La realtà capitalistica

Gruppo Biblico di Evangelizzazione




La realtà capitalistica


AVVERTENZA:
In questa sezione di articoli vogliamo affrontare alcuni sistemi economico-politici, in particolare il liberalismo e il socialismo per giungere infine alla dottrina sociale cristiana. I cristiani non sono esenti dalla politica, perchè sono chiamati ad esprimere scelte di libertà e giustizia incarnate e non eteree. Ogni volta che esprimiamo una opinione facciamo politica. Fare politica non significa necessariamente occuparsi dei movimenti partitici! E noi non lo faremo,

In questa sezione dunque non ci occuperemo di partiti, ma di qualcosa di più importante: le idee di fondo dei più importanti sistemi politici nati nella storia per comprendere in che modo possiamo creare una società più giusta, più libera e più serena.




 

Il capitalismo nasce come corrente economica direttamente dal liberalismo. Si potrebbe dire che il capitalismo è la forma più estrema del liberalismo, quella che ripone la felicità dell’uomo nel possesso, nell’accumulo di capitale. Oltre che una forma di ordinamento economico il capitalismo costituisce anche un modo di pensare, un “modus vivendi”. Il capitalismo ha in qualche modo permeato le nostre menti fino al punto di indurci a pensare che, nonostante i suoi difetti, non è possibile costituire una società in modo diverso da quella capitalistica. Secondo il comune “pessimismo” che pervade la nostra società anche nelle menti migliori, l’unica cosa da fare è cercare di correggere le storture dell’ordinamento capitalistico, mitigarne le forme estreme di sfruttamento, di collasso. Ma pochi sono coloro che pensano ad una società con basi economiche e politiche completamente diverse.

 

Nato da una nuova forma di “umanesimo”, di massimizzazione delle capacità individuali dell’essere umano, il capitalismo ha finito con il mettere al centro il mercato, il capitale.

 

I padri spirituali del capitalismo economico erano tutt’altro che degli sfruttatori privi di coscienza. Raramente si sono poste speranze così grandi, quasi pseudo-teoloche, sull’economia come all’inizio dell’era industriale. I vecchi liberali credevano con un ottimismo commovente che una volta instaurata la libera concorrenza, sarebbe finalmente iniziata per tutti i ceti un’epoca felice sotto il segno del benessere  e della fraternità universale. L’armonia prestabilita del mercato avrebbe portato automaticamente alla realizzazione della giustizia sociale.

 

In effetti l’era industriale ha ottenuto grandiosi successi economici. Il mercato e la concorrenza posseggono una loro dinamica. L’uomo, sostenuto dalle scienze naturali e allettato dalle nuove possibilità della libera concorrenza, si impadronì sistematicamente delle forze fino ad allora segrete della natura e le utilizzò nella tecnica fisica, chimica e biologica, che è diventata, con uno sviluppo tumultuoso, la base della moderna economia e la struttura portante della nostra civiltà. Le invenzioni e le scoperte si susseguirono a ritmo incalzante. L’età media umana passò da 35 a 70 anni di vita. Il tenore di vita, anche quello dei ceti inferiori, migliorò notevolmente.

 

Ma l’era del liberalismo economico ha portato anche ad un pericoloso disagio sociale e ha provocato la “questione sociale”. I lavoratori nullatenenti e inizialmente non ancora uniti in sindacato non potevano gettare nella concorrenza alcuna proprietà, bensì soltanto la loro forza di lavoro. “Il padrone ha sempre ragione”, diceva un proverbio. È sorprendente notare come lo stesso Adam Smith abbia indicato chiaramente questa disparità iniziale in un passo inquietante del suo capolavoro: <<Non è… difficile prevedere quale delle due parti in una situazione normale dovrà prevalere nella contesa, costringendo l’altra parte ad accettare le sue condizioni… In tutte queste contese i padroni possono resistere più a lungo… anche senza impiegare un solo operaio, possono in genere vivere un anno o due sui fondi che possiedono, mentre molti operai non potrebbero sopravvivere disoccupati una settimana, pochi potrebbero sopravvivere un mese e quasi nessuno un anno (1).

 

A dispetto delle previsioni più ottimistiche, proprio nella prima metà del XIX secolo una miseria spaventosa investì la classe operaia. <<Uno degli antichi titani – scrivono gli Historisch-politischen Blätter del 1847 – è segretamente risuscitato ed entrato con passo felpato nel disordine del momento presente… il proletariato>> (2). Un <<capitalismo primitivo>>, che assimila l’uomo al complesso dei mezzi materiali di produzione e lo tratta <<come uno strumento>>, contraddice – come afferma Giovanni Paolo II – alla dignità dell’uomo. Perciò il <<grande slancio di solidarietà>> che si ebbe nel secolo XIX contro la <<degradazione dell’uomo>> e contro <<l’inaudito sfruttamento nel campo dei guadagni, delle condizioni di lavoro e di previdenza per la persona del lavoratore>>, fu giustificato <<dal punto di vista della morale sociale>> (Laborem exercens 7-8).

 

Per giudicare in maniera giusta la situazione del proletariato in quel periodo non dobbiamo però chiamare in causa solo la libera concorrenza, ma tener presente anche il fatto che il prodotto sociale non bastava, di fronte al continuo aumento della popolazione a garantire a tutti un soddisfacimento umanamente degno dei loro bisogni. Luis-Auguste Blanqui scriveva allora: <<La terra è certamente grande e ancora in larga misura incolta, ma ciononostante siamo in troppi a correre verso il banchetto della vita>> (3).

 

Ma appunto qui il vecchio liberalismo economico è andato manifestamente incontro a un fallimento doloroso: benché ci fosse grande bisogno di beni di ogni genere e non mancassero le braccia volenterose per lavorare, subentravano continuamente, con una regolarità quasi fatale, crisi congiunturali condizionate non dall’esterno, bensì dall’interno, che gettavano sul lastrico milioni di lavoratori e di famiglie. A partire dall’inizio dell’era industriale si possono distinguere tre grandi ondate congiunturali:

1.      Il primo grande ciclo, che va dal 1787 al 1842 e che registrò l’avvio dello sviluppo industriale, fu scosso 6 volte da crisi congiunturali.

2.      Il secondo grande ciclo, caratterizzato dalla costruzione delle ferrovie e da una grande espansione industriale, durò dal 1843 al 1897 e venne a sua volta interrotto da varie crisi a distanza di 8-10 anni l’una dall’altra.

3.      Il terzo grande ciclo, caratterizzato secondo Schumpeter dall’elettricità, dal motore e dalla chimica, si estende, continuamente turbato da crisi, dal 1898 alla grande crisi dell’economia mondiale del 1929-1931.

 

Verso la fine degli anni ’20 la concentrazione e lo strapotere dell’economia, nonché la concorrenza rovinosa avevano raggiunto proporzioni tali che l’automatismo della libera concorrenza non era più in grado di ristabilire alcun nuovo equilibrio. Quasi tutti i Paesi erano afflitti da una disoccupazione di massa cronica e ciò non per motivi politici esogeni, bensì per motivi economici liberali endogeni. Allora ebbe inizio l’epoca della politica statale congiunturale attiva. Nel contempo, la crisi dell’economia mondiale del 1929-1931 segnò storicamente la nascita del neoliberismo sul piano delle idee, anche se il sistema neoliberale sarebbe stato costruito soltanto più tardi.

 

 

 



   1. Op. cit., lib. 1, cap. 8, I, p. 67
   2. 19 (1847), p. 522s.
   3. A. Blanqui, Histoire de l’économie polit. En Europe (1837), cit. da P. Reichensperger, Die Agrarfrage, Treviri 1847, p. 257.
 
 

 
 
 
 
 
 
 



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