CULTURA - Curiosità

GLI STRUMENTI A PERCUSSIONE

di G. Morgillo (23/2/2000)

Commenta l'articolo


L’organologia è la scienza che studia e classifica gli strumenti musicali di ogni epoca e cultura.

Accettando per gli strumenti musicali in genere la classificazione (usata in etnologia e dovuta a Curt Sachs ed Erich M. von Hornbostel) in idiofoni (nei quali il suono è prodotto dalla vibrazione dello strumento), cordofoni (nei quali il suono è prodotto dalla vibrazione di corde tese), membranofoni (nei quali il suono è prodotto da membrane tese), aerofoni (in cui la vibrazione è prodotta dall’urto di una colonna d’aria), ed elettrofoni (nei quali il suono è prodotto da dispositivi elettrici), si vengono a contare nel corso della storia e presso i vari popoli primitivi e civilizzati non meno di 298 gruppi di strumenti. Sono però di uso comune anche altre classificazioni degli strumenti musicali, come quella a tutti nota che li suddivide in strumenti a fiato, a corda, a percussione (classificazione proposta dal belga Victor Mahillon).

L’espressione strumenti a percussione (è su di essi che per l’appunto vogliamo ora focalizzare la nostra attenzione) indica un gruppo di strumenti nei quali il suono è prodotto percotendo con diversi mezzi membrane tese, lamine, tubi metallici, legni duri, ecc.

Si dividono in strumenti a percussione a suono determinato (timpani, campane, sistro, xilofono) e a suono indeterminato (gran cassa, tamburo, tamburo basco, tam-tam, piatti, triangolo, nacchere).

Mettendo a confronto le varie definizioni che sin qui abbiamo dato, possiamo subito renderci conto che gli strumenti a percussione si trovano fondamentalmente disseminati nella classe degli idiofoni ed in quella dei membranofoni.

Per quanto concerne la costituzione fisica vera e propria degli strumenti a percussione, si ha che gli idiofoni (detti pure autofoni) sono formati da una o più piastre di materiale elastico (legno o metallo), le quali producono il suono in quanto messe in vibrazione mediante percossa (triangolo, gong, campana, Glockenspiel, piatti, crotali, marimba, xilofono, celesta, castagnette, wood-block, frusta, e numerosi strumenti asiatici e africani), scotimento (raganella, sonagli, mezzaluna, maracas, nonché alcuni strumenti esotici o popolari come la napoletana triccaballacca, il putipù, la troccola), pizzico (scacciapensieri, scatola musicale) o sfregamento (armonica, sega, violino armonico, eufonii, clavicembalo); è chiaro che gli idrofoni possono essere sia a suono determinato (p. es., campana, campanelli, celesta, xilofono) sia a suono indeterminato (p. es., piatti, triangolo, gong, castagnette). I membranofoni sono invece detti così perché il loro corpo vibrante è costituito da una o più membrane (pelli) tese, che vengono percosse con le mani o con bacchette; si tratta della famiglia dei timpani (strumenti a suono determinato) e dei tamburi (strumenti a suono indeterminato), che vengono a loro volta suddivisi in sottoclassi secondo la forma (a caldaia, a cilindro, a cornice) o il materiale di cui è formata la cassa armonica o l’impalcatura su cui è tesa la membrana (p. es., legno, metallo, cocco).

Considerandone le intrinseche caratteristiche, si ha che la maggio parte degli strumenti a percussione viene prevalentemente usata in orchestra e non certo nell’esecuzione di brani solistici, quantunque in epoca contemporanea molti ottimi musicisti siano coi loro lavori riusciti a far assurgere le percussioni al rango di quegli strumenti che per luogo comune vengono considerati più “nobili” o comunque più “difficili”. Possiamo altresì dire che, in questo ventesimo secolo, le percussioni hanno acquistato importanza sempre maggiore anche nelle partiture dei compositori di musica classica: al riguardo, basterebbe citare l’ungherese Bèla Bartòk (con Musica per archi, celesta e percussioni e Sonata per due pianoforti e percussioni) ed il messicano Carlos Chàvez (con Toccata per strumenti a percussione).

Venendo a periodi ancor più recenti è d’obbligo citare il giapponese Stomu Yamash’ta (anno di nascita: 1945), straordinario talento della musica il quale già dagli anni dell’adolescenza riesce a formarsi una grande reputazione come compositore ed esecutore classico e d’avanguardia, conducendo poi alcune controverse esplorazioni nel mondo del rock. Figlio del direttore della Kyoto Symphony Orchestra, studia percussioni dall’età di nove anni; a tredici scrive la colonna sonora del film Yojimbo  di Kurosawa, a diciassette vince una borsa di studio che gli consente di trasferirsi negli Stati Uniti. Studia alla Boston Academy e contemporaneamente inizia le prime esperienze nel campo del jazz: suona col Modern Jazz Quartet e forma egli stesso un ensemble con Brian Gascoigne, Miroslav Vitous, Harvey Mason, Chick Corea e Rick Laird. A diciannove anni suona con la Chicago Symphony Orchestra, con Tossito Akiyoshi, e si guadagna fama di eccezionale percussionista. Hans Werner Henze lo vuole in Europa nel 1970 per eseguire una sua composizione, El Cimarron.

Nel 1972 l’artista giapponese pubblica due album per sole percussioni: nel primo di essi Yamash’ta esegue composizioni di musica contemporanea del già citato Henze, di Peter Maxwell Davies e di Toru Takemitsu.

Verso la metà degli anni ’70 Yamash’ta approda decisamente al rock, e tra il 1976 ed il 1977 realizza tre album con strane miscele di rock, jazz, elettronica e armonie orientali.

Dopo tali esperienze, il grande percussionista deciderà infine di rivolgere le sue attenzioni a forme di sperimentazione nel campo della musica contemporanea.

Non potendo dimenticare l’Italia, è necessario infine citare il napoletano Tony Esposito (anno di nascita: 1950). Inizia a suonare giovanissimo inserendosi immediatamente nel circuito musicale come prezioso session-man, grazie soprattutto alla sua capacità di saper trarre suoni e ritmi da ogni tipo di tamburo, ma anche da ogni oggetto extramusicale. Il suo approccio personale e originale con le percussioni ne accresce rapidamente la fama fino a metterlo in contatto anche con ambienti musicali molto diversi fra loro. Il suo debutto discografico avviene nel 1973 con l’album Rosso napoletano, prodotto da Paul Buckmaster, che riscuote un ottimo successo di critica e pubblico. Non a caso, in esso confluiscono i risultati di una ricerca sul mondo delle percussioni che vede convivere strumenti della tradizione italiana con quelli sudamericani, caraibici e africani: su questi ultimi, in particolare, fa uno studio sul campo per due anni. Arriva così ad inventare il “tamborder”, un tamburo che non emette soltanto suoni percussivi ma anche note musicali ben precise, armonie e accordi. Nel 1984 esce Il grande esploratore, un nuovo capitolo nella lunga ricerca sulle percussioni e sui suoni del mondo, dove Tony Esposito fa un largo utilizzo del tamborder. In questi ultimi anni l’artista napoletano è andato purtroppo a discostarsi dai suoi consueti canoni musicali, pur continuando a riscuotere un discreto successo di pubblico.