«Ricercando in ogni mia opera la massima
coerenza interna, è anche più agevole mettere in chiaro rapporto
ognuna di esse con le altre:
di Matrice-Organon, la mia prima opera — Spires
(1982) — anticipa l’uso dei suoni concreti più disparati, unificati
da una struttura geometrica (lì linee in movimento nello spazio,
qui serie di scale);
con un’altra opera giovanile — Zodiaco
(1984)— ha in comune l’uso esclusivo di suoni in serie armonica, senza
i liberi mutamenti di registro che si hanno in Proiettarsi in infinite
riflessioni (1990) e Riflettersi nelle pieghe del suono (1992),
dove le serie lineari di armonici diventano allo stesso tempo l’unico materiale
melodico (serie) di partenza per lo spiegamento del pezzo (come anche nell’opera
presente).
Anche in un pezzo con referenti più
concreti — Affidare tutto a una musica (1987-1991) — la datità
di una citazione di Schumann è inserita in un ostinato movimento
di caduta (fu “cadenza”), di continua rivoluzione e annichilimento in nude
scale incrociantesi.
In diversi miei lavori, la passione per
la musica di tradizione orale siciliana, attinta in vario modo, è
combinata con la passione intellettuale per la costruzione, seriale, contrappuntistica
o motivica, secondo la situazione. Nell’uso dell’elettronica
dal vivo, con Variazioni su un timbro/accordo/accordatura (1993), elaborazioni
su un singolo suono distribuite da un solista nello spazio quadrifonico,
cerco una coincidenza tra economia di pensiero, di tecnica, e la “infinita”
varietà che da esse può sgorgare; quest’opera amplia inoltre
l’uso di microintervalli, fino ad allora limitati per lo più ai
quarti di tono, cercandoli, meno astrattamente, nel timbro stesso.
Essere disponibili all’ascolto di qualsiasi fonte
(sonora) e sugli infiniti ascolti possibili che di essa possono essere
fatti: questo crea una nuova percezione e immaginazione sul mondo e sulla
idea di natura. Con questo presupposto, sia passeggiando che andando “a
caccia” di eventi, si possono fare scoperte che confermano e disarticolano
la propria esperienza. Nel campo sonoro, dal caotico brusio quotidiano
la cultura ha tratto, come elemento più familiare, la nota intonata,
e ha tratto dalla sua struttura un modello di ordine e di logica. Vi sono
numerosi oggetti sonori che possono produrre in successione temporale una
serie di suoni analoga a quelli che, percepiti in coincidenza temporale,
danno l’impressione di una nota intonata: per tutti i fiati questa è
la tecnica consueta, oppure basta sfiorare qualsiasi corda in tutta la
sua estensione per ottenere serie simili (cosa che fecero i pitagorici,
alle origini della cultura europea, per fondare teoricamente le nostre
scale). L’evoluzione degli strumenti orchestrali è andata contro
questa comune base della suddivisione armonica del corpo vibrante, con
un sempre maggiore uso di artifici azionati dalle dita, per dotare tutti
gli strumenti di un nuovo “comun denominatore”, il sistema temperato. L’evoluzione
è graduale e non senza momenti dialettici di imperfezione o nostalgia:
chi non ha sentito in un corno naturale l’evidente contrasto con l’intonazione
temperata degli altri strumenti? Donde l’uso, da parte di Mahler, del corno
da postiglione (“strumento meravigliosamente incapace di ripetere due volte
una melodia senza errori” — cito a memoria) come quintessenza della naturalità.
La mia idea, a livello strumentale, è di un uso esclusivo di suoni
armonici, articolati senza i consueti artifici: i fiati non muovono le
dita, concentrandosi sul controllo esclusivo dell’emissione, gli archi
non usano né posizioni, né vibrato, ma producono armonici
sfiorando le corde con le dita o con inconsueta leggerezza d’arco. Il risultato
è molto più insicuro delle consuete note, ma anche molto
più legato timbricamente, sia all’interno dello strumento, che nel
rapporto con gli altri strumenti: con questi armonici naturali infatti
i contrabbassi ricordano i corni, che somigliano al controfagotto... A
questi suoni si aggiungono quelli che escono dagli altoparlanti, che completano
l’itinerario timbrico, fungendo da cornetto acustico, finestra da cui entrano
fenomeni più deboli, verso cui si è ancora più sordi,
tratti da strumenti musicali o da oggetti trovati per strada che danno
ulteriori versioni di questo spiegamento di armonici, in un certo senso
la storia latente e non percorsa degli strumenti e del loro uso codificato.
(Certi oggetti, come tubi di plastica, i muri,
sono usati sia come strumenti attivi che come risuonatori che rendono intonata
un’eccitazione non intonata).
Dal punto di vista matematico, questi armonici
sono semplicemente i multipli del suono più grave prodotto dal corpo
vibrante; quando uno strumento riproduce nel tempo questa serie di armonici,
espone la melodia più coerente con la sua struttura timbrica, autoreferente,
creando multipli di questi multipli: è quello che si può
vedere nella tabellina pitagorica, le cui righe e colonne, identiche tra
loro, mostrano i multipli dell’unità e dei suoi multipli.
Questa è la matrice del pezzo, che organizza
i dati strumentali in forma logica (organon significa sia ‘strumento che
“logica”). In questa tabella bidimensionale (una dimensione è la
nota fondamentale, un’altra l’armonico che di essa viene isolato, e le
due sono intercambiabili), oltre alle righe e alle colonne si possono studiare
le proprietà delle diagonali, da quella principale dei numeri quadrati,
a quelle simmetriche dei numeri triangolari e derivati, e a quelle perpendicolari
inversamente proporzionali (scale che ritornano sistematicamente su se
stesse). Ogni accordo, melodia, strato polifonico è una lettura
di linee o piani di questa matrice che, rivista secondo un’altra prospettiva,
dà un risultato diverso eppure simile, essendo sempre leggibile
(e spero udibile) qualsiasi nota come appartenente sia a una riga e colonna
(serie armoniche, in genere prodotte come tali dagli strumenti), sia ai
due gruppi perpendicolari di diagonali, quello tendente all’infinito e
quello ripiegato su se stesso, che acquistano valenza di soggetti, individui
con fisionomia e proprietà più complesse. Una simile unitarietà
di armonia, melodia e polifonia si collega a ciò cui sempre tesero
Josquin, Bach, Beethoven o Webern, per fare degli esempi, sia attraverso
procedimenti rigorosi, che con un lavoro microcellulare, dall’intimo degli
elementi musicali.
Una perplessità che riconosco di avere
avuto è che una scrittura così cristallina e coerente si
può avere solo con suoni che possono essere percepiti come copie
“stonate” di elementi modali e tonali (anziché loro presupposto
fisiologico e matematico); i suoni più gravi, che sono quelli in
rapporto più semplice con la fondamentale, ricordano un Do maggiore
anche troppo semplice, il che dopotutto è sempre meglio del minore-dorico,
ipocrita e demagogico, che minimalisti e neoromantici spacciano come nuova
comunicatività. Come diceva Schoenberg, si può scrivere ancora
buona musica in Do maggiore, se ha dei buoni motivi per essere scritta.»