(da sinistra: Michele Canzoneri, Marco Crescimanno, Teresa Burderi, Giovanni
Damiani, Adalgisa Badano)
Quel suono mi ascolta : non è esteriore
e indifferente, risponde a mie attese, vi corrisponda o meno, rendendomi
responsabile davanti a tutti dei suoi effetti su di me, e della memoria
di essi come modello di pensiero esteso all’esperienza.
Ricerca di armoniche, di rifrazioni nel suono come
suoni non prodotti ma ricevuti, cantati (Gaetano Costa sente gli armonici
del suo sax venirgli da dietro, e vedi le considerazioni sul canto di Gabriela
Cegolea); si opera all’interno dell’emissione, a stretto contatto con la
fisicità dell’io-strumento, lì si può trovare un dialogo
con altri ascoltanti.
L’ascolto e la produzione di armonici tendenzialmente
determinati e comuni a più eventi (siano in strumenti uguali o diversi,
in tempi e spazi vicini o lontani) conduce a uno spazio-tempo mentale,
a differenti percorsi della memoria e dell’immaginazione, a percezioni
diverse dell’udibile e del non udibile, del sé e dell’altro.
Propriocezione di ritmi mentali, dal livello più
astratto, numerico, ai ritmi fisici dell’esperienza. Varietà dei
corpi fisici e dei loro tipi di contatto, dalla percussione allo sfregamento,
in volo spaziale che si libera dalla gravità o in mortificante caducità:
tutto uno studio su ritmi zoppicanti, difettivi, e sulle loro differenze
(5 contro 6, 4 contro 5, oppure 15 come composto di 3 per 5 o 8+(8-1),
ecc.)
Gli strumenti: la “campana” che guida l’inizio, ritorna
più volte e conclude in una elaborazione digitale dal vivo, è
un pezzo di cisterna. Come certi ritmi ‘rigidi’, turgidi, usati spesso
nella danza, chissà perché, i suoi suoni poco malleabili,
fissi e passivi sembrano rappresentare il puro esserci di un corpo solido,
quasi insensibile alle nostre sollecitazioni.
Il sax tenore, in Quel suono mi ascolta II,
utilizza quasi solo aggregati multifonici, che sono anch’essi un materiale
‘duro’, irriducibile a leggi armoniche e piani compositivi; esso viene
affrontato in tutta la sua precarietà, quasi anticipandola, creando
un reticolo di esplorazioni di spazi, risonanze, possibili eccitazioni
di una materia spesso ribollente, in cui l’elemento più transitorio
acquista lo stesso interesse di quelli più prevedibili, a somiglianza
delle innumeri particelle nucleari più instabili, che possono dirci
tanto della struttura della materia.
Il pianoforte sembrerebbe avere cattivo gioco in
tale estetica del timbro; un tempo forte guida dell’evoluzione del pensiero,
oggi svantaggiato, chiuso nell’armatura di ghisa costruita per avere maggiore
potenza. Da pianista, mi chiedevo come ottenere dei pianissimi, dei decrescendo
paragonabili a quelli di una chitarra o di altro strumento più intimo
nella sonorità e nel contatto con le corde; improvvisamente ho smontato
la tastiera, ed estratto un martelletto, l’ho usato per percuotere le corde
all’intensità voluta, e nella zona voluta, ottenendo, oltre alla
maggiore gamma dinamica, una libertà timbrica estrema, potendo passare
dal timbro normale del pianoforte ad altri molto diversi. Questo fu solo
l’inizio, perché fortuna volle che sfregai una corda col dietro
del martelletto, una sorte di uncino di legno, e da lì sorsero un
oceano di suoni più o meno ripetibili, di lamenti, stridii, cantabili
o ‘digestivi’, animaleschi, con risonanze in tutto il pianoforte. L’azione
è sempre quella di esplorare una corda per tutta la sua traiettoria
longitudinale, a varia pressione e velocità. Il risultato di quest’esperienza,
Quel
suono mi ascolta III, per nastro a sei piste e pianoforte amplificato
ad libitum.
Le seguenti ‘Diferencias’ fra jolle per due
pianoforti esplorano i possibili risultati di corde costrette a produrre
un armonico indicato, tramite pressione su un punto indicato della corda;
poiché le dita non bastano a coprire le gamme interessate da questa
‘preparazione’ dinamica del pianoforte (in contrapposizione a quella statica,
preventiva di Cage), si sono usati dei tergicristalli e la colorazione
delle corde secondo le sue frazioni principali. Per tutto questo si richiedono,
oltre a due pianisti, quattro assistenti alle corde e tergicristalli; i
pianisti suonano delle danze monodiche per friscaletto (flauto diritto
siciliano, che sulla conclusione del pezzo precedente accenna frammenti
di queste danze), per lo più in forma di ‘jolla’, tratte dal Corpus
di musiche popolari siciliane di Alberto Favara. Senza alcuna modifica
(tranne delle esitazioni temporali) esse vengono sovrapposte polifonicamente,
creando una libera ed espressiva ‘polidialetticità’ che trovo molto
mahleriana. A questa polifonia si aggiunge quella interna al timbro, controllata
dagli assistenti, che svuotano, soffocano e colorano le voci dello strumento,
come dei nuovi registri organistici molto più dinamici, e possono
trasformare le armonie consonanti in cozzi di armonici, e viceversa. Alcuni
assoli speciali del primo assistente traggono da due sole note (dominante
e tonica, o dominante e sopradominante) un’intera melodia siciliana, in
armonici. Il pezzo è dedicato a Paolo Emilio Carapezza.
Segue Quel suono mi ascolta IV, il pezzo di
maggior organico. Esso inizia con un assolo di Flauto dolce basso, che,
riprendendo l’ultima jolla dei pianoforti, riprende cantando nello strumento
quel che lo strumento ha appena suonato, creando una ‘caccia’ serrata,
un inseguimento nota contro nota, anche con cammini a ritroso. Nella
parte d’insieme gli strumenti si seguono l’un l’altro in partitura, richiamandosi
e completandosi a vicenda.
Conclude Variazioni su un timbro/accordo/accordatura,
per un solista che elabora dal vivo quel suono di campana che ha attraversato
come un filo gran parte delle musiche. Dal suono stesso vengono tratte
una scala, un accordo, peculiarità timbriche sottoposte a torsioni,
a deformazioni, a reificazioni del suono in senso tattile, dalle più
delicate alle più ruvide, a cammini nelle superfici del tempo e
dello spazio.