Anch'io voglio crescere: amore e sessualità nel handicap

Gruppo Biblico di Evangelizzazione




ANCH'IO VOGLIO CRESCERE:
amore e sessualità nel handicap


Introduzione

Oggi, più che mai, il disabile rivendica il suo diritto a crescere, a scrollarsi di dosso lo stereotipo diffuso che lo vuole eterno bambino, per raggiungere la massima autonomia possibile in tutti i campi e diventare finalmente persona.
Questi articoli vogliono evidenziare come ciò sia possibile, come le istituzioni, pubbliche e private, possano svolgere un lavoro di effettivo cambiamento che permetta al disabile di inserirsi a pieno titolo e diritto nella società.
Riflessioni teoriche, frutto di anni di studio, s’intrecciano ad esperienze lavorative, nel campo del sociale, con svariate tipologie di utenze nel corso degli anni..
Educazione significa cambiamento, progettare significa non accettare l’esistente così com’è, ma vuol dire creare le effettive premesse per un cambiamento del soggetto, significa porsi un’ottica che non sia quella del parcheggio e del contenimento..
Questa dovrebbe essere l’ottica nella quale un educatore dovrebbe muoversi, ricerca accurata dei bisogni degli utenti per riuscire a costruire progetti individuali e collettivi connotati da uno spessore educativo che va oltre un atteggiamento assistenziale.
Spesso invece si tende a privilegiare situazioni di comodo, accontentare la famiglia sistemando il soggetto in qualunque realtà, purchè ciò crei meno problemi possibili, di convenienza o urgenza..ma questo non facilita il percorso di autonomia del soggetto che per un reale cambiamento ha bisogno di essere considerato nella sua interezza.
Il vissuto affettivo e sessuale è un aspetto molto importante per i soggetti portatori di handicap, come lo è per tutti gli individui, che ha confini molto sfumati, ma talvolta scomodi da affrontare sia da parte delle famiglie, sia da parte degli educatori..
Perciò pensare che il disabile non ha esigenze sessuali è certamente una “tranquillità” per tutti.
Ma questa sfera ha solo una dimensione diversa che va rispettata e capita.
Questo è ciò che in questi articoli ho cercato di analizzare..

Vorrei partire da un presupposto preciso: l’handicappato non è e non deve essere un eterno bambino, e per questo è necessario rimuovere quell’ostinato divieto sociale e culturale ad andare verso il mondo dei “grandi”.
Questo è l’elemento fondamentale di partenza di una realtà molto evidente, quale è uno stereotipo naturale che proviene dalla famiglia ma anche dalle istituzioni che affidano gli utenti ai Centri di socializzazione o alle case famiglia.
Spesso l’utente arriva in questi Centri con una visione di sé legata ad un’immagine riflessa in uno specchio ed il suo riflesso porta a confermare o disdire quanto osserva del suo aspetto.
Tale immagine di sé gli proviene dal ruolo che gli ha affidato la società e da quello che la famiglia ha voluto, consciamente o inconsciamente, che egli fosse. 
Il progetto che sta alla base dell’azione educativa deve essere un progetto di cambiamento, volto a ricreare una nuova immagine di sé, facendo sorgere nuovi bisogni e reinterpretando quanto recitano i documenti ufficiali.
L’azione educativa deve essere indirizzata non solo all’utente, ma a tutto ciò che lo circonda e determina l’immagine di sé nello specchio e cioè la famiglia e il territorio dove egli si muove.
L’educatore, anzi l’equipe di educatori, svolge un ruolo fondamentale in questo senso, lavorando su tre elementi fondamentali:
1. il soggetto;
2. la famiglia; 
3. l’ambiente.

Il soggetto. L’utente, che è il soggetto, entra nella realtà del Centro di socializzazione, con la sua storia da reinventare, con i dati della tipologia del suo handicap rilevati dalle cartelle fornite dalle ASL di appartenenza, con l’esperienza spesso di altri centri in cui è stato inserito, con la sua identità di eterno bambino (questo vale per il sedicenne, come per il quarantenne).
Egli non conosce a fondo i suoi bisogni, per lo più ridotti all’essenziale, e legati ad una vita vissuta in una nicchia protettiva che lo rende spesso tagliato fuori dalla realtà esterna.
Va dunque costruita, o ricostruita, la sua autonomia, le sue modalità, di relazionarsi con gli altri, il suo sapersi muovere nel reale.
E’ nella sfera globale dell’individuo che si può realizzare un cambiamento che porti ad una dimensione di vita per il soggetto portatore di handicap; esso non deve essere la fotocopia di una normalità che non esiste, ma un modo di vivere che rispetti le varie esigenze dell’individuo senza che ciò comporti separazione, scandalo, o, peggio ancora, pietà o commiserazione.
Il soggetto deve imparare a vivere se stesso con serenità, senza paura e con responsabilità e autocoscienza, cessando di essere un eterno bambino che non potrà mai crescere.
E’ il concetto di “mancata crescita” che va messo in discussione, non il comportamento del soggetto, anzi spesso siamo noi “normodotati” ad avere da imparare da chi in questo senso ha una maggiore sensibilità.

La famiglia. Il rapporto con la famiglia è uno dei punti cardine di un lavoro educativo volto al cambiamento, perché senza la collaborazione della famiglia ogni azione educativa rivolta ad un reale cambiamento del soggetto, non realizza completamente nessun progetto educativo.
Gli atteggiamenti della famiglia sono i più svariati, si passa dal rifiuto della menomazione del figlio, al suo contrario, con l’esasperazione della menomazione, ma quasi sempre scatta il meccanismo della non accettazione del cambiamento e dell’autonomia.
Per questo è necessario che ci sia un lavoro costante con le famiglie, ed è fondamentale che i genitori si sentano coinvolto nella vita dei Centri, perché abbiano la possibilità di non sentirsi soli con i propri problemi e possano confrontarsi con gli altri, con altre realtà anch’esse marginali e emarginate.
L’ambiente. L’ambiente è l’altro grande protagonista del processo educativo e da esso dipende la vera possibilità di cambiamento.
Non si può non tenerne conto, poiché non si può cambiare la percezione che il soggetto portatore di handicap ha in sé, se l’ambiente non lo accetta per quello che è, senza rifiuto, ma anche senza pietismo e soprattutto senza paura.
E’ infatti proprio la paura del diverso del proiettarsi in esso, dell’ammettere che è parte di ognuno di noi, che crea  marginalità e quindi emarginazione. 
Anche l’ambiente deve essere educato.
E sono proprio gli utenti stessi che fungono da fonti educative per l’ambiente, i vicini di casa, i negozianti, per i passeggeri in autobus…
Gli educatori con il fondamentale aiuto dei loro utenti, devono far capire ai negozianti che anche un handicappato sa fare la spesa, sa usare i soldi e non ha bisogno della caramella in regalo o del pezzettino di schiacciata, come si fa di solito con i bambini dei clienti.
Solo così l’handicappato comincia a non essere più tale, ma semplicemente un disabile che nonostante la sua menomazione sa muoversi, sa essere uno come gli altri.
 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 



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