sufficientemente fondante il solo fatto dell’esistenza del Diritto stesso nella compagine ecclesiale fin dalle sue prime origini.
Con un netto ‘contropiede’ l’autore afferma infatti che:
“la giustificazione radicale del fenomeno canonico può essere soltanto teologica, più esattamente ecclesiologica. Ogni altra ragione, pur godendo di convenienza o utilità, è insufficiente per non fornire una ragione teologica. [Questa] dev’essere ragione positiva richiesta dalla natura-consistenza della Chiesa. Non una ragione propria dall’interno della Chiesa, che ne è dimensione intrinseca; ma nella dimensione della sua storicità, che si realizza nell’esteriore socio-storico della Chiesa e che è un’altra dimensione intrinseca della sua consistenza” .
In altri termini: non il Diritto —come riteneva invece K. Mörsdorf— ma la storicità appartiene alla dimensione teandrica costitutiva della Chiesa; il Diritto è semplicemente un’espressione di tale storicità. Il presupposto monacense, invece, caratterizzando Parola e Sacramento come già intrinsecamente giuridici , presupponeva una pre-esistenza di fatto del Diritto alla Chiesa stessa, facendone un datum intorno a cui ‘coagulare’ la Comunità credente (ordinatio fidei).
Per T. Jiménez Urresti, al contrario, il Diritto consegue dalla essenziale storicità della Chiesa, divenendo a tutti gli effetti creatura della Chiesa anziché suo creatore . Per la Chiesa la storicità non è un accidens (medium in quo) ma un elemento costitutivo (medium a quo), come la pienezza della natura umana per il Cristo, vero Dio e vero uomo.
Sotto questo profilo le dottrine canonistiche ‘teologizzanti’ si rivelano invece sostanzialmente monofisite in campo ecclesiologico: la storicità non apparterrebbe alla natura (essenza) più profonda della Chiesa ma ne sarebbe un semplice rivestimento, un involucro contingente come la natura umana del Cristo per i neofisiti delle dispute cristologiche antiche. Per contro, sotto il profilo teologico-dogmatico pare legittimo sospettare nell’ecclesiologia di Mörsdorf e discepoli una traccia di dualismo: lo stesso che aveva indotto il (da loro) mai abbastanza deprecato R. Sohm a contrapporre le due —presunte— ‘nature’ della Chiesa: quella istituzionale e quella carismatica ; la “via Incarnationis” già proposta dallo Stickler sarebbe stata invece una buona istanza teologica con la quale confrontarsi .

8. Il ‘fondamento’
In ambito ecclesiologico il modello di riferimento di T. Jiménez Urresti non è una Chiesa dedotta da qualche immagine più o meno parziale , per quanto fondata nella dottrina teologico-canonistica, l’autore utilizza invece un’idea ‘sintetica’ di Chiesa assolutamente neotestamentaria e conciliare: quella a cui Cristo ha affidato la sua stessa missione universale di salvezza per l’umanità di ogni tempo ed ogni luogo, e proprio partendo da questo elemento costitutivo ne assume e delinea le caratteristiche basilari.
“Ogni società ha la propria giustificazione, natura, funzioni, ragion d’essere, e principio normativo o norma originaria o fondamentale, nella propria finalità, secondo il primo principio della logica normativa: “il principio è il fine”. Ed il fine della società della Chiesa, quale fondata da Cristo, è la missione che Cristo le affidò: missione universale storica salvifica” .

Sotto questo profilo è interessante la proposta dell’autore per leggere con occhi nuovi lo stesso sorgere e svilupparsi del ‘fenomeno’ canonico nella Chiesa: esso infatti
“sorge nella e per la attuazione o compimento della missione divina, precisamente come esigenza della natura storica di questa missione divina storico-salvifica e universale ad extra e ad intra: Cristo, nell’affidarla responsabilizzò la sua Chiesa non solo ad attuare o esercitare storicamente questa missione di efficacia salvifica, ma anche e specificamente ad attuarla o esercitarla prendendosi cura della sua efficacia storica, rivestendone l’attuazione di efficacia storica” .
“Il suo storicizzarsi e storicizzare non è solo per mera necessità-legge naturale di contattare i destinatari, ma perché Dio ha assunto questa necessità-legge per il proprio disegno divino di salvarci attraverso la via storica della missione. Tra questo principio e l’attuazione storica della missione sta la missione. Se alla Chiesa non fosse stata affidata tale missione, non avrebbe motivo per esigere una ragione teologica specifica per giustificare il fenomeno canonico: poiché il fine della storicizzazione di questa missione è incarnare l’efficacia salvifica della missione nell’attuazione storica di questa stessa missione: questa storia è il veicolo storico della salvezza. E il fine del fenomeno canonico è ottenere che si compia storicamente bene la sua missione” .
In questo modo la storicità della missione qualifica la socialità ecclesiale, essendo la socialità il mezzo attraverso cui una persona un gruppo o un popolo può fare storia ed incidere nella storia, visto che è l’azione sociale ad incidere nella vita dei più.
La Chiesa dunque, proprio in ragione della missione storico-salvifica ricevuta da Cristo, è mandataria e responsabile di questo compimento;
“con parole della logica deontica, si dice che la Chiesa ha il titolo (facoltà) ed il dovere (responsabilità) di compiere non solo ciò che è stato espressamente —esplicitamente o implicitamente— comandato, ma anche di compiere quanto implichi di storicamente necessario l’adempiere, così come adempiere bene la missione o mandato originario” .
Il Diritto canonico pertanto, a causa della sua attitudine strumentale a programmare, ordinare, organizzare e coordinare nell’unità le attuazioni di tutti e di tutta la Chiesa, trova la propria giustificazione teologica “nel” compiere e “per” compiere la missione costitutiva della Chiesa stessa .

9. Il Diritto canonico: essenza
Secondo T. Jiménez Urresti il Diritto canonico procede, come tutto il fenomeno giuridico, dalle logiche e necessità sociali cui la Comunità di fede, in quanto pienamente appartenente alla storia, e con una missione storica da adempiere, non sfugge . Tra le altre Scienze deontiche il Diritto si caratterizza, così, per la centralità attribuita al “rapporto di giustizia” tra gli uomini quale concretizzazione della reciprocità relazionale tra i diversi soggetti interagenti all’interno della convivenza umana, anche ‘religiosa’ . L’affermarsi del “rapporto di giustizia” quale fulcro del concetto di Diritto introduce a sua volta alcune note peculiari della giuridicità (ignorate nelle prospettive più ‘teologiche’): l’oggettività esteriore, la separabilità, la coercibilità, assenti tanto nell’Etica che nella Morale; in questo il Diritto (in quanto tale e prima di ogni interna o esterna differenziazione o classificazione) appare una realtà creaturale —con una dignità propria—, ben prima di qualunque sua fondamentazione teoretica: ciò che scientificamente si definisce ‘fenomeno’. Un tal ‘fenomeno’, per quanto interagente con una logica di Grazia che lo coinvolge nel vissuto quotidiano di fede di milioni di cristiani, non perde tuttavia le proprie caratteristiche ontologiche, e neppure la propria collocazione all’interno delle classificazioni che gli studiosi sono soliti fare per comodità operativa: il fenomeno-Diritto (anche religioso o canonico) appartiene senza dubbi al dominio delle c.d. Scienze umane, meglio ancora, alle Scienze sociali, così come la Scienza che lo studia . In questo l’autore non fa altro che porsi senza esitazioni all’interno della consapevolezza (filosofico-teologica) plurisecolare secondo cui non solo “gratiam non destruit sed perfecit naturam” —o anche “gratia supponit naturam”— consapevolezza di fatto esplicitamente rifiutata da E. Corecco, A. Rouco Varela, et alii, quando, ripudiando F. Suarez e lo stesso T. d’Aquino, accusano la Canonistica classica —e le dottrine poste a suo fondamento— di (ateo) giusnaturalismo .
Nessun dubbio nell’autore che la realtà-Chiesa pre-esista al proprio Diritto e che questo nasca e si plasmi esattamente a partire dalla vita stessa della Chiesa (medium a quo) —assumendo in tal modo caratteristiche del tutto differenti rispetto alle premesse di qualunque altro ordinamento giuridico— e, al contempo, contribuisca a strutturarla (medium quo), divenendone parte integrante e caratterizzante.

Nello sviluppo di queste tematiche, più filosofico-teologiche che canonistiche, T. Jiménez Urresti pone una profonda attenzione alla proprietà del linguaggio, soprattutto teologico, rivendicando un corretto approccio alla categoria sacramentale da molti invocata come essenziale per illustrare (e fondare) il rapporto Diritto (canonico)-realtà ecclesiale. L’autore accetta il ricorso a tale categoria ma la volontà di evitare insidiosi scivolamenti contenutistici (‘bilinguismo’) lo porta a distinguere tra un approccio ermeneutico ed uno ontologico: ben diverso è, infatti, ragionare in prospettiva di struttura piuttosto che di funzione sacramentale.
Per struttura sacramentale infatti deve intendersi, secondo la Teologia classica sancita dal Concilio di Trento, la concomitanza di un elemento materiale, creaturale: il “signum”, con uno divino: l’azione dello Spirito santo che, senza annullare l’altro, lo ‘assume’ rendendolo efficace strumento di trasmissione della Grazia salvifica.
E’ in questa linea che si esprime Lumen Gentium 8 quando evidenzia nella Chiesa la presenza delle stesse due ‘componenti’ —umana e divina— della persona del Verbo Incarnato (chiave ermeneutica), secondo una “non debole analogia” che non permette, tuttavia, di trasferire tout court ad ogni elemento, per quanto strutturale, della vita della Chiesa la sua stessa efficacia salvifica (chiave ontologica). A tal proposito va sottolineata la cura con cui il testo conciliare indica un legame ‘forte’ tra la struttura ecclesiale e l’Incarnazione (in quanto creaturale-divina), volendo tuttavia evitare —espressamente— che la Chiesa stessa diventi ‘sacramentum’ nel senso riconosciuto ai “sette Sacramenti”. La Chiesa non è —comunque—- l’ottavo Sacramento e, tanto meno, lo possono essere i suoi ‘strumenti’ di gestione della communio.
Risponde pertanto alla retta interpretazione del dettato conciliare la necessità di smascherare il teologismo celato nelle dottrine che vorrebbero, invece, veder riconoscere valore/natura/funzione sacramentale allo stesso Diritto canonico (e a molte altre ‘espressioni’ della vita ecclesiale) soprattutto in ragione del c.d. Diritto divino positivo che, deduttivisticamente, costituirebbe il primo nucleo del Diritto canonico stesso. La natura teandrica (divino-umana) della Chiesa non permette di ‘assorbire’ l’elemento creaturale (la socialità umana) in quello divino, dissolvendone le caratteristiche ontologiche: come Cristo è stato vero uomo, così la Chiesa è vera società umana ed il suo è vero Diritto; ciò non toglie che la natura divina, anche della Chiesa, conferisca ad essa, alla sua istituzionalità ed al suo Diritto, caratteristiche del tutto peculiari che ne fanno —qualitativamente— un quid pluris (o anche quid alteris) rispetto ad ogni altro possibile ordinamento giuridico semplicemente umano . Né potrà risultare sufficiente ad ignorare la vera portata della dimensione sacramentale il ricorso ad una generica analogia fidei come quella spesso evocata da E. Corecco e discepoli.

10. Il Diritto canonico: logica operativa
L’apporto maggiore di T. Jiménez Urresti all’individuazione e ‘definizione’ del Diritto canonico non si ferma tuttavia a questi elementi ancora troppo genericamente teoretici e non sufficientemente tecnico-canonistici. Proprio perché il Diritto canonico ‘si’ trova nella Chiesa (medium a quo, in quo, quo) ed insieme con essa diviene (attraverso la storicità quotidiana) è in questa stessa Chiesa che occorre, ed è pienamente possibile, individuarne l’origine.
T. Jiménez Urresti chiama “principio de autoría” quello che solitamente viene indicato in dottrina come principio fondazionale o principio costitutivo; questa categoria eminentemente giuridica gli permette d’individuare con precisione l’origine evangelica del Diritto canonico pur accostando con molta cautela e parsimonia il c.d. Diritto divino —soprattutto— positivo svestendolo dell’immodica importanza attribuitagli, ben al di là della tradizione canonica, dalle dottrine più teologizzanti.
In una prospettiva di serena societarietà ecclesiale, accogliendo il principio di istituzionalizzazione già proposto a suo tempo da M. Weber ed accolto nell’ecclesiologia dal ‘collega’ salamaticense J.A. Estrada Diaz , l’autore riesce perfettamente ad evitare il ricorso semplicistico al Diritto divino positivo quale nucleo giuridico originario della normatività canonica. Non occorre infatti che il Cristo sia Legislatore perché la sua Chiesa sappia verso quale meta indirizzarsi e seguendo quali rotte: è del tutto sufficiente la sua volontà costitutiva, il “principio de autoría”.
“Tra la intenzione del legislatore e la intenzione della sua legge, solo la prima è universale nel proprio contenuto, non la sua legge, che è solamente “ut in pluribus”. Da qui deriva che, poiché ‘il principio è il fine’, occorre formulare una scala di subordinazione dei fini: il punto più alto è occupato dall’intenzione del legislatore originario , lo segue la sua legge, di seguito l’intenzione del legislatore secondo o positivizzatore di questa legge originaria e dopo questa la sua legge, e così di seguito col terzo, ecc. […]
Il principio che l’intenzione del legislatore non è tutta quella esprimibile adeguatamente nella sua legge vale di ogni legislatore: tanto umano come divino. Ciò comporta l’affermare che l’intenzione del legislatore —non potendo essere tutta espressa nella sua legge—, implica sempre, in ordine al compimento di questa sua legge, che chieda più di ciò che contiene ed esprime letteralmente la legge stessa.
Inoltre, il legislatore non ha motivo di esprimere nella propria legge, precetto, facoltà o mandato, tutto ciò che sarà esprimibile, come le cose ovvie, che non lo richiedono. Perciò si afferma sempre che “il principio è il fine” implica che, dando il legislatore una legge, con essa prescriva un fine, e prescriva anche, senza necessità di menzionarlo, che “per raggiungerlo è necessario porre i mezzi necessari”. E’ ovvio.
Questo principio può affermarsi come segue:
- “Chi impone un fine impone anche di porre tutti i mezzi o le attuazioni necessari per il conseguimento di questo fine comandato”.
- “Chi dà un precetto dà anche il precetto di compiere tutti gli atti necessari per attuare il primo precetto”.
- “L’autore responsabile di una legge è anche autore responsabile di quanto sia necessario operare nel compimento di tale legge”” .

L’autore vede così l’Ordinamento canonico come rispondente alle finalità e logiche strutturali della giuridicità umana che deve rendere concretamente e socialmente osservabile la norma originaria (‘naturale’, o ‘positivo-rivelata’ com’è per la Chiesa ) attraverso la ‘positivazione’ dei suoi contenuti sostanziali; ciò avviene —tecnicamente— secondo quattro ‘livelli’ di ‘ordinamentazione’:
“1) il ‘livello di ordinamento di tensione verso la giustizia’,
2) il livello della supplenza di conoscenza e di concretizzazione del giusto per il certo o ‘livello di ordinamento di certezza’,
3) il livello della tutela della sicurezza sociale per mezzo dell’ordinamento di sicurezza ordinamentale (giuridica, in Diritto) o ‘livello di ordinamento di sicurezza’,
4) quello della necessità di mezzi strumentali o ‘livello di ordinamento di necessità’” .
Il giusto, il certo, il sicuro, il necessario diventano in tal modo i criteri secondo cui si articola ogni sistema normativo giuridico; anche quello canonico, concretizzando ed organizzando (ordinamentazione) un particolare e specifico (ed ‘esclusivo’ ) modo di rendere concretamente e storicamente attuabile la ‘norma originaria’ da cui tutte le altre dipendono, anche se nessuna di queste è —né sarà mai— in grado di realizzare perfettamente e completamente tutti i contenuti possibili di tale ‘imperativo’, indipendentemente dalla sua natura intrinseca. Non solo, ma:
“risulta che per ordinamentazione si entra già in un mondo normativo artificializzato. I membri della società hanno perso libertà, ma si è guadagnato il rendere socialmente certo il generico. […] Alcuni avrebbero preferito un’altra legge positiva […]
Però, anche se altre positivazioni avrebbero potuto essere più ragionevoli e maggiormente adeguate alla situazione, gusti e necessità sociali concrete, il più ed il meno non ha importanza, poiché la legge positiva non è giusta per il fatto di essere la più ragionevole, ma per essere ragionevole. E l’obbedienza alle leggi positive deriva non dal fatto che siano le più perfette, ma dal fatto che, essendo positivazione ragionevole della norma originaria, siano comandate dall’autorità sociale: la legge positiva si dirige come proprio termine non all’intelligenza, pur supponendola e perciò dovendo essere ragionevole, ma alla volontà dei soggetti, per ottenerne il comportamento sociale comandato” .

Di qui la necessità di distinguere tra norma e norma: la norma fondamentale e le norme giuridiche (positive), da cui l’affermazione circa la ‘genericità’ delle norme teologiche e la ‘relatività’ di quelle giuridiche.

11. Genericità e relatività delle norme
Un’idea sintetica —più teologica che giuridica— presente nel pensiero di T. Jiménez Urresti sin dai primi scritti, e sempre ricorrente, riguarda la “genericità della norma teologica” (il c.d. Jus divinum positivum) in tensione con la “relatività della norma canonica” (il c.d. Jus mere ecclesiasticum); all’interno di questa benefica tensione strutturale si giocherebbero tutte le dinamiche proprie del fenomeno canonico, ricco di contenuto teologico inderogabile ma anche profondamente sensibile al vissuto (e vivibile) delle concrete Comunità di fede, nel tempo e nello spazio.
A questo binomio concettuale di valore paradigmatico occorre riferirsi per poter cogliere significativamente il frutto più maturo della riflessione dell’autore senza tuttavia appesantirsi seguendone il tortuoso —e datato— itinerario argomentativo; di fatto fu proprio attorno a questo paradigma che probabilmente si coagularono le idee condivise con P. Huizing, N. Edelbey e gli altri del gruppo redazionale di Concilium, al di là delle evidenti diverse sensibilità dottrinali, che emergendo portarono alla dissoluzione dell’iniziativa.

Senza sviluppare una vera teoria della positivazione del Diritto divino positivo, già abbondantemente operata a Pamplona , T. Jiménez Urresti accolse il Diritto, così come conosciuto e vissuto dagli uomini , riconoscendone tutte la caratteristiche più ‘proprie’ e modulandolo attraverso il costante apporto della storia della Chiesa (‘medium a quo’ e ‘medium quo’ del suo formarsi e divenire) ponendo al contempo grande attenzione a smascherare il presupposto sacrale sotteso alle dottrine giuridico-moralistiche pre-conciliari.
L’autore di fatto palesa quanto tutti già ‘sanno’ (o dovrebbero sapere), ma nessuno esplicita: che, cioè, il c.d. Diritto divino è Diritto solo in senso analogico, che significa: non è Diritto(!), ma solo una categoria concettuale indotta. D’altra parte l’analogatum princeps è sempre ciò che l’uomo già conosce meglio, il Diritto in questo caso; proprio come ha ben illustrato J. Maritain a proposito di un tema molto simile, la c.d. legge naturale:
“poiché la nostra idea più immediata di legge è quella della legge positiva (legge scritta), si è estesa la nozione di legge positiva alla natura; allo stesso modo si è estesa la nozione di Diritto positivo alle altre sfere del Diritto” .
Diventa necessario a questo punto precisare come è solo a partire dall’idea che ci facciamo della realtà concreta, fenomenica, che (a volte) si possono ‘indurre’ altre idee, senza però pensare che la via eminentiæ sia sempre applicabile tout court al di fuori dell’ambito metafisico; né basta la ‘geniale’ sostituzione dell’analogia entis con l’analogia fidei a risolvere il problema: ciò che in ambito scientifico si afferma ‘per analogia’ ha infatti una funzione semplicemente esplicativa oppure euristica e non propriamente conoscitiva, come invece accade in Metafisica.
Lungi dall’evitare la difficoltà del tema, T. Jiménez Urresti lo affronta con poche pagine di notevole lucidità e competenza teologica, prima ancora che giuridica, offrendo agli ignari lettori una presentazione teologica del concetto di ‘Jus divinum’ come utilizzato nei pronunciamenti dei Concili ecumenici; ne emerge un’articolazione —con tanto di citazioni dai diversi Concili— in ben otto differenti livelli di pregnanza teologica e, quindi, normativa, che giuridicamente neppure potrebbe essere immaginata.
- Primo grado: quello che viene fatto per atto di istituzione immediata e diretta di Cristo stesso ;
- secondo grado: quello del positivizzato dalla Chiesa a partire da una istituzione divina originaria attraverso un passaggio logico normativo immediato ;
- terzo grado: più distante dall’originario, essendo passato per più di un sillogismo, si tratta già della norma che è “secundum institutionem Christi” ;
- quarto grado: importanti decisioni o istituzioni della Chiesa, guidata dallo Spirito santo, si sono dette “ex ordinatione divina” ;
- quinto grado: l’affermazione che qualcosa non prescritto da norma divina immediata, ma in relazione con essa e stabilito dalla Chiesa, non è alieno a ciò che Cristo ha istituito ;
- sesto grado: l’affermazione che la Chiesa nell’aver istituito o nell’istituire qualcosa, non errò, né erra ;
- settimo grado: l’affermazione che qualcosa di stabilito dalla Chiesa non è “contrario all’istituzione di Cristo” ;
- ottavo grado: l’estremo che qualcosa che appartiene alla Chiesa non è “superstitio tyrannica”, o “ab ethnicorum superstitione profecta” .

Evidentemente se questo è, sotto il profilo teologico-dogmatico, il Diritto divino positivo non esistono motivi per farne un elemento puntuale quanto assoluto nella sua prescrittività concreta: si tratta —semplicemente— dei pre-supposti istituzionali cui la Chiesa deve ispirarsi e mantenersi fedele per poter consapevolmente continuare l’opera intrapresa ed affidatale dal Maestro, secondo le logiche e le dinamiche di un normale processo di istituzionalizzazione del carisma . Ne consegue che davvero la maggioranza assoluta delle norme canoniche che la Chiesa ha creduto opportuno o necessario adottare, tanto in materia sacramentaria che gerarchica, altro non è stata che una delle molteplici determinazioni concretamente possibili (relatività) come, d’altra parte, la stessa storia del dogma ha mostrato con chiarezza a riguardo delle ‘formule’ adottate per esprimere correttamente la fides catholica.
Giova qui ricordare come T. Jiménez Urresti, a differenza di altri grandi canonisti che hanno insistito su questi stessi temi con sensibilità e categorie prettamente giuridiche , fosse anche teologo, conoscitore quindi e capace di esaminare tutto lo spettro teoretico soggiacente all’istituzionalità ecclesiale come proposta ed articolata nella Rivelazione e nella Teologia.

12. La Canonistica
Partendo da una visione profondamente unitaria del fenomeno giuridico —in quanto tipicamente umano— e rifiutando che le sue diverse espressioni (civile e canonica) siano legate soltanto da rapporti di analogia , T. Jiménez Urresti sottolinea con chiarezza gli elementi caratteristici di tale fenomeno e del modo corretto di approcciarlo:
“i professionisti, gli studiosi e gli operatori del Diritto […] sanno che la [sua] giustificazione non corrisponde alla Scienza giuridica in quanto tale, che essi coltivano ed esercitano in quanto giuristi; sanno che questa giustificazione appartiene al livello sapienziale, cioè alla Filosofia del Diritto. Tutto il sapere giuridico, in una visione integrale, suppone tre livelli, come individuano con certezza gli autori fin dall’antichità: i primi due sono livelli del giurista in quanto giurista:
- Primo, quello della Scienza del Diritto o giuridica, in senso stretto, che tratta dell’elaborazione ed applicazione del Diritto attraverso la conoscenza razionale immediata della norma e degli istituti giuridici e della loro applicabilità.
- Secondo: il livello della Teoria del Diritto, o trattazione organica o sistematica di tutti i dati scientifici del Diritto.
- Terzo: il livello sapienziale, in cui ogni giurista, non già in quanto tale, ma in quanto uomo, cerca il sapienziale, cioè, la ragionevolezza di fondo del Diritto, la giustificazione e ragione radicali dell’origine, del fine e della obbligatorietà del Diritto, da cui poter criticare e approvare o condannare il prescritto e l’attuazione del Diritto. E’ il livello della Filosofia del Diritto, nel cui retroscena si incontra una Filosofia dell’esistenza umana e la visione del senso di tutta la storia e di tutto il cosmo” .

Da queste premesse in ordine al Diritto (quo tale) ed alla giuridicità, la prospettiva dottrinale dell’autore indirizza decisamente verso una visione della Canonistica —la Scienza che studia il Diritto canonico— come “Scienza giuridica, con metodo giuridico, oggetto giuridico, linguaggio giuridico” , secondo gli ‘elementi’ che classicamente individuano ogni Scienza a livello epistemologico.
Tuttavia, le considerazioni proposte da T. Jiménez Urresti inducono ad integrare questo schema con l’aggiunta di un’ulteriore specifica, normalmente superflua nelle Scienze ‘naturali’ ma potenzialmente utile per alcune Scienze umane: il ‘contenuto’.
Mentre infatti nelle Scienze naturali contenuto ed oggetto formale tendono solitamente a sovrapporsi, identificandosi, alcune Scienze umane —sociali in specifico— possono trarre vantaggio dalla distinzione tra oggetto formale e contenuto: la Scienza giuridica è una di queste poiché, mentre l’oggetto formale è comunque costituito dal c.d. Ordinamento giuridico (insieme delle norme e leggi positive e loro relazioni), il contenuto valoriale/assiologico di queste stesse norme varia a seconda dell’ambito relazionale concretamente normato: altra cosa, infatti, è il contenuto del Diritto internazionale rispetto a quello statuale, altra quello del Diritto diplomatico rispetto a quello militare.
In questa linea T. Jiménez Urresti, individuando chiaramente nel(le norme del) Diritto canonico (oggetto formale di studio della Canonistica) elementi pre-giuridici e meta-giuridici, indica il contenuto della Canonistica come teologico (ecclesiologico e pastorale), superando in tal modo le strettezze teoretiche e metodologiche delle Scuole di Navarra e di Monaco ed offrendo una prospettiva scientifica plausibile, capace di non perdere né le peculiarità profondamente giuridiche né quelle tipicamente teologiche che informano il Diritto canonico fin dalle sue origini e lo hanno accompagnato lungo i secoli a (dover) essere un vero strumento a servizio della missione della Chiesa.
La Canonistica risulta pertanto una Scienza giuridica a tutti gli effetti, autonoma, ma non indipendente rispetto alle Scienze propriamente teologiche che le ‘trasmettono’ i propri dati da interpretare ed elaborare per conseguire lo scopo che le è proprio: il bene comune sociale della Chiesa .
Lungi da ogni teologismo e pretesa, questa “disciplina sacra” (al pari di tante altre non direttamente riconducibili alla Teologia stricte dicta) va collocata in posizione strumentale (per quanto non ‘accessoria’, rispetto alla Teologia ) tra il “pre-canonico” ed il “meta-canonico”:
“il canonista comprende che il suo studio del Diritto canonico è Scienza propria, i cui dati giunge a sistematizzare in teoria in ogni epoca storica del medesimo; e al contempo è cosciente che, in quanto canonista, non è competente per dare la ragione radicale del fenomeno canonico, ma la riserva al teologo, o la realizza lui stesso ma teologizzando, agendo da teologo, formulando i dati rivelati, pre-canonici, così come i dati di finalità ulteriore ai quali serve e presta la propria funzione il Diritto canonico, i dati meta-canonici” .

13. La questione epistemologica
Dopo aver trattato più sopra della personale opzione epistemologica di T. Jiménez Urresti, è necessario in questa sede affrontare anche la vera questione che si presenta regolarmente a chi confronti il suo apporto dottrinale con quello dei discepoli di K. Mörsdorf: A.M. Rouco Varela ed E. Corecco in particolare.
La Scuola di Monaco dalla sua seconda generazione è ricorsa spesso all’uso della semantica epistemologica pretendendo addirittura di farne una chiave della propria proposta dottrinale, indicando come centrale e decisiva la necessità di “fondare epistemologicamente” il Diritto canonico.
“Il problema dell’esistenza del “ius canonicum” è —per E. Corecco— un problema essenzialmente teologico: appartiene al contenuto centrale della Teologia, perché appartiene al contenuto essenziale della fede. Non può essere risolto al di fuori di questa. […] Il Diritto è una realtà teologico-soprannaturale, ma come tale è anche una realtà che deve incarnarsi nella storia, assumendo forme giuridiche anche umane” .
“Il merito di detta impostazione sotto il profilo metodologico consiste indubbiamente nel fatto che la prova dell’esistenza del Diritto ecclesiale viene offerta operando su un fondamento nettamente teologico, che vuol rompere con ogni precomprensione di tipo filosofico-sociologico di marca giusnaturalista” .
“Una riflessione sulla fondazione del Diritto della Chiesa dovrà depositare le sue radici sulla riflessione dogmatica senza cadere nella tentazione di isolarne un aspetto per escluderne altri. […] Ogni fenomeno giuridico trova la sua radice di senso nel mistero di rivelazione che si esprime attraverso la riflessione su Cristo, sull’uomo, e sulla Chiesa. E dall’altra parte ogni riflessione teologica che indaghi il mistero di Dio nella direzione sopra descritta dà luogo a considerazioni che investono il piano giuridico […] L’esistenza di diritti e obblighi nella Chiesa, in riferimento ad una prospettiva antropologica ed ecclesiologica che scaturisce nella cristologia, si fonda in ultima analisi proprio in questa sede: nella persona di Gesù, la cui identità singolare nella dimensione dell’unità e in quella della differenza permette l’esistenza del diverso da sé senza mai separarsi dall’altro. Anche i rapporti giuridici nella Chiesa, come fondamentalmente tutto il fenomeno giuridico teologicamente compreso, sono custoditi, protetti e rivelati nell’unità e differenza cristologica” .
In questo modo l’imperativo di procedere solo attraverso l’analogia fidei per sfuggire ad ogni costo qualunque traccia di riflessione razionale —tacciata di (ateo) giusnaturalismo— spalanca di fatto le porte all’inevidenza logica, alla negazione storica e ad un teologare dogmatistico, teorizzando al contempo un metodo senza radici epistemologiche, visto che il fondamento viene cercato non per la Scienza canonistica, il suo metodo, il suo linguaggio, ma per il suo oggetto formale: lo stesso Diritto canonico, la cui ‘esistenza’ —si dice— dev’essere ‘dimostrata’: come se un biologo dovesse dimostrare l’esistenza del mondo animale per poterlo poi legittimamente studiare.

Ad E. Corecco fa eco F. Coccopalmerio:
“Il problema è perciò quello del metodo. Si tratta, infatti, di giustificare il Diritto canonico non più a partire da presupposti giusnaturalistici o sociali ma da uno spunto nettamente teologico. “Fondare” teologicamente il Diritto ecclesiale è significato per la dottrina ricercare e fornire la prova teologica, e teologicamente corretta, del dover esistere del Diritto nella Chiesa. […]
Il pensiero del Maestro monacense si incentra e prende le mosse da due realtà essenzialmente teologiche, dalla Parola di Dio e dal Sacramento o, detto con altra espressione, dalla locutio Dei attestans. Parola e Sacramento sono realtà di natura giuridica per il fatto che si pongono tra due soggetti (Dio e l’uomo) e creano una situazione di doverosità (la risposta dell’uomo a Dio) carica di conseguenze (l’ottenimento della salvezza) .
Il punto di prospettiva fin qui perseguito è quello che intende la fondazione del Diritto ecclesiale come un fornire la prova teologica, e teologicamente corretta, della necessarietà dell’esistenza del Diritto stesso. Sembra al riguardo ovvio che, se tale è il problema, ci si senta immediatamente e previamente interpellati da un altro quesito: qual è il concetto di Diritto ecclesiale? La domanda appare fondamentale, per l’ovvio fatto che, solo stabilito l’oggetto se ne può fondare l’esistenza .
Il nostro modo di ricercare e statuire il concetto di Diritto presuppone soltanto che il Diritto stesso sia una realtà che si colloca nell’ambito di una pluralità di persone e quindi così ne enuncia la definizione assolutamente formale: “Diritto” sarebbe tutto ciò che causa o permette il nascere, il permanere, lo svilupparsi di una data aggregazione interpersonale. “Diritto” sarebbe pertanto una serie di elementi che, presupposta una pluralità di persone, ne fanno un “unum”, una aggregazione interpersonale, una comunità o socialità” .
L’inconsistenza di questo genere di posizioni non abbisogna di commenti: il Diritto è identificato tout court con la “relazione interpersonale doverosa”; in essa si pretende individuare l’essenza del rapporto giuridico che da questa stessa tipologia relazionale viene poi dedotto nelle sue caratteristiche in quanto Diritto, e prima ancora di diventare Diritto ecclesiale!

Nella stessa linea del tutto confusionale sotto il profilo scientifico si era già espresso anche A.M. Rouco Varela, pienamente convinto —comunque— della liceità della pretesa eccezione epistemologica che riteneva di poter invocare a proprio vantaggio:
“non è logicamente possibile conoscere lo statuto epistemologico del Diritto canonico, se prima non si sia fissata la sua struttura ontologica. Ciò costituisce una volgarità scientifica dal punto di vista della Filosofia tradizionale della conoscenza, ma non nel caso del Diritto canonico” .

Questo genere di ‘riflessione’ non solo non specifica nulla della Scienza del Diritto canonico (la Canonistica) ma giunge addirittura alla creazione di una nuova disciplina teoretica collaterale: la Teologia del Diritto (canonico), sulla quale M. Zimmermann ha espresso un preciso e motivato parere:
“questa Scienza nuova secondo la propria stessa rivendicazione, si caratterizza precisamente per una disaffezione del Diritto in quanto forza sociale in favore di un Diritto “opera” di Dio. Come si dispiega questa perversione del Diritto? […]
Per certi teologi critici delle istituzioni ecclesiali la Teologia sola è in grado di apportare rimedio alla crisi del Diritto attuale, letta come crisi del Diritto canonico. […] Qualche volta come in Corecco, sembra che Teologia/rivelazione/fede/Diritto divino si confondano.
Per di più la volontà di teologizzare può giungere fino al metodo. Il Diritto canonico non è dunque più una Scienza giuridica fornita d’un metodo giuridico conseguente. Il metodo preconizzato da Corecco e Rouco Varela deve svilupparsi nel rifiuto di “tutte le precomprensioni filosofiche formali del Diritto”. Liberata da questo rifiuto preliminare e ponendosi nella pura fede svincolata del “sociale umano (biologico)”, la Teologia del Diritto canonico può cogliere la società ecclesiale come “socialità generata unicamente nella grazia e conosciuta solamente nella fede”.
Un Diritto sacralizzato […] che si risolve teoricamente nell’equivalenza Diritto divino/salvezza/legislazione e praticamente nell’affermazione del potere del vescovo di cui il Diritto non è, alla fine, che l’ornamento della sacralità” .

Il netto rifiuto della ragione in ogni sua forma metodologica sposta così l’ambito di collocazione della riflessione(?) dall’ordine naturale a quello del mistero, dalla ragione alla fede, dal fenomeno al noumeno; si rifiutano e la Scienza e la Filosofia per legittimare soltanto la Teologia: in realtà “una (sola)” Teologia, autoreferenziale e deduttiva; è il massimo della teologizzazione.

Alla base di questa prospettiva si trova però un sostanziale errore teoretico: di fatto una fondazione epistemologica è necessaria non per i ‘fenomeni’ coi quali l’uomo deve confrontarsi (pur, spesso, appartenendovi come parte in causa), ma per le Discipline e Scienze che per la prima volta vogliono comparire nell’ambito scientifico-culturale rivendicando una propria autonomia ed esigendo il dovuto rispetto e riconoscimento da parte delle altre ‘sorelle’ più attempate e stabilendo le regole di inter-relazionalità e scambio tra le nuove nate ed il patrimonio scientifico precedente. Ciò accade soprattutto nelle Discipline più teoriche o speculative come i diversi rami della Filosofia, della Logica o nuovi ambiti della riflessione etica, teologica o matematica.
Per le Scienze fenomenologiche, invece, dove è più forte l’elemento concreto e si dispone immediatamente del proprio oggetto specifico, in piena indipendenza formale dalle altre discipline, questo ‘momento fondativo’ non è necessario se non in relazione alla delineazione del proprio metodo di lavoro e di un appropriato linguaggio tecnico. Ciò che appartiene all’esperienza di sempre non ha infatti nessun bisogno di essere ‘fondato’: occorre, invece, saperlo individuare e leggere correttamente; per quanto riguarda il Diritto canonico nella sua concretissima fenomenicità ciò significa essenzialmente la non-utilità di fondarlo, quanto piuttosto la necessità di conoscerlo con appropriati strumenti scientifici.
La Scienza-madre della Canonistica diventa così la Storia (medium a quo e medium quo, secondo l’insegnamento di T. Jiménez Urresti): Storia della Chiesa, Storia degli istituti canonici, Storia delle fonti, Storia della Scienza canonistica, Storia della Missione, Storia della Liturgia, Storia della Pastorale, Storia della Spiritualità, ecc. ed il metodo e rigore richiesti diventano quelli delle Scienze storiche e fenomenologiche e non delle tecnico-speculative.
Soltanto la considerazione effettiva, infatti, del reale progredire del vissuto canonistico potrà costituire legittimo titolo di investigazione e conoscenza della efficace portata di ciò che nella Chiesa è stabilito effettivamente. Se la legge dell’Incarnazione non è un pretesto per introdurre sistematizzazioni teoretiche e precomprensioni ideologiche (=teologismi), ma si inscrive nella ‘stoffa stessa della creazione’, allora non deve essere possibile prescindere dal fatto che l’esperienza giuridica come tale appartiene alla essenza profonda dell’umanità e del suo vissuto. Per di più le Scienze antropologiche hanno già dimostrato da tempo, con abbondanza e chiarezza di termini, il radicamento antropologico del fenomeno giuridico, secondo solo a quello religioso (da cui in buona parte discende e deriva per successive ‘laicizzazioni’).
Per qual motivo, dunque, fondare epistemologicamente il Diritto (canonico), quando la vita stessa dell’umanità lo costituisce presenza reale e sostanziale all’umanità stessa?
Non è molto più onesto, sotto il profilo morale-filosofico, e rigoroso, sotto quello scientifico, riconoscergli il suo status peculiare tra le esperienze di base dell’umanità, disponendosi alla sua conoscenza attraverso la comprensione che la Chiesa stessa, in ogni tempo, ne ha avuto e sempre continuerà ad averne?
A partire da questo rigore concettuale T. Jiménez Urresti non rinuncia mai a considerare l’oggetto del proprio lavoro —la Canonistica— come una Scienza autentica e, proprio per questo, pretende di metterla a confronto con la Teologia, pure accostata come Scienza; ne nasce una sorta di parallelismo dialettico in cui le peculiarità e caratteristiche di ciascuna Scienza evidenziano ancor meglio quelle dell’altra, senza potersene tuttavia appropriare.
L’opzione epistemologica, emarginata dalla linea editoriale di Concilium, solo proclamata da Corecco e Gerosa, e (sostanzialmente) ignorata a Pamplona , divenne così il proprium della dottrina del Maestro spagnolo caratterizzandone la maggior parte della riflessione fino al culmine dottrinale nell’Opera del 1993.

Gli spiriti più attenti alle questioni epistemologiche potrebbero tuttavia ricordare che già la Costituzione dogmatica “Dei Filius” del Concilio Vaticano I (24 aprile 1870) aveva distinto con chiarezza due ordini di conoscenza: natura e mistero, assegnando a ciascuno dei due propria legittimità e proprie metodologie (Scienza, Filosofia, Teologia), affidando alla Metafisica il delicato compito di ‘giunzione’ tra i due ‘ordini’ della conoscenza umana. Sulla stessa linea si è poi mossa, recentemente, anche l’Enciclica “Fides et Ratio” specificando ulteriormente la qualità dei rapporti indispensabili tra Filosofia e Teologia e sottomettendo i ‘risultati’ della riflessione teologica al vaglio di ragionevolezza ed accettabilità universale della Filosofia metafisica .

14. La questione terminologica
Altro problema di non debole rilievo sotto il profilo epistemologico è quello del linguaggio utilizzato dai diversi autori nel trattare le tematiche canonistiche e nell’esporre le proprie dottrine in materia.
L’approccio al linguaggio non costituisce per nulla una questione puramente tecnica o formale, senza anche decisivi apporti sostanziali; il linguaggio infatti seleziona e determina i concetti stessi attraverso cui procede l’illustrazione dei ‘dati’, la loro lettura ed interpretazione, al punto che chiamare le cose in modo diverso finisce ben presto per renderle differenti, generando confusione ed incomunicabilità: è il c.d. ‘bilinguismo’ che T. Jiménez Urresti denuncia come reale causa di decadenza della dottrina canonistica.
Va anzi sottolineato come, nel contesto canonistico più globale degli ultimi quarant’anni, si abbia spesso la sensazione di trovarsi davanti ad una sorta di neo-nominalismo in cui le parole non significano più qualcosa di reale, oggettivo, ma diventano semplici icone dei contenuti concettuali più diversi: quegli stessi concetti che ciascun autore/scuola forgia a proprio uso e consumo —risemantizzando anche le nozioni più stabili lungo la storia, o gli stessi concetti scientifici— per farne espressioni tecniche private assolutamente inutilizzabili, ed incomprensibili, al di fuori dello specifico codice linguistico in uso ad, ovvio, detrimento della Scienza canonistica che non riesce così a presentarsi mai come ‘qualcosa’ con sufficiente consistenza cui dedicare attenzione. Non va dimenticato, d’altra parte, come proprio il linguaggio specifico di ogni Disciplina scientifica sia uno degli elementi che —insieme all’oggetto formale ed ai metodi peculiari— concorrono ad individuarla e determinarla.

In quest’ottica occorre considerare come T. Jiménez Urresti sia stato uno dei pochissimi autori a non concedersi nessuna semplificazione in ambito terminologico, tenendo sempre ben distinto il concetto di Diritto dalla Scienza che lo studia —Canonistica o Giurisprudenza che sia— evitando intenzionalmente lo slittamento concettuale e contenutistico, che sempre si cela dietro quello terminologico. Risulta pertanto non condivisibile nella sostanza la critica mossagli da C.M. Redaelli proprio sulla questione terminologica; egli infatti dalla propria lettura degli scritti disponibili fino al 1990 rileva —“salvo errore”— che “il termine “Diritto canonico”, così come è utilizzato dall’autore, sembra indicare almeno tre realtà distinte”: la Scienza del Diritto canonico, l’Ordinamento ecclesiastico, le leggi e norme canoniche “che concretizzano praticamente e positivamente, secondo la volontà del legislatore, il Diritto divino” . Ciò che tuttavia Redaelli contesta specificamente all’autore spagnolo —al solo livello terminologico— assume, invece, proprio da parte di altri autori di ben diverso orientamento dottrinale un preciso valore concettuale, risultando addirittura sistematizzato:
“quando si parla del Diritto canonico o ecclesiale ci si può riferire a tre distinte realtà, anche se strettamente collegate tra di loro: a) al Diritto della Chiesa nella sua essenzialità e globalità; b) al Diritto della Chiesa nella sua formulazione positiva, c) alla Scienza del Diritto canonico” .
In realtà T. Jiménez Urresti appare sempre assolutamente chiaro nel distinguere i concetti, individuando chiaramente la Scienza del Diritto canonico: la Canonistica, rispetto all’oggetto di questa Scienza: le norme canoniche, sia come singole che come storicamente organizzate all’interno di un sistema od Ordinamento giuridico.

In questa linea il rigore di T. Jiménez Urresti è sommo nell’adottare termini di cui abbia preventivamente delineato il significato e la portata, permettendo —correttamente— che i ‘sostantivi’ conservino tutta la propria portata storico-culturale-dottrinale e lasciando agli ‘aggettivi’ il compito di determinarne le eventuali ‘varianti’ anche qualitative: il “Diritto” è perciò tale , indipendentemente da ogni sua ulteriore qualificazione (statuale, canonico, internazionale, ecc.) che interviene solo qualificandolo nelle prospettive e nei presupposti, ma non determinandolo nella propria essenza.
Solo per esemplificare, basti osservare come proprio lo stesso concetto di Diritto appaia di tutt’altra qualità e portata per il nostro autore: “normatività relazionale interpersonale ispirata a giustizia”, anziché: “tutto ciò che causa o permette il nascere, il permanere, lo svilupparsi di una data aggregazione interpersonale” come vuole F. Coccopalmerio, o “la doverosità delle relazione interpersonale carica di conseguenze” come la si prospetta per K. Mörsdorf.
Diventa del tutto pneonastico, a questo punto, interrogarsi sul significato ed il valore scientifico di affermazioni quali:
“si vuole aver a che fare con un generico Diritto nella Chiesa o con lo specifico Diritto della Chiesa? Se infatti non si parte da una giusta nozione di Diritto ecclesiale per poi fondarne teologicamente l’esistenza, si finisce col cercare il fondamento dell’esistenza di una realtà ignota oppure di una realtà diversa da quella che si deve fondare. […] Molti autori presuppongono un concetto di Diritto senza preoccuparsi di verificarne previamente la correttezza e la validità, in specie di verificare scrupolosamente se esso sia appropriato alla peculiare natura della Chiesa”
come se il concetto di Diritto non bastasse a se stesso o proprio la sua aggettivazione lo determinasse ab intrinseco al punto da rinnegarne la stessa ‘id-entità’ (=id est), creando così la necessità di fondare epistemologicamente ciò che —non essendo qualcosa in sé (cioè non esistendo)— sarebbe impossibile da studiare.
Proprio queste acrobazie sulla qualificazione del Diritto come “nella Chiesa” piuttosto che “della Chiesa”, oppure “ecclesiale” come meglio di “canonico”, sono state accuratamente evitate da T. Jiménez Urresti che ha concretamente ed efficacemente denunciato tutta la fragilità di approcci dottrinali che non riescono neppure a varcare la soglia minima della scientificità, incapaci di cogliere un preciso fenomeno storico individuandone la specifica essenza ed approcciandolo con gli strumenti tecnici appropriati.
Proprio ciò che costituisce la ragion d’essere di una Scienza e della legittima riflessione su di essa.

15. L’impatto dottrinale
Come già sinteticamente accennato, non pare possibile parlare in senso proprio di accoglienza della dottrina fondamentale di T. Jiménez Urresti, né da parte degli ‘avversari’, né da parte dei ‘collaboratori’; i primi infatti lo hanno sempre sostanzialmente ignorato (neppure contraddetto), gli altri lo hanno ben presto lasciato alla deriva della propria prospettiva: come accadde per Concilium in capo a dieci anni e, oggi, per la Pontificia Università di Salamanca, che lo ebbe come docente negli ultimi anni di vita.

Unica posizione di confronto, seppure a grande distanza teoretica, fu quella del Salesiano D. Composta che, nel proprio tentativo di promuovere una “Teologia del Diritto divino positivo” (tra il 1967 ed il 1972) si trovò di fatto costretto a non ignorare le posizioni che —contemporaneamente— T. Jiménez Urresti andava propugnando in termini soprattutto di de-teologizzazione del Diritto canonico in un “programma scientifico che ci trova al polo opposto” .
Nel proprio procedere rigidamente deduttivo e formale, l’autore Salesiano rifiuta ogni possibile rimando extracanonico ritenendo che i principi dogmatici siano “solidamente giuridici e legali, anche se forniti direttamente dalla fede o dalla Teologia” ; sarebbe proprio questa fondamentazione diretta nella fede e nella Teologia a conferire carattere strettamente teologico allo studio canonistico. La critica dell’autore è assolutamente convinta: anche se il Diritto prescrive mentre la Teologia definisce e, quindi, la verità canonica non si identifica con la verità teologica, per cui adeguarsi alla legge non è adeguarsi alla fede “questa opposizione non è accettabile né in teoria né in pratica” ! Motivi ed argomenti di questa inaccettabilità non sono comunque addotti.
Pur d’accordo sul fatto che non si può approvare una “Teologia dei fatti compiuti”, ossia che accetti tutta la storia ecclesiastica come storia sacra; pur d’accordo anche nel ritenere che una certa verità canonica non definisca filosoficamente la verità ontologica poiché prescrive semplicemente una condotta sociale, Composta ribadisce tuttavia con forza la propria posizione ‘filo-teologica’ fondata sul fatto che
“molte sono le norme canoniche che non prescrivono una condotta sociale, ma sono articoli di fede. Tali norme toccano ogni fedele, prima ancora del canonista. Perché allora riservarle al teologo? Forse che tali articoli di fede entrando nel C. J. C. cessano di essere “fides credenda”? […] Il presupposto inaccettabile nell’autore a nostro avviso è che il Diritto canonico sia solo un sistema normativo di “condotta” sociale (come spesso ripete l’autore)!”
A proprio conforto egli adduce la “dimostrazione storica”
“rilevando come nel corso dei secoli la Teologia e il Diritto canonico camminarono, generalmente, una accanto all’altra, o per tensioni o per intesa. Il programma di “deteologizzare” (come dice lo Jiménez Urresti con bruttissima voce) il Diritto canonico e viceversa di “decanonizzare” o “de-giuridizzare” la Teologia, ci sembra insostenibile sia dal punto di vista teorico-teologico sia sotto il profilo storico”
tale argomento, tuttavia, non risulta affatto probatorio visto che il semplice camminare delle due Discipline l’una accanto all’altra non comporta di per sé alcuna reciproca referenzialità: tanto più se questo cammino si è svolto per “tensioni”.
La totale non comprensione della proposta dell’autore spagnolo traspare però in alcuni riferimenti diretti secondo cui:
“T. Jiménez Urresti ritiene che il compito della Teologia post-conciliare è di liberarsi da ogni tematica giuridica; come, al contrario, il compito del Diritto canonico è di scrollarsi di dosso ogni vestigio teologico. Due programmi, che con voci barbare sono chiamati “de-giuridizzazione” della Teologia e “de-teologizzazione” del Diritto canonico divino positivo” ;
“il suo progetto mirerebbe a eliminare ogni vestigio giuridico dalla Teologia e, viceversa, ogni vestigio teologico dal Diritto canonico. Secondo l’autore infatti il Diritto canonico e la Teologia non solo sono due Scienze disparate, ma addirittura opposte” .

Per il resto pochissime trattazioni presero in considerazione T. Jiménez Urresti per se ipsum, molti invece i fraintendimenti nell’associarlo e confonderlo con altri autori, accomunandolo tout court alle stesse critiche.
a) Le cinque pagine che gli dedicava nel 1991 C.M. Redaelli nel suo “Il concetto di Diritto canonico ” individuano abbastanza bene il nodo cruciale della differenza tra logica teologica e logica del Diritto canonico e la collocazione epistemologica della riflessione, senza tuttavia accordare particolare risalto a questa impostazione totalmente estranea agli autori non solo contemporanei; contrariamente si cerca invece di dare risalto —sproporzionato rispetto alla dottrina di T. Jiménez Urresti— al tema della Teologia ‘del’ Diritto, vanificando di fatto l’imperativo della de-teologizzazione del Diritto canonico, fulcro dell’insegnamento dell’autore. L’impegno poi per ‘estrarre’ una definizione di Diritto canonico che “non sembra invece costituire problema per l’autore e appare piuttosto un dato scontato” non pare approdare a risultati soddisfacenti tranne riconoscere
“l’identificazione del Diritto canonico con le norme positive, che hanno delle basi pregiuridiche e un fine metagiuridico provenienti dalla Teologia, ma che sono alla fine delle pratiche e modificabili concretizzazioni dei principi del Diritto divino” .
Una discreta lettura (scolare), senza tuttavia una sufficiente comprensione teoretica.
b) Per W. Aymans il nome di T. Jiménez Urresti non merita neppure di essere citato. Nella conferenza del 2 maggio 1990 “Osservazioni critiche sul metodo della Canonistica” il riferimento all’autore appare infatti, cumulativamente al resto della Redazione di Concilium, in una lunga nota di commento all’attività della Rivista indicata come “dottrina che considera la Canonistica una mera tecnica giuridica” , verso la quale ha poi un giudizio tranciante: “e con ciò mette del tutto in dubbio il suo carattere scientifico” .
Proprio tale carattere scientifico viene, invece, riconosciuto a tutte le altre impostazioni dottrinali secondo cui
“la Canonistica è:
- una disciplina giuridica con metodo giuridico
- una disciplina teologica con metodo teologico
- una disciplina teologica con metodo giuridico
- una disciplina teologica e giuridica con metodo teologico e giuridico” ;
fino alla —sagace ed utile— conclusione che:
“la Canonistica è una Scienza con un suo carattere specifico e ha il suo proprio metodo: quello canonistico!” .
Nella stessa nota l’autore monancense critica la pretesa di P. Huizing di “ridurre il ‘Diritto canonico’ ad un mero ‘ordinamento ecclesiale’” , trascurando completamente i pochi, ma chiarissimi articoli, di T. Jiménez Urresti pubblicati proprio sugli stessi numeri di Concilium cui rivolge la propria critica.
Che una trattazione di stampo metodologico quale voleva essere quella di Aymans non abbia saputo porre attenzione alle finezze metodologiche ed epistemologiche cui Jiménez Urresti aveva abituato i propri lettori non è senza significato.
c) Il conterraneo A. Rouco Varela dedica poche righe —non tanto all’autore ma alla questione che a lui viene ricondotta— aderendo all’impostazione standard che rifiuta la differenza tra Teologia e Diritto canonico, nell’incapacità di distinguere ciò che è normativo (per la fede) da ciò che è giuridico (nella vita di fede):
“lo sfondo teologico mascherato dietro la “deteologizzazione” del Diritto canonico è una riduzione di esso in quanto tale, del suo “esse” formale di Diritto, a uno strumento puramente relativo, destinato unicamente a ordinare sociologicamente l’hic et nunc delle “basi pregiuridiche” rappresentate dalla “costituzione sociale gerarchica e sacramentale della Chiesa” che ha in vista “uno scopo metagiuridico”: quello della “salus animarum”. Si lascia in tal modo il Diritto canonico alla soglia delle realtà teologiche che costituiscono lo specifico dell’essere della Chiesa” .
d) Sulla linea della totale incomprensione della prospettiva illustrata da T. Jiménez Urresti va collocato anche E. Corecco che (come A. Cattaneo si affretta a precisare nella sua introduzione ai volumi “Ius et communio” ) si sforzò in più occasioni di ribadire come la sua posizione dottrinale non intendesse affatto de-giuridizzare il Diritto canonico. In tal modo la prospettiva del canonista ticinese, basata su di un approccio semplicemente lessicale ed ‘evocativo’, indipendente —se non contrario addirittura— dalla sostanzialità dei termini e delle formule utilizzate, appare —una volta di più— nella propria inadeguatezza: de-giuridizzare era infatti stato usato in modo assolutamente specifico da parte di T. Jiménez Urresti e del Gruppo di Concilium in riferimento alla Teologia, giammai a riguardo del Diritto canonico!
e) Non migliori risultano le poche righe riservategli da A. Cattaneo nel 1995 sul tema “Canonistica: Scienza teologica o giuridica?” quando, citandolo dapprima in nota, gli attribuisce —in obliquo— “una visione troppo ristretta sia della Canonistica, sia della Teologia” , associandolo immediatamente al pensiero di P. Huizing secondo cui: “la funzione propria del canonista è più una tecnica che una Scienza” : cosa quanto mai improponibile a chi conosca, anche minimamente, il pensiero di T. Jiménez Urresti.
Nelle pagine seguenti poi, affermando “che per “disciplina teologica” va intesa ogni riflessione scientifica intorno a qualsiasi aspetto della realtà salvifica della Chiesa, svolta con principi e criteri di fede (fides quæ, et fides qua creditur)”, egli proclama “innegabile che sia appropriato qualificare come disciplina teologica non solo la Dommatica e la Morale, ma anche la Teologia pastorale, la Liturgia, la Storia della Chiesa, […] e la Canonistica”, tacciando così di “visione riduttiva della Scienza teologica […] l’argomentazione secondo la quale Teologia e Canonistica avrebbero un diverso oggetto formale quod”, non riuscendo tuttavia ad evitare l’autogoal di riconoscere che
“gli autori che seguono questa linea di pensiero […] segnalano giustamente, [che] nella definizione epistemologica di una Scienza prevale l’oggetto formale, per cui la Canonistica andrebbe situata nell’ambito delle Scienze giuridiche” .
Questa evidenza tuttavia non basta a correggere il giudizio circa la “visione riduttiva della Canonistica” attribuito a T. Jiménez Urresti all’interno del programma della Rivista Concilium.
f) L. Gerosa nell’opera del 1995 —in cui si associa il proprio Maestro E. Corecco, come ‘fautore’ delle idee esposte— accennando al ‘programma di de-giuridizzazione della Teologia e de-teologizzazione del Diritto’ si guarda bene —come sempre— dal coglierne la reale sostanza sotto il profilo metodologico (così come illustrata da T. Jiménez Urresti nell’Opera del 1993), limitandosi ad alcune citazione del solo P. Huizing che ridurrebbero il Diritto canonico a “pura necessità sociologica” e disprezzando il lavoro dell’intera “corrente della Canonistica postconciliare dalla tribuna internazionale della rivista Concilium” dalla quale “non si può attendersi un contributo teoretico approfondito e compiutamente articolato” . In tal modo si contrappone ancora teoria a teoria continuando però a sfuggire il vero nodo della questione: un vero metodo scientifico , unico reale interesse di T. Jiménez Urresti.
Significativamente: il semplice parlare di ‘metodo’ non comporta il sapersene dare uno, scientificamente tale.
g) Unico atteggiamento di non rifiuto ideologico, per quanto ben lontano dalla valorizzazione della dottrina di T. Jiménez Urresti, è quello dell’ungherese P. Erdö che, analizzando lo sviluppo delle posizioni dottrinali favorevoli all’autonomia del Diritto canonico come sistema giuridico ed alla indipendenza —almeno relativa— della Scienza che se ne occupa rispetto alla Teologia, giudica l’opera del canonista spagnolo come un passo avanti nella direzione dell’autonomia del Diritto ecclesiale stesso dalla Teologia. P. Erdö però, se riconosce allo spagnolo la specifica attenzione verso la “purezza del metodo giuridico” —lettura certamente adeguata dell’autore— riconduce tuttavia i presupposti della de-teologizzazione all’olandese P. Huizing , mostrando di non cogliere fino in fondo la radicale differenza di approccio tra le dottrine dei due firmatari dell’Editoriale di Concilium.

Uno sguardo d’insieme alle valutazioni critiche (negative) sin qui espresse permette di osservare come il rigore scientifico dell’autore sia stato semplicisticamente travisato in rigidità teoretica senza nessun coinvolgimento nello specifico ‘livello’ della sua proposta dottrinale, perfettamente identificata —e relegata— nell’ambito epistemologico ma assolutamente trascurata nelle istanze proposte.

16. Conclusioni
L’unica critica sostanziale che si può muovere a T. Jiménez Urresti riguarda senza dubbio la sua scelta di contestualizzare la propria riflessione e proposta dottrinale all’interno dell’ambito teologico tradizionale (Scolastico-Tomista): una scelta che gli è costata parecchio cara, sia verso i propri contemporanei che verso le nuove generazioni; i primi, infatti, sulla scia del rinnovamento conciliare hanno ripudiato quasi completamente le categorie concettuali della propria formazione teologica (quelle utilizzate da T. Jiménez Urresti) avventurandosi in nuovi spazi concettuali e scientifici per i quali non possedevano, in gran parte, alcuna competenza o attitudine, riducendosi così ad un semplicistico trasformismo (conservatore non delle categorie ma dei loro contenuti sostanziali); le nuove generazioni, spesso completamente digiune di quelle stesse categorie, non sono state, generalmente, in grado di ‘filtrare’ l’innovativa proposta metodologica svestendola delle forme teoretiche e concettuali ormai obsolete per ricuperarne l’apporto sostanziale in vista di una Canonistica che sappia davvero essere Scienza moderna a tutti gli effetti, e con tutti i risultati.
Occorre tuttavia rimarcare come a sfavore della comprensibilità dell’autore abbiano giocato diversi fattori anche aspecifici, tipici degli anni del post-concilio, quali una certa banalizzazione/rifiuto delle categorie chiave della Teologia tradizionale, la ricerca di un aggiornamento spesso dei soli vocabolari senza tuttavia reinterpretare i principi di fondo, un certo irrazionalismo —anche fideistico— in contrapposizione con la sterilità dei ragionamenti propri della (non migliore) Scolastica, un riformismo ecclesiale anti-istituzionale (ed antigiuridico), una grande leggerezza nell’inventare nuove presunte Discipline teologiche non contestualizzate nell’alveo della riflessione sistematica della dottrina e del Magistero più autorevole.

Probabilmente l’autore ha sopravvalutato le capacità recettive —e scientifiche— dei propri contemporanei, presumendo di guadagnarli al proprio punto di vista con l’adozione di un linguaggio a loro già familiare, onde meglio suscitare un atteggiamento che, dalla familiarità logico-speculativa con le premesse ed il metodo, potesse indurre anche all’accettazione della proposta dottrinale.
I più giovani potranno comunque trarre grande vantaggio dalla dottrina dell’autore se sapranno accostarsi ai suoi scritti con una sensibilità che, riconoscendo i diversi circoli ermeneutici (dell’autore, della Teologia tradizionale e propri), sappia ‘estrarre’ gli elementi e le logiche sostanziali —al livello epistemologico— per ritradurli in un linguaggio a loro comprensibile e fruibile: ciò che —personalmente— ho tentato di fare.

Gherri Paolo
Allegato. Editoriale N. 8, 1965 “Concilium”

“Si sarà sorpresi senza dubbio che una rivista di Teologia come Concilium consacri un numero al Diritto canonico. Una semplice ragione giustifica il nostro tentativo: il Diritto canonico e la Teologia hanno tra loro dei rapporti essenziali.
1) Effettivamente, si può parlare di una Teologia ‘del’ Diritto canonico e di una Teologia ‘nel’ Diritto canonico. Qualcuno ha già detto che il Diritto canonico è “il modo giuridico del pensiero teologico”. Non è inutile che la Teologia informi il Diritto canonico e gli offra le basi pre-giuridiche —i dati immutabili della costituzione sociale, gerarchica e sacramentale della Chiesa— ed il fine meta-giuridico, la salvezza delle anime.
E’ per questo che le vicissitudini ed i progressi della Teologia si ripercuotono immediatamente sul Diritto canonico. Si pensi, per esempio, alle diverse conseguenze possibili che derivano canonicamente dal fatto che uno ammetta o no il carattere “generico” dell’istituzione dei sette sacramenti e l’autorità della Chiesa su di essi, che sono i suoi strumenti sociali; o il fatto che uno affermi o no la dottrina della collegialità episcopale.
Ora la base teologica pre-giuridica è spesso ‘indifferente o generica’ in rapporto all’espressione strumentale concreta che è la norma canonica. O inversamente: occorre considerare la ‘natura’ essenzialmente ‘relativa’ di numerose disposizioni canoniche, resa possibile dal carattere generico delle loro basi teologiche.
Si comprende così che il cammino della Teologia abbia delle incidenze dirette su quello del Diritto canonico, e che il teologo abbia interesse a conoscere la possibile portata canonistica delle sue posizioni teologiche per dare una giustificazione dottrinale alle varianti storiche del Diritto canonico.
2) Questa non-identificazione della Teologia e del Diritto canonico, oltre al carattere relativo della regola canonica davanti al carattere assoluto, per quanto generico, della norma teologica, giustifica, conferendogli un certo valore, la distinzione fatta tra “la Chiesa del Diritto” (Ecclesia juris) e “la Chiesa della carità” (Ecclesia caritatis).
Per di più si è accusata la Teologia, specialmente negli ambienti ecumenici, d’essere “occidentalizzata”, “giuridizzata”, e di “teologizzare i fatti compiuti”, cioè d’assolutizzare teologicamente i comportamenti canonici della storia.
La giusta valutazione della relatività canonica nel tempo e nello spazio contribuirà non poco a liberare la Teologia da questa accusa. L’analisi e l’apprezzamento della vita storica del Diritto canonico sono indispensabili per fissare in molti casi la dottrina teologica esatta, poiché, mancando di prospettiva storica e dei dati storici canonici, una tentazione minaccia il teologo: quella di identificare delle leggi, degli usi e dei costumi anche molto stabili (e la forza di una tale tentazione è proporzionale a questa stabilità), con delle norme di Diritto divino di carattere immutabile, quando non si abbia in effetti che delle regole canoniche che rivelino il potere discrezionale della Chiesa, che può modificarle.
E’ per questo che il Diritto canonico può rendere alla Teologia un apprezzato servizio ed aiutarla a divenire più “cattolica”, e per conseguenza anche più “ecumenica”; a non identificarsi coi fatti storici canonici, anche se essa è loro soggiacente, informandoli.
3) Per di più, i teologi della Pastorale accusano il Diritto canonico di non avare una agilità sufficiente e di mancare d’efficacia strumentale. Essi non dimenticano che la finalità del Diritto canonico è la salvezza delle anime. Essi sanno che entro questi due poli —la costituzione sociale della Chiesa, e la salvezza delle anime— il Diritto canonico è uno strumento per la Pastorale, e che come tale è necessario continuamente revisionare la sua fedeltà teologica ed il suo adeguamento pastorale. La costituzione sociale della Chiesa, non essendo immutabile che nelle sue linee sostanziali, rende questa revisione possibile; e le necessità cangianti della Pastorale la rendono necessaria.
Si comprende che la “teologizzazione” del Diritto canonico assolutizza le leggi canoniche, le immobilizza e le fissa col rigore assoluto dell’immutabilità della verità teologica, trasmettendo questa stessa immobilità alla Pastorale, mentre questa è per definizione dinamica ed agile, come la vita stessa. Di qui il pregiudizio pastorale che ne deriva.
E’ per questo che le necessità pastorali, incompatibili con l’immobilità canonica che le opprime dalla propria rigidità, spingono così sovente la Teologia ad approfondire ed a prendere una coscienza più chiara dei punti di dottrina teologica anteriori al Diritto, come un avvio previo e necessario per giungere ad una formulazione canonica adeguata che ne deriva. Non è questa precisamente una delle esperienze più marcanti del Vaticano II?
Se non si tiene conto che del carattere essenzialmente relativo del Diritto canonico, nei limiti del suo immutabile fondamento teologico essenziale, si può aprire la porta all’instaurazione di un Diritto (jus condendum) differente dal Diritto stabilito attualmente (jus conditum). E se la Pastorale fa pressione sul Diritto canonico per ottenere leggi adeguate, il Diritto canonico fa pressione con tutta la forza della sua missione —che è di regolare ed ordinare la Pastorale— sulla Teologia, perché questa gli detti i limiti teologici immutabili all’interno dei quali il Diritto canonico può muoversi. Così il Diritto canonico, per incidenza, fa pressione sulla Teologia, e la fa avanzare e progredire.
4) In ultimo luogo, l’esposizione e l’esame dell’applicazione esatta del principio della relatività canonica messo in opera dal legislatore faranno vedere più chiaramente al teologo come gli imperativi generici delle Teologia si formulano in leggi canoniche concrete variabili secondo le esigenze pastorali delle differenti circostanze storiche e sociali, e dunque in un quadro che apparirà relativo agli occhi del teologo. Anche il lavoro e lo studio del canonista aiuteranno il teologo a scoprire più esattamente le proprie posizioni.
Questa funzione d’aiuto sarà specialmente attuale nei prossimi anni a riguardo dell’aggiornamento —o l’attualizzazione della disciplina canonica— annunciato dal Concilio. Ma non sarà mai terminata. Poiché la Chiesa, in continuo divenire storico, deve essere in perpetua riforma della propria disciplina in vista della Pastorale, le cui esigenze variano costantemente nel tempo e nello spazio. Da qui la necessità di una costante valorizzazione pastorale delle leggi.
In conclusione: questo numero della rivista ‘Concilium’ tenterà di andare costantemente dal Diritto canonico alla Teologia e alla Pastorale e reciprocamente, per scoprire ed applicare il principio del carattere generale delle basi teologiche e del carattere relativo della realtà canonica, sempre in vista di una miglior finalizzazione ed adeguamento pastorale delle leggi. Si propone anche di fornire qualche riflessione destinata a mettere in piedi uno ‘jus condendum’ eventuale di miglior qualità.
Preoccupato di mantenere la sostanza della costituzione divina della Chiesa, ed in uno spirito di servizio, questo numero di ‘Concilium’ vorrebbe aiutare i teologi a “degiuridizzare” la Teologia ed i canonisti a “deteologizzare” il Diritto canonico. In tal modo questi potrebbero in definitiva collaborare coi teologi della Pastorale e dell’ecumenismo, così come coi legislatori, per presentare la Chiesa e le sue funzioni con un aspetto canonico che la renda progressivamente più attraente e munita di un apparato legislativo sempre più adeguato ai segni di ciascun tempo, come la voleva Giovanni XXIII.
Esso vuole dunque avere, per missione e segno, il segno e la missione del Vaticano II: essere “cattolico, ecumenico e pastorale”” .



in: APOLLINARIS, LXXVIII (2005), 527-587.