Gruppo Famiglie di San Filippo Neri

Il sito degli amici del Santo della Gioia


Alcune storie tratte da pubblicazioni di Bruno Ferrero

aggiornamento al 04/06/05

 

Raccolta di racconti di Bruno Ferrero

E Dio creò la mamma

Il Segnale

La bontà cambia i cuori

Rassomiglianze

Il piccolo Re Solitario

Il lupo di Betlemme

La benedizione

La mano e la sabbia

L'uovo

La cisterna screpolata

I tre figli

Fortezze ma non di pietra

Storia triste

E' arrivato un mostro

Lo scoiattolo Bernardo

     

 

 

E Dio creò la mamma
(Bruno Ferrero, 40 Storie nel deserto)
Il buon Dio aveva deciso di creare... la mamma. Ci si arrabattava intorno già da 
sei giorni, quand'ecco comparire un angelo che gli fa: "Questa qui te ne fa 
perdere di tempo, eh?". E Lui: "Sì, ma hai letto i requisiti dell'ordinazione? 
Dev'essere completamente lavabile, ma non di plastica... avere 180 parti mobili 
tutte sostituibili... funzionare a caffè e avanzi del giorno prima... avere un 
bacio capace di guarire tutto, da una sbucciatura ad una delusione d'amore... e 
sei paia di mani". L'angelo scosse la testa e ribatté incredulo: "Sei paia?!". 
"Il difficile non sono le mani – disse il buon Dio – ma le tre paia di occhi che 
una mamma deve avere". "Così tanti?". Dio annuì. "Un paio per vedere attraverso 
le porte chiuse quando domanda "che state combinando lì dentro, bambini?", anche 
se lo sa già; un altro paio dietro la testa, per vedere quello che non dovrebbe 
vedere, ma che deve sapere; un altro paio ancora per dire tacitamente al figlio 
che si è messo in un guaio "capisco e ti voglio bene lo stesso". "Signore – fece 
l'angelo sfiorandogli gentilmente un braccio – va' a dormire. Domani è un 
altro...". "Non posso – ripose il Signore – ho quasi finito ormai. Ne ho già una 
che guarisce da sola se è malata, che può lavorare 18 ore di seguito, preparare 
un pranzo per sei con mezzo chilo di carne tritata e che riesce a tenere sotto 
la doccia un bambino di nove anni". L'angelo girò lentamente intorno al modello 
di madre, esaminandolo con curiosità: "E' troppo tenera", disse poi con un 
sospiro. "Ma resistente – ribatté il Signore con foga – tu non hai idea di 
quello che può sopportare una mamma!". "Sa pensare?". "Non solo, ma sa anche 
fare un ottimo uso della ragione e venire a compromessi", ribatté il Creatore. A 
quel punto l'angelo si chinò sul modello della madre e le passò un dito su una 
guancia: "Qui c'è una perdita", dichiarò. "Non è una perdita – lo corresse il 
Signore – è una lacrima". "E a che serve?". "Esprime gioia, tristezza, 
delusione, dolore, solitudine, orgoglio". "Ma sei un genio!", esclamò l'angelo. 
Con sottile malinconia Dio aggiunse: "A dire il vero, non sono stato io a 
mettercela quella cosa lì..."
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Il segnale
(Bruno Ferrero, La vita è tutto quello che abbiamo)
Un giovane era seduto da solo nell'autobus; teneva lo sguardo fisso fuori del 
finestrino. Aveva poco più di vent'anni ed era di bell'aspetto, con un viso dai 
lineamenti delicati. 
Una donna si sedette accanto a lui. Dopo avere scambiato qualche chiacchiera a 
proposito del tempo, caldo e primaverile, il giovane disse, inaspettatamente: 
«Sono stato in prigione per due anni. Sono uscito questa mattina e sto tornando 
a casa». 
Le parole gli uscivano come un fiume in piena mentre le raccontava di come fosse 
cresciuto in una famiglia povera ma onesta e di come la sua attività criminale 
avesse procurato ai suoi cari vergogna e dolore. In quei due anni non aveva più 
avuto notizie di loro. Sapeva che i genitori erano troppo poveri per affrontare 
il viaggio fino al carcere dov'era detenuto e che si sentivano troppo ignoranti 
per scrivergli. Da parte sua, aveva smesso di spedire lettere perché non 
riceveva risposta. 
Tre settimane prima di essere rimesso in libertà, aveva fatto un ultimo, 
disperato tentativo di mettersi in contatto con il padre e la madre. Aveva 
chiesto scusa per averli delusi, implorandone il perdono. 
Dopo essere stato rilasciato, era salito su quell'autobus che lo avrebbe 
riportato nella sua città e che passava proprio davanti al giardino della casa 
dove era cresciuto e dove i suoi genitori continuavano ad abitare. 
Nella sua lettera aveva scritto che avrebbe compreso le loro ragioni. Per 
rendere le cose più semplici, aveva chiesto loro di dargli un segnale che 
potesse essere visto dall'autobus. Se lo avevano perdonato e lo volevano 
accogliere di nuovo in casa, avrebbero legato un nastro bianco al vecchio melo 
in giardino. Se il segnale non ci fosse stato, lui sarebbe rimasto sull'autobus 
e avrebbe lasciato la città, uscendo per sempre dalla loro vita. 
Mentre l'automezzo si avvicinava alla sua via, il giovane diventava sempre più 
nervoso, al punto di aver paura a guardare fuori del finestrino, perché era 
sicuro che non ci sarebbe stato nessun fiocco. 
Dopo aver ascoltato la sua storia, la donna si limitò a chiedergli: «Cambia 
posto con me. Guarderò io fuori del finestrino». 
L'autobus procedette ancora per qualche isolato e a un certo punto la donna vide 
l'albero. 
Toccò con gentilezza la spalla del giovane e, trattenendo le lacrime, mormorò: 
«Guarda! Guarda! Hanno coperto tutto l'albero di nastri bianchi». 
Siamo più simili a bestie quando uccidiamo. 
Siamo più simili a uomini quando giudichiamo. 
Siamo più simili a Dio quando perdoniamo.
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La bontà cambia i cuori
(Bruno Ferrero, C'è qualcuno lassù)
Un vecchietto che da molto tempo si era allontanato dalla Chiesa, un giorno andò 
dal parroco. Sperava di essere aiutato finalmente a risolvere i suoi problemi di 
fede. Quando entrò nella canonica, c'era già una persona a parlare con lui. Il 
sacerdote intravide il vecchietto in piedi in corridoio, e subito, uscì a 
portargli una sedia. 
Quando l'altro si congedò, il parroco fece entrare il vecchio signore. 
Conosciuto il problema, gli parlò a lungo e dopo un fitto dialogo, l'anziano, 
soddisfatto, disse che sarebbe tornato alla Chiesa. Il parroco, contento, ma 
anche un po' meravigliato, gli chiese: «Senta, mi dica, di tutto il nostro 
incontro, qual è l'argomento che più l'ha convinta a tornare a Dio?». «Il fatto 
che sia uscito a portarmi una sedia», rispose il vecchietto.
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Rassomiglianze
(Bruno Ferrero, Cerchi nell'acqua)
Una suora missionaria stava accuratamente curando le piaghe ripugnanti di un 
lebbroso. Faceva il suo lavoro sorridendo e chiacchierando con il malato, come 
fosse la cosa più naturale del mondo. A un certo punto chiese al malato: 
«Tu credi in Dio?». 
Il pover'uomo la fissò a lungo e poi rispose: 
«Sì, adesso credo in Dio». 
Un missionario viaggiava su un veloce treno giapponese e occupava il tempo 
pregando con il breviario aperto. Uno scossone fece scivolare sul pavimento una 
immaginetta della Madonna. 
Un bambino seduto di fronte al missionario si chinò e raccolse l'immagine. 
Curioso come tutti i bambini, prima di restituirla la guardò. 
«Chi è questa bella signora?», chiese al missionario. 
«E'... mia madre» rispose il sacerdote, dopo un attimo di esitazione. Il bambino 
lo guardò, poi riguardò l'immagine. 
«Non le assomigli tanto», disse. 
Il missionario sorrise: «Eppure, ti assicuro che è tutta la vita che cerco di 
assomigliarle, almeno un po'». 
Tu, a chi assomigli?	
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Il piccolo re solitario
(Bruno Ferrero, Nuove Storie, Ed. Elle Di Ci)
Lontano, lontano da qui, in un mare dal nome strano, c'era una piccola isola, 
con le spiagge bianche e le colline verdi. Sull'isola c'era un castello e nel 
castello viveva un piccolo re. Era un re abbastanza strano, perché non aveva 
sudditi. Nemmeno uno.
Ogni mattina il piccolo re, dopo aver sbadigliato ed essersi stiracchiato, si 
lavava le orecchie e si spazzolava i denti; poi si calcava in testa la corona e 
cominciava la sua giornata. Se splendeva il sole, il piccolo re correva sulla 
spiaggia a fare sport. Era un grande sportivo. Deteneva infatti tutti i record 
del regno: da quello dei cento metri di corsa sulla sabbia, al lancio della 
pietra, a tutte le specialità di nuoto, eccetto lo sci acquatico, perché non 
trovava nessuno che guidasse il reale motoscafo. E dopo ogni gara, il re si 
premiava con la medaglia d'oro. Ne aveva ormai tre stanze piene. 
Ogni volta che si appuntava la medaglia sul petto, si rispondeva con garbo: 
"Grazie, maestà!". 
Nel castello c'era una biblioteca, e gli scaffali erano pieni di libri. Al re 
piacevano molto i fumetti d'avventure. Un po' meno le fiabe, perché nelle fiabe 
tutti i re avevano dei sudditi. "E io neanche uno!" si diceva il re. "Ma come 
dice il proverbio: è meglio essere soli che male accompagnati". 
E quando faceva i compiti, si dava sempre dei bellissimi voti. "Con i 
complimenti di sua maestà", si dichiarava. 
Una sera, però, sentì un certo nonsoché che lo rendeva malinconico; camminò fino 
alla spiaggia, deciso a cercare qualche suddito, e pensava: "Se solo avessi 
cento sudditi". 
Allora proseguì sulla spiaggia verso destra, ma la riva era completamente 
deserta. 
"Se solo avessi cinquanta sudditi", disse il re; tornò indietro e camminò sulla 
spiaggia verso sinistra fino a che poté, ma la riva era ugualmente deserta. Il 
re si sedette su uno scoglio ed era un po' triste; e di conseguenza non si 
accorse nemmeno che quella sera c'era un magnifico tramonto. 
"Se solo avessi dieci sudditi, probabilmente sarei più felice". 
Notò lontano sul mare alcuni pescatori sulle loro barche e si rallegrò. 
"Sudditi", gridò il re; "sudditi, da questa parte, ecco il re, urrà!". 
Ma i pescatori non lo sentirono, e tutto quel gridare rese rauco il re. Tornò a 
casa e scivolò sotto la sua bella trapunta colorata; si addormentò e sognò un 
milione di sudditi che gridavano "urrà" nel momento in cui lo vedevano. 
Non dormì a lungo. Un vociare forte e disordinato lo svegliò. Il piccolo re non 
aveva sudditi, ma aveva dei nemici accaniti. Erano i pirati del terribile 
Barbarossa. 
Sembravano sbucare dall'orizzonte, con la loro nave irta di cannoni, con i loro 
baffi spioventi e il ghigno feroce, e i coltellacci fra i denti. 
"All'arrembaggio!", gridava Barbarossa, il più feroce di tutti. E i trentotto 
pirati entravano urlando nel castello e facevano man bassa di tutto quello che 
trovavano. A forza di scorrerie, nel castello era rimasto ben poco di 
asportabile, così i pirati avevano preso l'abitudine di riportare qualcosa ogni 
volta per poterlo rubare nella scorreria successiva. 
Il piccolo re aveva una paura tremenda dei pirati e soprattutto del crudele 
Barbarossa che ogni volta sbraitava: "Se prendo il re, lo appendo all'albero 
della nave!". 
Così, quando sentiva arrivare i pirati, si nascondeva in uno dei tanti 
nascondigli segreti del castello. Dentro, rannicchiato nel buio, aspettava la 
partenza dei pirati. Era così da tanto tempo ormai, e il piccolo re non si 
sentiva affatto un fifone. "Se avessi un esercito", pensava, "Barbarossa e la 
sua ciurma non la passerebbero liscia". 
Un mattino, il re si svegliò a un suono completamente nuovo. Lo ascoltò e si 
rese conto che non aveva mai udito un suono simile. "Forse sono arrivati i miei 
sudditi", pensò il re, e andò ad aprire la porta. Sul gradino della porta sedeva 
un enorme gatto arancione. 
"Buongiorno", disse il re con grande dignità; "io sono il re, urrà". 
"E io sono il gatto", disse il gatto. 
"Tu sei mio suddito", disse il re. 
"Lasciami entrare", ribatté il gatto; "ho fame e ho freddo". 
Il re lasciò entrare il gatto nella sua casa, e il gatto fece un giro intorno e 
vide quanto era grande e confortevole. 
"Che bellissima casa hai". 
"Sì, non è male", disse il re; e improvvisamente si accorse di tutte le cose che 
non aveva mai visto in molti anni. 
"E' perché io sono il re", disse il re; ed era molto soddisfatto. 
"Io resterò qui", decise il gatto, e si sistemò nella casa per vivere con il re; 
e il re fu felice perché ora aveva finalmente un suddito. 
"Dammi del cibo", disse il gatto, e il re corse via immediatamente per andare a 
prendere cibo per il gatto. 
"Fammi un letto", disse il gatto; e il re corse alla ricerca di una trapunta e 
di un cuscino. 
"Ho freddo", disse il gatto; e il re accese un fuoco affinché il gatto potesse 
scaldarsi. 
"Ecco fatto, signor Suddito", disse il re al gatto. 
E il gatto rispose: "Grazie, signor Re". 
E il re non notò neppure che, sebbene fosse il re, serviva il gatto. 
Il tempo passava e il re era felice in compagnia del gatto, e il gatto mostrava 
al re ogni cosa che il re nella sua solitudine era riuscito a dimenticare: il 
tramonto, la rugiada del mattino, le conchiglie colorate e la luna che scivolava 
attraverso il cielo come la barca dei pescatori sul mare. 
Qualche volta accadeva al re di passare davanti a uno specchio, e quando vedeva 
la sua immagine diceva: "Il re, urrà". E si salutava. Non era più il campione 
assoluto dell'isola. Il gatto lo batteva nel salto in alto, in lungo e 
nell'arrampicata sugli alberi; ma il re continuava a eccellere nel nuoto e nel 
lancio della pietra. 
Un mattino, il re sentì bussare alla porta del castello. Corse ad aprire, 
pensando: "Arrivano i sudditi". Si trovò davanti un piccoletto con la faccia 
allegra. Era un pinguino, con la camicia bianca e il frac di un bel nero 
lucente. 
"Buongiorno", disse il re con grande dignità; "io sono il re, urrà". 
"E io sono un pinguino", disse il pinguino. 
"Tu sei mio suddito", disse il re. 
"Lasciami entrare", ribatté il pinguino; "ho fame e ho i piedi congelati. Sono 
stufo di abitare su un iceberg". 
Il re lasciò entrare il pinguino nella sua casa e gli presentò il gatto, che fu 
molto felice di fare conoscenza con il pinguino. 
"Penso che mi fermerò qui con voi", disse il pinguino. 
Il re ne fu felicissimo. Adesso aveva due sudditi. Corse a preparare una buona 
cenetta per il pinguino, mentre il gatto portava al nuovo ospite due soffici 
pantofole. 
"Io farò il maggiordomo. Mi ci sento portato", dichiarò il pinguino. "Terrò in 
ordine il castello e servirò gli aperitivi in terrazza". 
Così furono in tre a guardare i tramonti. Ed era ancora meglio che in due. Il re 
non vinceva più molte gare sportive, perché il pinguino lo batteva a nuoto e nei 
tuffi. Scoprì, sorprendentemente, che si può essere contenti anche se non si 
vince sempre. 
Ma una sera, lontano all'orizzonte, apparve la nave del pirata Barbarossa. 
"Presto scappiamo a nasconderci", gridò il re. 
"Neanche per sogno", disse il gatto. "Siamo in tre e possiamo battere quei 
prepotenti". 
"Certo", ribatté il pinguino. "Basta avere un piano". 
"Nell'armeria del castello c'è l'armatura del gigante Latus", disse il re. 
"Bene", disse il gatto. "Ci infileremo nell'armatura e affronteremo i pirati". 
"Il gatto si metterà sulle mie spalle, e il re sul gatto, così potrà brandire la 
spada", continuò il pinguino. 
"Approvo il piano", concluse il re. 
Così fecero. Quando approdarono alla spiaggia, i pirati rimasero paralizzati 
dalla sorpresa. Verso di loro, a grandi passi ondeggianti, avanzava un gigante 
che brandiva un enorme e minaccioso spadone. "E' tornato il gigante Latus!", 
gridarono. "Si salvi chi può!". E si buttarono in acqua per raggiungere la nave. 
Da allora nessuno li vide mai più. 
Sulla spiaggia dell'isola il piccolo re, il gatto e il pinguino si abbracciarono 
ridendo. Poi il gatto e il pinguino sollevarono il re e lo gettarono in aria 
gridando: "Re è il migliore amico che c'è, urrà!".
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Il lupo di betlemme
(Bruno Ferrero, Il segreto dei pesci rossi)

C'era una volta un lupo. Viveva nei dintorni di Betlemme. I pastori lo temevano tantissimo e vegliavano l'intera notte per salvare le loro greggi. C'era sempre qualcuno di sentinella, così il lupo era sempre più affamato, scaltro e arrabbiato.
Una strana notte, piena di suoni e luci, mise in subbuglio i campi dei pastori. L'eco di un meraviglioso canto di angeli era appena svanito nell'aria. Era nato un bambino, un piccino, un batuffolo rosa, roba da niente.
Il lupo si meravigliò che quei rozzi pastori fossero corsi tutti a vedere un bambino.
"Quante smancerie per un cucciolo d'uomo" pensò il lupo. Ma incuriosito e soprattutto affamato com'era, li seguì nell'ombra a passi felpati. Quando li vide entrare in una stalla si fermò nell'ombra e attese.
I pastori portarono dei doni, salutarono l'uomo e la donna, si inchinarono deferenti verso il bambino e poi se ne andarono. Gli occhi e le zanne del lupo brillarono nella notte: stava per giungere il suo momento. L'uomo e la donna stanchi per la fatica e le incredibili sorprese della giornata si addormentarono. "Meglio così" pensò il lupo, "comincerò dal bambino".
Furtivo come sempre scivolò nella stalla. Nessuno avvertì la sua presenza. Solo il bambino. Spalancò gli occhioni e guardò l'affilato muso che, passo dopo passo, guardingo ma inesorabile si avvicinava sempre più. Gli occhi erano due fessure crudeli. Il bambino però non sembrava spaventato.
"Un vero bocconcino" pensò il lupo. Il suo fiato caldo sfiorò il bambino. Contrasse i muscoli e si preparò ad azzannare la tenera preda.
In quel momento una mano del bambino, come un piccolo fiore delicato, sfiorò il suo muso in una affettuosa carezza. Per la prima volta nella vita qualcuno accarezzò il suo ispido e arruffato pelo, e con una voce, che il lupo non aveva mai udito, il bambino disse: "Ti voglio bene, lupo".
Allora accadde qualcosa di incredibile, nella buia stalla di Betlemme. La pelle del lupo si lacerò e cadde a terra come un vestito vecchio. Sotto, apparve un uomo. Un uomo vero, in carne e ossa. L'uomo cadde in ginocchio e baciò le mani del bambino e silenziosamente lo pregò.
Poi l'uomo che era stato un lupo uscì dalla stalla a testa alta, e andò per il mondo ad annunciare a tutti :"E' nato il bambino divino che può donarvi la vera libertà! Il Messia è arrivato! Egli vi cambierà!".

Cambiare le creature semplicemente amandole. Questo era il piano di Dio. Forse funziona con le belve...

 

La benedizione
(Bruno Ferrero, Solo il vento lo sa)


Nella comunità dell'Arca dove aveva deciso di vivere, dopo una vita passata nel mondo universitario, un giorno il celebre padre Henri Nouwen fu avvicinato da una handicappata della comunità che gli disse: "Henri, mi puoi benedire?".
Padre Nouwen rispose alla richiesta in maniera automatica, tracciando con il pollice il segno della croce sulla fronte della ragazza.
Invece di essere grata, lei protestò con veemenza: "No, questa non funziona. Voglio una vera benedizione!".
Padre Nouwen si accorse di aver risposto in modo abitudinario e formalistico e disse: "Oh, scusami... ti darò una vera benedizione quando saremo tutti insieme per la funzione".
Dopo la funzione, quando circa una trentina di persone erano sedute in cerchio sul pavimento, padre Nouwen disse: "Janet mi ha chiesto di darle una benedizione speciale. Lei sente di averne bisogno adesso".
La ragazza si alzò e andò verso il sacerdote, che indossava un lungo abito bianco con ampie maniche che coprivano sia le mani che le braccia. Spontaneamente Janet lo abbracciò e pose la testa contro il suo petto. Senza pensarci, padre Nouwen la avvolse con le sue maniche al punto di farla quasi sparire tra le pieghe del suo abito.
Mentre si tenevano l'un l'altra padre Nouwen disse: "Janet, voglio che tu sappia che sei l'Amata Figlia di Dio. Sei preziosa agli occhi di Dio. Il tuo bel sorriso, la tua gentilezza verso gli altri della comunità e tutte le cose buone che fai, ci mostrano che bella creatura tu sei. So che in questi giorni ti senti un po' giù e che c'è della tristezza nel tuo cuore, ma voglio ricordarti chi sei: sei una persona speciale, sei profondamente amata da Dio e da tutte le persone che sono qui con te".
Janet alzò la testa e lo guardò; il suo largo sorriso dimostrò che aveva veramente sentito e ricevuto la benedizione.
Quando Janet tornò al suo posto, tutti gli altri handicappati vollero ricevere la benedizione. Anche uno degli assistenti, un giovane di ventiquattro anni, alzò la mano e disse: "E io?".
"Certo", rispose padre Nouwen. "Vieni".
Lo abbracciò e disse: "John, è cosi bello che tu sia qui. Tu sei l'Amato Figlio di Dio. La tua presenza è una gioia per tutti noi. Quando le cose sono difficili e la vita è pesante, ricordati sempre che tu sei Amato di un amore infinito".
Il giovane lo guardò con le lacrime agli occhi e disse: "Grazie, grazie molte".

La sensazione di essere maledetti spesso colpisce più facilmente che la sensazione di essere benedetti.
Dobbiamo riscoprire il senso e la bellezza della benedizione.
E quando le cose sono difficili e la vita è pesante ricordati chi sei: sei una persona speciale, sei profondamente amato dii Dio e da tutte le persone che sono con te.

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La mano e la sabbia
(Bruno Ferrero, L'importante è la rosa)


Giorgio, un ragazzo di tredici anni, passeggiava sulla spiaggia insieme alla madre.
Ad un tratto le chiese: "Mamma, come si fa a conservare un amico quando fmalmente si è riusciti a trovarlo?".
La madre meditò qualche secondo, poi si chinò e prese due manciate di sabbia. Tenendo le palme rivolte verso l'alto, strinse forte una mano: la sabbia le sfuggì tra le dita, e quanto più stringeva il pugno, tanto più la sabbia sfuggiva.
Tenne invece ben aperta l'altra mano: la sabbia vi restò tutta.
Giorgio osservò stupito, poi esclamò: "Capisco".

Dietro un 'immaginetta della Madonna, dimenticata in un santuarietto di montagna, ho trovato la "Preghiera dell 'accoglienza". Eccola:
Signore, aiutami ad essere per tutti un amico,
che attende senza stancarsi,
che accoglie con bontà,
che dà con amore,
che ascolta senza fatica,
che riti grazia con gioia,
Un amico che si è sempre certi di trovare
quando se ne ha bisogno.
Aiutami ad essere una presenza sicura,
a cui ci si può rivolgere
quando lo si desidera,
ad offrire un'amicizia riposante,
ad irradiare una pace gioiosa,
la tua pace, o Signore.
Fa' che sia disponibile e accogliente
soprattutto verso i più deboli e indifesi.
Così senza compiere opere straordinarie,
io potrò aiutare gli altri a sentirti più vicino,
Signore della tenerezza.

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L'uovo
(Bruno Ferrero, Quaranta storie nel deserto)

Una donna, che non aveva grandi risorse economiche, trovò un uovo. Tutta felice, chiamò il marito e i figli e disse: "Tutte le nostre preoccupazioni sono finite. Guardate un po': ho trovato un uovo! Noi non lo mangeremo, ma lo porteremo al nostro vicino perché lo faccia covare dalla sua chioccia. Così presto avremo un pulcino, che diventerà una gallina. Noi naturalmente non mangeremo la gallina, ma le faremo deporre molte uova, e dalle uova avremo molte altre galline, che faranno altre uova. Così avremo tante galline e tante uova. Noi non mangeremo né galline né uova, ma le venderemo e ci compreremo una vitellina. Alleveremo la vitellina e la faremo diventare una mucca. La mucca ci darà altri vitelli, finchè avremo una bella mandria. Venderemo la mandria e ci compreremo un campo, poi venderemo e compreremo, compreremo e venderemo".
Mentre parlava, la donna gesticolava. L'uovo le scivolò di mano e si spiaccicò per terra.

I nostri propositi assomigliano spesso alle chiacchiere di questa donna: "Farò... Dirò... Rimedierò...". Passano i giorni e gli anni, e non facciamo niente.

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La cisterna screpolata
(Bruno Ferrero, Quaranta storie nel deserto)

Erano due cisterne a distanza di qualche decina di metri. Si guardavano e, qualche volta, facevano un po' di conversazione.
Erano molto diverse.
La prima cisterna era perfetta. Le pietre che la formavano erano salde e ben compaginate. A tenuta stagna. Non una goccia della preziosa acqua era mai stata persa per causa sua.
La seconda presentava invece fenditure, come delle ferite, dalle quali sfuggivano rivoletti d'acqua.
La prima, fiera e superba della sua perfezione, si stagliava nettamente. Solo qualche insetto osava avvicinarsi o qualche uccello.
L'altra era coperta di arbusti fioriti, convolvoli e more, che si dissetavano all'acqua che usciva dalle sue screpolature. Gli insetti ronzavano continuamente intorno a lei e gli uccelli facevano il nido sui bordi.
Non era perfetta, ma si sentiva tanto tanto felice.

Abbiamo bisogno di credere nella perfezione e di avere il coraggio dell'imperfezione. Viviamo in un mondo in cui la perfezione si confonde con lo sforzo per essere "superiori", "i primi", "essere al centro", "essere qualcuno". L'unica perfezione è l'amore. Soltanto così è possibile comprendere le parole di Gesù: "Siate perfetti com'è perfetto il Padre vostro celeste" (Matteg 5,48) che vengono dopo le beatitudini dei poveri, di quelli che piangono, dei miti, di quelli che hanno fame e sete di giustizia, dei misericordiosi, dei puri di cuori, dei pacificatori e dei perseguitati (ingiustamente) a causa della giustizia.
Chi vive a braccia aperte, di solito, non fa carriera, ma trova tanta gente da abbracciare.

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I tre figli
(Bruno Ferrero, Solo il vento lo sa)

Tre donne andarono alla fontana per attingere acqua. Presso la fontana, su una panca di pietra, sedeva un uomo anziano che le osservava in silenzio ed ascoltava i loro discorsi.
Le donne lodavano i rispettivi figli.
"Mio figlio", diceva la prima, "è così svelto ed agile che nessuno gli sta alla pari".
"Mio figlio", sosteneva la seconda, "canta come un usignolo. Non c'è nessuno al mondo che possa vantare una voce bella come la sua".
"E tu, che cosa dici di tuo figlio?", chiesero alla terza, che rimaneva in silenzio.
"Non so che cosa dire di mio figlio", rispose la donna. "E' un bravo ragazzo, come ce ne sono tanti. Non sa fare niente di speciale...".
Quando le anfore furono piene, le tre donne ripresero la via di casa. Il vecchio le seguì per un pezzo di strada. Le anfore erano pesanti, le braccia delle donne stentavano a reggerle.
Ad un certo punto si fermarono per far riposare le povere schiene doloranti.
Vennero loro incontro tre giovani. Il primo improvvisò uno spettacolo: appoggiava le mani a terra e faceva la ruota con i piedi per aria, poi inanellava un salto mortale dopo l'altro.
Le donne lo guardavano estasiate: "Che giovane abile!".
Il secondo giovane intonò una canzone. Aveva una voce splendida che ricamava armonie nell'aria come un usignolo.
Le donne lo ascoltavano con le lacrime agli occhi: "E un angelo!".
Il terzo giovane si diresse verso sua madre, prese la pesante anfora e si mise a portarla, camminando accanto a lei.
Le donne si rivolsero al vecchio: "Allora che cosa dici dei nostri figli?".
"Figli?", esclamò meravigliato

"Li riconoscerete dai loro frutti" (Matteo 7,16).

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Fortezze ma non di pietra
(Bruno Ferrero, A volte basta un raggio di sole)

C'era una volta un sovrano potente. Sapeva che il numero dei giorni che gli restavano da vivere diminuiva inesorabilmente. Che cosa sarebbe diventato il suo bel impero, quando sarebbe stato costretto ad abbandonarlo con tutti i nemici che lo circondavano da ogni lato? Che avrebbe potuto fare il giovane principe, quel figlio troppo giovane e inesperto che il sovrano aveva avuto, ahimè, in tarda età? Dove poteva rifugiarsi? Chi lo avrebbe protetto? Questi pensieri tormentavano il vecchio re, tanto che un giorno disse al principe: «Figlio mio, io non regnerò più per molto tempo e ignoro ciò che accadrà dopo la mia morte. Ci sono molti nemici intorno al trono. Ho tanta paura per l'impero che ho costruito e anche per te. Morirei tranquillo se sapessi che hai un rifugio sicuro che ti protegga in caso di pericolo. Per questo ti consiglio di andare per il regno e di costruire fortezze in tutti gli angoli possibili, per tutti i confini del paese». Obbediente, il giovane si mise immediatamente in cammino. Percorse tutto il Paese, per monti e per valli, e dove trovava il posto conveniente, faceva costruire grandi fortezze solide e imponenti.
Le fortezze sorsero nelle profondità delle foreste, nelle valli più nascoste, sulla sommità delle colline, nei deserti, in riva ai fiumi e sui fianchi delle montagne. Questo costò molto denaro, ma il principe non badava a spese: erano in gioco la sua vita e il suo trono.
Dopo un certo tempo, il giovane ritornò nel palazzo del re suo padre. Stanco, dimagrito, ma soddisfatto d'aver portato a termine il compito, corse a presentarsi dal padre.
«Ebbene, figlio mio, com'è andata? Hai fatto ciò che io ti avevo detto?" gli domandò il re.
«Sì, padre», rispose il principe. «In tutto il paese si innalzano fortezze imprendibili: nei deserti, sulle montagne, nel profondo delle foreste». Ma il vecchio re, il più potente che la storia abbia mai conosciuto, invece di congratularsi con il figlio per tutti i suoi sforzi, scuoteva la testa come in preda ad un forte dispiacere.
«Non è questo, figlio mio, che avevo in mente io. Devi tornare indietro e ricominciare», disse. «Le fortezze che tu hai costruito non ti proteggeranno assolutamente in caso di pericolo: tu sarai solo e non per quei muri e quelle pietre potrai sfuggire alle imboscate e alle trappole dei tuoi nemici. Tu devi costruirti dei rifugi nel cuore delle persone oneste e buone. Devi cercare queste persone, e guadagnarti la loro amicizia: soltanto allora saprai dove rifugiarti nei momenti difficili. Là dove un uomo ha un amico sincero, là trova un tetto sotto cui ripararsi».
Il principe si rimise in cammino. Non più per i deserti, i dirupi, le foreste selvagge, ma per andare verso la gente, tra loro, per costruire dei rifugi come immaginava suo padre, il vecchio re pieno di saggezza.
E questo richiese molti più sforzi e fatiche.
Ma il principe non li rimpianse mai.
Perché, quando dopo un certo tempo il vecchio sovrano si spense e lasciò questo mondo, il principe non aveva più nessun nemico da temere.

Un giorno, una giovane donna ricevette una dozzina di rose con un biglietto che diceva: "Una persona che ti vuole bene».
Senza però la firma.
Non essendo sposata, il suo pensiero andò agli uomini della sua vita: vecchie fiamme, nuove conoscenze. Oppure erano stati la mamma e il papà? Qualche collega di lavoro? Fece un rapido elenco mentale. Infine telefonò a un'amica perché l'aiutasse a scoprire il mistero.
Una frase dell'amica le fece all'improvviso balenare un'idea.
"Di', sei stata tu a mandarmi i fiori?".
"Sì".
"Perché?".
"Perché l'ultima volta che ci siamo parlate eri di umor nero. Volevo che trascorressi un giorno pensando a tutte le persone che ti vogliono bene".
E tu, quante fortezze hai costruito oggi?

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Storia triste
(Bruno Ferrero)

Un giorno, un re, per punire suo figlio lo mandò in esilio in un paese lontano. Il principe soffrì la fame e il freddo, perse la speranza di ottenere il perdono reale.
Passarono gli anni.
Un giorno, il re inviò al figlio un ambasciatore con l'ordine di esaudire tutti i suoi desideri, tutte le sue aspirazioni.
L'ambasciatore lo disse al principe, che lo guardò stupito e rispose soltanto: «Dammi un pezzo di pane e un cappotto caldo».
Aveva completamente dimenticato che era un principe e che poteva ritornare nel palazzo di suo padre a vivere da re.

Non è questa la triste storia di tanti nostri contemporanei che hanno dimenticato di essere Figli di Dio?
Il Salmo 16 (15) ci insegna una bellissima preghiera:
«Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto al Signore: sei tu il mio Dio:
fuori di te non ho altro bene.
Un tempo adoravo gli dèi del paese,
confidavo nel loro potere.
Ora pensino altri a fare nuovi idoli,
non offrirò più a loro
il sangue dei sacrifici,
con le mie labbra non dirò più
il loro nome.
Sei tu, Signore, la mia eredità».

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E' arrivato un mostro!
(Bruno Ferrero, Nuove storie)

Il paese di Dolceacqua era il più sereno e pacifico della terra. Come scrivono nei loro libri gli scrittori, era un paesino davvero "ridente". Tutto procedeva bene finché una notte blu, per le vie deserte, si sentì uno strano "toc toc, toc toc, toc toc...", accompagnato da un ansimare cupo e raschiante. Solo qualche coraggioso si affacciò alla finestra.
Un bisbigliare concitato cominciò a rincorrersi dietro le persiane.
"E' un forestiero".
"Un gigante...".
"Mamma mia, quant'è brutto!".
"Ha l'aria feroce...".
"E' un mostro! Divorerà i bambini".
Lo sconosciuto camminava curvo sotto il peso di un grosso sacco. Aveva gli occhi gialli, la barba irsuta e verde, le unghie lunghe e curve. Ogni tanto era costretto a fermarsi per soffiarsi il naso: doveva avere un terribile raffreddore. Ecco perché ansimava e tossiva come un vecchio mantice sforacchiato.
C'era, al fondo del paese, a due passi dal bosco, una profonda caverna nera. Il mostro, non trovando niente di meglio, ci si installò.
Nell'osteria del paese si riunirono il giorno dopo tutti, anche le nonne, le mamme e i bambini.
"Io l'ho visto bene e da vicino: è terribile".
"L'ho guardato negli occhi: fanno paura".
"Sputa fiamme dalle narici!".
"Io ho sentito il suo ruggito: tremo ancora tutta" gorgheggiò Maria Rosa, la più bella ragazza del paese. Tutti i giovanotti sospirarono.
"E' il diavolo" disse una nonna.
"Ma che diavolo! E' un orco mangia-uomini... poveri noi!", singhiozzò una vecchietta.
"Bhé, se mangia gli uomini, tu non dovresti preoccuparti!" sghignazzò Battista, il buffone del villaggio.
"Io l'ho visto da vicino vicino" disse Simone, un ragazzetto di dodici anni.
"Anch'io, ero con lui" gli fece eco la sorellina Liliana.
"Ecco, anche i bambini" brontolò Sebastiano, il sindaco. "E dite, ditelo voi, come era quel mostro. Faceva paura, non è vero?".
"No" disse Simone.
"Non faceva paura" disse Liliana. E aggiunse: "Era solo diverso da noi".
Se ne andarono tutti a casa e, mentre camminavano in fretta per le strade silenziose, avevano una gran paura di incontrarsi faccia a faccia con il mostro. Sbirciavano in su, verso il bosco. Dove si intravedeva la gran bocca nera della caverna in cui era andato ad abitare il mostro.
Proprio in quel momento, ingigantito dall'eco della caverna, si udì un tremendo, roboante starnuto.
"E' il mostro! Aiuto!", e strillando a più non posso tutti si rifugiarono in casa e chiusero a tripla mandata tutte le serrature che trovarono.
Le mamme rimboccarono le coperte ai bambini.
"Non abbiate paura, qui siamo al sicuro". I papà chiusero le finestre e misero un robusto randello dietro alla porta.
"Se osa venire da queste parti, dovrà vedersela con noi".
Nei giorni seguenti, a Dolceacqua, la vita riprese normalmente. I papà e le mamme al lavoro, i bambini a scuola, Maria Rosa davanti allo specchio a mettere i bigodini ai suoi bei capelli color del grano. I giovanotti la sbirciavano e sospiravano.
Quasi tutti si erano dimenticati del mostro, che, a onor del vero, non dava fastidio a nessuno. Solo, ogni tanto, si udiva un rumore terribile.
La gente diceva; "Tò, il mostro starnuta, S'è di nuovo raffreddato", e tornavano alle loro occupazioni.
Un giorno un camion carico di mattoni passò troppo velocemente su una buca della strada e perse due mattoni. Tommaso, un ragazzino che passava di là, si fermo e ne raccolse uno. Samuele, un suo amico che usciva dalla scuola, dove si era fermato a finire i compiti, lo vide. "Ehi, Tom! Che cosa vuoi fare con quel mattone?".
"Ho voglia di andare a tirarlo sulla testa del mostro che abita la caverna nera. Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese".
Samuele replicò ridendo: "Scommettiamo che non hai il coraggio?".
Ma Tommaso se ne andava tutto impettito con il suo mattone in mano.
Samuele raccolse l'altro mattone: "E' vero, non abbiamo bisogno di quel mostro, qui. Aspettami, Tom, vengo con te".
Tommaso disse: "D'accordo, ma l'idea è stata mia e sono io che tirerò il primo mattone!".
Un contadino appoggiato alla staccionata del suo prato li vide passare: "Dove andate?".
Tommaso spiegò: "Andiamo a buttare questi mattoni sulla testa del mostro che abita lassù, nella caverna nera".
Il contadino disse: "Per me non avrete il coraggio. E poi, come farete a far uscire il mostro dalla caverna? E' sempre rintanato dentro e lo si sente solo starnutire qualche volta".
"Griderò: 'Vieni fuori, mostro!'. Dovrà ben uscire", dichiarò Tommaso.
Il contadino borbottò: "Aspettate un attimo, ho un mattone che mi serve a tener aperta la porta; lo prendo e vengo con voi. Non abbiamo bisogno di mostri qui".
Tommaso, Samuele e il contadino se ne andarono insieme con un mattone sotto il braccio. Passarono accanto all'orto della signora Zucchini.
"Dove andate?" chiese la signora Zucchini quando li vide.
"Andiamo a gettare questi mattoni sulla testa del mostro che abita nella caverna nera" rispose Tommaso.
La signora Zucchini sogghignò: "Non ne avrete il coraggio. Dicono che sia orribile e peloso. E poi, dopotutto, non dà fastidio a nessuno".
Tommaso e Samuele protestarono: "Non importa, non abbiamo bisogno di un mostro qui".
"Scapperà come un coniglio e noi diventeremo gli eroi del paese" aggiunse il contadino.
"Vengo anch'io" decise la signora Zucchini. "Ho qualche mattone in un angolo; chiamerò anche i miei sette figli: voglio che anche loro siano degli eroi".
Quando i sette bambini arrivarono, il più grande domandò: "Non c'è nessuno che voglia abitare nella caverna nera: perché non la lasciamo al mostro?".
La madre gli rispose: "Perché è un mostro, tutto qui. Allora taci, prendi un mattone e seguici".
Piano piano si formò una lunga coda di gente con un mattone in mano. Chiudeva la fila il maestro con tutti i bambini della scuola. Il sindaco ordinò che tutti gli abitanti di Dolceacqua prendessero un mattone dal vicino cantiere e si mettessero in marcia per tirarlo sulla testa del mostro che abitava nella caverna nera.
"Lo faremo scappare nel paese vicino" gridò la signora Zucchini. "L'abbiamo tenuto abbastanza, noi! Che vada a disturbare gli altri, adesso!".
Tutti gridarono: "Urrà, bene! Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese".
E si misero in marcia verso la caverna nera.
Proprio quel giorno, il mostro aveva deciso di pigrottare un po' di più a letto e di terminare il suo libro preferito, facendo colazione con succo d'arancia e due uova al tegamino.
Improvvisamente sentì un rumore di passi e il vociare di persone che si avvicinavano e pensò: "Finalmente una visita! E' tanto tempo che sono solo!".
Saltò giù dal letto, si mise una camicia pulita e la cravatta, si lavò ben bene anche dietro le orecchie e si pulì i denti con spazzolino e dentifricio. Poi aprì la porta e uscì, salutando tutti con un gran sorriso. Tutti gli abitanti di Dolceacqua si fermarono impietriti: Tommaso, Samuele, il contadino, la signora Zucchini e i suoi sette figli, i vicini, il sindaco, il maestro e i bambini della scuola. Sembravano delle belle statuine.
Il mostro sorrise ancora e li invitò: "Entrate, entrate. Ho appena fatto il caffè". Tutti i suoi denti brillavano, ne aveva tanti e molto appuntiti. Il mostro insisteva: "Entrate, per piacere, sono così contento di vedervi!".
Ma nessuno capiva la lingua del mostro. Sentivano solo dei terribili grugniti e dei suoni che facevano accapponare la pelle. Lasciarono cadere i mattoni e se la diedero a gambe, correndo a più non posso.
Nella confusione la piccola Liliana si prese una brutta storta alla caviglia, ma nessuno senti il suo "Ahia!". Erano tutti troppo occupati a fuggire.
Così il mostro si trovò, un po' imbarazzato, a contemplare un mucchio di mattoni e una bambina con i lacrimoni perché aveva male alla caviglia.
Il mostro corse in casa e prese la valigetta del pronto soccorso. In quattro e quattr'otto, spalmò sulla caviglia di Liliana la pomata "Baciodimamma" che fa guarire tutto, la fasciò con cura e asciugò le lacrime della bambina.
Intanto gli abitanti erano arrivati ansimanti nella piazza centrale. Non ebbero tempo di riprendere fiato. Una voce gridò: "Il mostro ha preso Liliana!".
"Se la mangerà" strillò la signora Zucchini.
"Corriamo a liberarla" disse un coraggioso. Ripresero tutti la strada della caverna nera. Ben decisi stavolta a liberare la piccola Liliana. Quando arrivarono trovarono il mostro e Liliana che giocavano a dama, ridendo, scherzando e bevendo una cioccolata calda dal profumo delizioso.
"Ooooh" dissero tutti insieme.
"Ah! Siete tornati, meno male", disse il mostro. "Non ero riuscito a ringraziarvi del vostro splendido regalo. La caverna è umida e malsana e perciò sono sempre raffreddato. Con i mattoni che mi avete portato mi costruirò una bella casetta. Grazie, davvero, di cuore".
Chissà come, questa volta la gente capì il discorso del mostro.
E lo aiutarono tutti a costruire una graziosa casetta in fondo al paese.
Il più felice era Tommaso, che alla fine disse: "Avete visto che ho fatto uscire il mostro dalla caverna nera?"

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Lo scoiattolo Bernardo
(Bruno Ferrero, Tutte storie)

C'era una volta, nel parco di un vecchio castello, ormai diroccato, una grande, antica e generosa quercia. Proprio nella quercia, alla biforcazione di due rami, cinque allegri scoiattoli striati avevano costruito la loro casa.
La casa degli scoiattoli aveva sette capaci magazzini, spalancati come bocche di uccellini sempre affamati. Per tutta l'estate, gli scoiattoli non facevano che correre, giorno e notte, per riempirli di cibarie. Sapevano che l'inverno era lungo e crudele e dovevano affrontarlo con la dispensa piena, se volevano arrivare a vedere la primavera. Gli scoiattoli non si riposavano mai: si davano da fare freneticamente per raccogliere ed ammassare grano e noci, ghiande e bacche.
Lavoravano tutti. Tutti, tranne Bernardo.
Bernardo era uno scoiattolo dal musetto intelligente, le orecchie da filosofo, il pelame lucente e una bella coda folta. Ma mentre i suoi compagni correvano avanti e indietro trafelati con le zampine cariche di provviste, se ne stava assorto con il muso all'aria e gli occhi chiusi. «Bernardo, perché non lavori?», chiesero gli scoiattoli.
«Come, non lavoro», rispose Bernardo un po' offeso.
«Sto raccogliendo i raggi del sole per i gelidi giorni d'inverno».
E quando videro Bernardo seduto su una grossa pietra, gli occhi fissi sul prato, domandarono: «E ora, Bernardo, che fai?».
«Raccolgo i colori» rispose Bernardo con semplicità. «L'inverno è così grigio».
Quattro scoiattolini correvano e correvano, sempre più affannati. I magazzini si riempivano di nocciole e bacche e squisitezze. Bernardo, invece, se ne stava accoccolato all'ombra di una pianta.
«Stai sognando, Bernardo?», gli chiesero con tono di rimprovero.
Bernardo rispose: «Oh, no! Raccolgo parole. Le giornate d'inverno sono tante e sono lunghe. Rimarremo senza nulla da dirci».
Venne l'inverno e quando cadde la prima neve, i cinque scoiattolini si rifugiarono nella loro tana dentro la grande quercia. I primi giorni furono pieni di felicità. Gli scoiattolini facevano una gran baldoria, mentre fuori fischiava il vento gelido. Suonavano le nacchere con i gusci di noce, cantavano e ballavano. E prima di dormire con il pancino ben pieno si divertivano a raccontare storielle divertenti sugli allocchi allocchiti e sulle volpi rimbambite. Ma, a poco a poco, consumarono gran parte delle provviste. I magazzini si vuotarono uno dopo l'altro, finirono le nocciole, poi le ghiande (anche quelle amare), poi le bacche. Rimasero solo le radici meno tenere. Nella tana si gelava e nessuno aveva più voglia di chiacchierare.
Improvvisamente si ricordarono dello strano raccolto di Bernardo. Del sole, dei colori, delle parole.
«E le tue provviste, Bemardo?», chiesero.
Bernardo si arrampicò su un grosso sasso e cominciò a parlare: «Chiudete gli occhi. Ora sentite i caldi, dorati raggi del sole che si posano sulla vostra pelliccia; sono lucenti, giocano con le foglie, sono colate d'oro...». E mentre Bernardo parlava, i quattro scoiattolini cominciarono a sentirsi più caldi. Che magia era mai quella?
«E i colori, Bernardo?», chiesero ansiosamente. «Chiudete gli occhi». E quando parlò dell'azzurro dei fiordalisi, dei papaveri rossi nel frumento giallo, delle foglioline verdi dell'edera, videro i colori come se avessero tanti piccoli campicelli in testa.
«E le parole, Bernardo?». Bernardo si schiarì la gola, aspettò un attimo, e poi, come da un palcoscenico, disse: «Nascosto nella corteccia di un albero, nel bel mezzo di una foresta meravigliosa, vive uno scoiattolo dal pelo rosso, lo sguardo brillante e la coda a pennacchio. Questo straordinario scoiattoletto porta sul capo una corona di noci. È un genio: possiede certi poteri e conosce molti segreti.
Quando un coniglietto è ferito da un cacciatore, è il genio scoiattolo che dice qual è la pianta utile per guarire la ferita.
Quando un uccellino si rompe un'ala è il genio scoiattolo che gli applica un supporto di sottili aghi di pino perché possa volare ancora.
Ma la cosa che gli riesce meglio è guarire i cuori malati di tristezza e di paura. «Ci vogliono tante coccole, per vivere», dice il genio scoiattolo, «e tanta tenerezza. Perché tutte le creature del bosco sono come i fiorellini che appassiscono se non sono baciati dai raggi di sole. Quando un animaletto è triste, io faccio il raggio di sole. E lui riapre i petali del suo cuore».
Quando Bernardo tacque, i quattro scoiattolini applaudirono e gridarono: «Bernardo, sei un poeta».
Bernardo arrossì, si inchinò e disse modestamente: «Lo so, cari musetti».

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