DA:
PONTE GIA’ CASTEL
DI PONTE
DI BRUNO DE NIGRIS - FINITO DI
STAMPARE NEL 1982-.
Al Commendatore
Domenico Ocone
Sindaco di Ponte —amico
carissimo mio e del compianto Ruggiero Iannella
Segretario comunale
—che per lungo tempo resse la segreteria di questo Comune.
gennaio 1982.
STORIA
La
configurazione geografica della irregolare valle, ove
oggi sorge Ponte, non sembra poter confermare una posizione di privilegio
strategico, del pur antico e conteso territorio, prima detto « Ponte Sanctae
Anastasiae » per la prossimità di una Chiesa, allora esistente e recante tal
nome, ad un resto di ponte di fattura romana.
Invece,
più che pacifico, sembra accettarsi uno stato di fatto che, ancora oggi si
rileva e che rende oltremodo importante « il passo »attraverso il tenimento
ove, attualmente, sorge la nuova ridente cittadina di
Ponte e, all’epoca accoglieva, all’ombra dello sconforto medioevale, il
misticismo della badia di Sanctae Anastasiae, con le torve vicissitudini del
dominio baronale.
Quindi,
la zona, ebbe spiccata importanza per il passaggio di
una viabilità che collegò l’antica Telesia con Benevento — via Latina — e l’una
e l’altra capisaldi di una civiltà diversa, ma ambedue grandiose, la romana e
la sannitica.
L’antico
ponte romano — detto in alcuni istrumenti « Ponte Lapideo », oltre a lasciare
al luogo il nome che ebbe e che ha, valse a dimostrare l’importanza del
passaggio, cosa che si ebbe a constatare ed accettare
anche nei tempi che vennero e che conducono sino a noi: nodi stradali che hanno
tenuto costantemente legate al Capoluogo vaste zone; rete ferroviaria di
primaria importanza per l’incontro di Regioni; infine, autostrade per
completamento ad una più rapida unione di interessi commerciali, sociali,
economici in genere.
Questo
fu e resta il privilegio dell’antico Castel Ponte di Sanctae Anastasiae, che
visse, come tutte le terre interessate al dominio feudale, la sua grama esistenza
di angherie, di soprusi, di sempre più mesto declino.
Calpestarono la sua terra, come tutte le altre vicine, gli zoccoli dei cavalli
normanni, riempirono la sua aria, come l’aria dei feudi circostanti, i gridi di
comando alle orde sveve e, più appresso al suo suolo e all’ombra dei suoi
alberi, come per i feudi compagni, posarono, per il riposo, le membra e le
spade e degli angioini e degli, aragonesi. La storia,
colla sua eco indistruttibile, lo ripete anche se, ormai, il tempo tace nella
valle. Non fu mai considerevolmente popolata la contrada di Castel Ponte, anche
se, innumerevoli milizie armate, nel transito, di certo ivi si fermarono al
bivacco, presso la frescura del fiume che ne’ pressi
scorreva, talvolta quieto e tal’altra minaccioso. Non ebbe giammai assai gente
nelle poche casupole sparse qua e là, tra « terra palustre e aria malsana »,
anche se, più tardi nei tempi, ivi si annidarono « come avvoltoi, temuti
signori e briganti per far man bassa sui viandanti. Certo
però è, che, la contrada ebbe natali che precedettero quelli di
alcune contrade vicine e, anzi, è da supporre che, queste ultime,
nacquero dagli sguardi che, da Castel Ponte, si posarono sulle
alture circostanti.
Comunque,
è poco dopo l’800 che, nella zona, nei pressi del vetusto ponte romano, sorgeva
la badia di Santa Anastasia se si pon mente, che è dell’849 un istrumento
relativo ad una permuta con l’Abate di San Vincenzo al Volturno, al quale « si
concedono beni posti a Ponte Lapideo, confinante col fiume Calore ed il torrente
Cozzia » (Alenta).
E
non fu la sola badia a essere stata costruita
all’epoca e nella zona, dappoiché, come scrive Monsignor Iannacchino,
nell’opera citata in bibliografia, « che proprio in questa contrada ove si
erano tanti castelli di prepotenti baroni, la Divina Provvidenza quasi per
ammansirli dispose far sorgere molte badie dell’ordine di S. Benedetto da
Norcia. E furono i religiosi benedettini che vi fondarono grange, celle o
monasteri iniziando un’era nuova collo isboscare monti, colline, terre divenute
saldoni, infrenare fiumi che le avevano rese palustri e di aria
malsana e col dar vita a famiglie coloniche asservite ai monasteri, che indi
diedero cominciamento a fiorenti borgate. Non lungi da S. Anastasia infatti troviamo, all’epoca, il monastero di S. Lupolo e
Zosimo, omonimo di quello già esistente nelle mura di Benevento, la badia di S.
Maria delle Grotte « costruita, fra lo spacco orrido ed inaccessibile di un
monte, nel 940 da Atenolfo I principe di Benevento e Capua », la Chiesa e cella
di S. Stefano a Strada con le tre condone e con la Chiesa di S. Adiutore in S.
Agata presso Limata (territorio di S. Lorenzo Maggiore).
Ma,
è nel 980 che, il monastero di S. Anastasia al Ponte, dal Principe Pandolfo
Capodiferro, a « preghiere del Conte Adelfredo », venne
ceduto, in dono, a Giovanni abate del monastero di S. Lupolo e Zosimo sito in
Benevento, con facoltà (qualcuno direbbe con « obbligo ») di costruirvi un
castello o meglio di renderlo popolato con dipendenze dal monastero.
Il
già celebre principe di Benevento e di Capua, che ebbe talento e lungimiranza
vieppiù degli altri sei omonimi che lo seguirono nel Principato e che,
egregiamente, regnò su buona parte dell’Italia meridionale dal 961 al 981, fece
giusto in tempo a porre, la valida contrada, nei destini di una nuova storia.
Ricorre
la necessità, a questo punto, di rettificare, ritenendolo, però, un semplice
errore di stampa, la data della donazione innanzi citata, indicata dal Mellusi
nel « Territorio dei casali » in 908 anziché 980, rientrando solo quest’ultima
nel periodo 961-981 attribuito alla tenuta del regno da parte di Pandolfo I
Capodiferro.
E,
giacché siamo nel tema relativo alla creazione di
monasteri, chiese, celle, badie, tenendo in dovuto conto la nascita del primo
castello nella contrada della già esistente badia di Santa Anastasia, prima di
passare alla storia della novella parvenza che assume la contrada stessa col
nome di Castel Ponte di Santa Anastasia, per dovere di cronaca, anche se
anticipiamo di lunga gli avvenimenti, riferiamo.
Al disegno della « Divina Provvidenza » che volle «
far sorgere molte Badie dell’Ordine di S. Benedetto da Norcia », così come innanzi da noi riferito, in richiamo
a quanto scritto dal Reverendo Monsignore Iannacchino, secoli dopo, intorno al
1443, giustamente si oppose il drastico provvedimento
di Papa Nicolò V, il quale fu costretto a convertire in « commende », cioè
sottoposte a vigilanza da parte d’incaricato (commendatarius), « diverse Badie
Benedettine, divenute albergo di vizi ed inosservanti delle regole dettate da S.
Benedetto». Non ci risulta che dal provvedimento fosse
colpito pure il monastero di S. Anastasia ma, è di certo che, nel 1443, Papa
Onorio V, volse la sua severa attenzione a S. Maria delle Grotte. Cosa poteva
accadere tra quelle mura benedette, sì da destare il provvedimeno papale? Non lo
sappiamo, ma tanto e tutto lascia pensare il fatto
d’essere divenuti, quei luoghi, « albergo di vizi ed inosservanti delle regole
dettate da S. Benedetto». Alla fantasia del lettore ogni
personale illazione.Da quanto innanzi si deduce:
a) la
contrada, ove ebbe a sorgere l’antica Ponte, fu
importantissima anche se, quasi completamente disabitata, perché interessata al
passaggio delle vie che da Roma, per la Valle Telesina e per Finocchio,
immettevano a Benevento e quindi oltre. A tale uopo, nella località, per
attraversare l’abbondante fiume Calore (così detto per l’acqua pianamente
scorrevole e non eccessivamente fredda), fu eretto dagli stessi romani, un
massiccio ponte in pietra;
b) unico
punto di permanente riferimento, per diversi secoli, rimase per la palustre
malarica contrada, soltanto lo stabile ponte e il passaggio discontinuo delle
legioni e dei mercanti e, ciò, fino alla creazione della badia di Santa
Anastasia, avvenuta poco oltre l’800, epoca in cui, come già detto, sorsero nella zona altre numerose chiese, monasteri o badie.
Per
la vicinanza delle due opere murarie « il ponte e la chiesa », si ha il
primitivo appellativo della località in « Pons Sanctae Anastasiae »;
c) la
contrada, già possedimento dell’antico Sannio e poscia della contea di Telese,
faceva parte del Principato di Benevento quando venne alla ribalta degli annali
con la stesura del diploma a data 980 con il quale,
Pandolfo I Capodiferro, principe di Benevento, donava a Giovanni abate di S.
Lupolo il monastero di Santa Anastasia al Ponte con « obbligo di edificarvi un
casiello e renderlo abitato con dipendenze dal monastero». Ciò avvenne, e si
ebbe così, la nuova denominazione « Castrum Pontis Sanctae Anastasiae», e il «
castrum Pontis » passa, con tal nome, la prima volta alla storia dopoche in
certo modo abitato, risanato alquanto con diboschimenti e fertilizzazione,
operate secondo il motto del loro Fondatore San Benedetto « ora et labora »,
dai benedettini che qui fecero dimora, anche se, in seguito, in modo poco
mistico; dicevamo, « castrum Pontis » apparve così, come scrive l’Ughelli —
opera in bibliografia —quando « Roffrido Presule an 1087, Victor III Benevento
Sjnondum celebravit mense Augusto, qua tempestate idem Roffrido Ecclesiam S.
Dionjsii sitam extra castrum Pontis S. Anastasiae comitatus Telesini solemni
ritu, dedicavit ». Si noti l’erezione, avvenuta nel territorio, della nuova
Chiesa dedicata a S. Dionigi e che, poi, è solo unità di una non indifferente
proliferazione, se si pon mente a quanto riferito e
dall’Ostiense e da Pietro Diacono nelle Cronache Cassinesi eppoi, da Alessandro
di Meo, in Annali Critici e Diplomatici.
I
primi facendo cenno ad una donazione a San Benedetto da parte di Baldovino,
signore del Castello di Ponte, intorno all’anno 1093,
all’abate Desiderio di Monte Cassino, scrivono: « Ecclesiam S. Dionisii de
praedicto Castello S. Anastasiae, quam ipse, valde parvulum reperiens ac
vetustam fundamentis renovavit et ampliavit, eamque nonnullis possessionibus
atque colonis dotans et mansionis incircuiter constituens, Domnium Roffridum
Archiepiscopum Beneventi illam dedicavit ».Il di Meo così ancora enumera le
donazioni di Baldovino, dopo aver menzionato che, tra l’altro, furono anche
oggetto delle donazioni selve, vigne e terre coltivate e non « videlicet
Ecclesiam S. Mariae quae in Arvente vocatur cum pertinentiis suis, Ecclesiam S.
Angeli quae dicitur ad Gruttam cum omnibus
pertinentiis suis, Ecclesiam S. Iuliani quae constructa est in Territorio
Limatae quae dicitur ad pugnam. Insuper ed Ecclesia S. Erasmo
intrafines ipsium Castelli Pontis S. Anastasiae in loco ubi dicitur Ferrarii
eum molendinis sex in Fluvio Calore ubi dicitur Decembri ecc. ». Come si
è notato la zona è ricca di chiese e, i benedettini, beneficiavano largamente
delle donazioni con le pertinenze ad esse legate, facile
intuire il fine delle donazioni che, altrimenti, sembrerebbero unicamente
aspirazione alle indulgenze.
Le
chiese sorte qua e là, rappresentano un centro di sicuro popolamento e, quindi,
di risanamento delle zone quasi selvagge che, migliorate, verranno a dare, in
seguito, frutto sicuro all’avidità padronale.
Ma,
a questo punto, ci viene a domandarsi: chi era questo munifico Baldovino,
signore del Castello di Ponte, voluto da Pandolfo I ed eretto
dall’abate Giovanni?
Anche se ritenuto dalla storia « grande », Baldovino
signore del Castello di Ponte, normanno d’origine, fu vassallo di Rainulfo,
gran Conte. Però a dire il vero,
fu un vassallo tenuto in particolare considerazione dal suo padrone, e, forse,
perché lo stesso Rainulfo doveva contare molto su di lui, a ragione della
posizione poco allettante in cui si veniva a trovare nei confronti del Duca,
poi Re, Ruggero suo cognato per aver lo stesso Rainulfo
sposata la sorella Matilde.
Tra
i due non correvano buoni rapporti, per essere stato Rainulfo preferito, dal
papa Innocenzo II e dall’imperatore Lotario, allo stesso Ruggero nella investitura al Ducato di Puglia.
La
lotta tra i due cognati fu continua e costante, così che,
Ruggero, non tardò a penetrare nei possedimenti dell’avversario, « ivi
recando lutti e dolore ». Si giunge al 1134 quando, dopo aver preso Avellino,
Ruggero non tralasciò di occupare e sterminare Campolattaro, Fragneto,
Pontelandolfo e Guardia. La sua ira e la sua crudeltà, indi, passò
su Alife che, sgomenta, si sottomise mentre, Venafro, si difese lungamente.
Venne
poi alla volta del beneventano. Attaccò Paduli che devastò, poscia avanzò verso
il Castello di Ponte, tenuto, come detto, da Baldovino il quale sopportò per
breve tempo l’assedio ma, non tardò ad arrendersi.
Fatto
prigioniero non si seppe della sorte toccata a lui, « parte del cuor di
Rainulfo ». L’abate Telesino, in « de rebus gestis Rogerii Sicilae regis
»ricorda:
« Capraque Nuceria, militarique in ea delegata
custodia ad invadendum Rainulphi Comitis terram Rex prorsus animum figit. Quapropter coacti in unum exercitu
Padulum profiscitur, indeque motus ad obtinendum oppidum nomine Pontem
accelerat, quod quidam Magnus Balduinus nomine sub Rajnulphi Comitis
dominio tenebat, cuius immensam Pontisii eminus cernentes expeditionem intrare
permittunt ». La storia non tralascia di ricordare che, il duca Rainulfo, il
quale trovavasi allora in Dugenta, al cospetto delle immane
scelleratezze compiute dall’esercito di Ruggiero, impetrò la pace che
ebbe, dall’avversario e cognato, « a condizioni durissime per il che, non fu di
lunga durata ». L’odio di Ruggero verso il cognato ormai non nascondeva limiti.
Ebbe a dire all’Abate Telesino, durante una visita di questi a Benevento, « che
mai più l’avrebbe perdonata a Rainulfo ». L’eccidio riprese e con più veemenza;
furono conquistate e distrutte Alife che da poco era risorta, Caiazzo, Padula, S.
Agata, Guardia e San Salvatore. La stessa Telese fu totalmente distrutta e, le
popolazioni, fuggivano davanti a tale furia, cercando scampo nei territori
vicini rendendo così, gli stessi, più popolati.
Solo
la morte di Rainulfo, avvenuta a Troia, nelle Puglie, nel 1140, sembrò placare
la furente ira di Ruggero tal che si ebbe un periodo « relativamente pacifico ».
Si affermò, con un’assemblea di baroni e prelati, la monarchia normanna e,
Ponte fu annesso alla baronia di Fenucchio, tenuta all’epoca da Tommaso di
Fenucchio ma, posseduta in suffeudo da tal Guglielmo di Rampano.
Così il catalogo dei baroni sotto l’epigrafe « Baronia Feniculi n. 983
Willelmus de Rampano, siCut dixit, tenet de eadem
Thomasi Pontem quod est feudum trium militum » . E qui
vale la pena ricordare che, il numero dei militi, rappresentava, secondo il
sistema feudale, il numero dei soldati che il feudo doveva fornire all’esercito
del re in rapporto alle once d’oro in rendita che doveva allo stesso sovrano:
un milite e due valletti per ogni venti once.
Sino
al 1151, il feudo, con una popolazione sempre più decimata dalla malaria e
dalle guerre, rimaneva sotto il dominio dei Fenucchio.
Ma, chi
erano costoro?
Rispondiamo
all ‘interrogativo traendo notizie dal nostro lavoro «
Torrecuso — da Adelchi a Mellusi — » perché anche in esso, ci dovemmo
interessare dei Fenucchio, quali signori di Torrecuso.
Ordunque,
i Fenucchio, ebbero origine dal Mouse, famosi Conti di quella Regione, che era
una delle 34 contee del Ducato e, poscia, Principato di Benevento.
Normanni
al seguito di Ruggero spadroneggiarono nei loro feudi e, un tale Ugone infante,
nel 1122, non certo si distinse per nobiltà d’animo allorché, avuto « speciale
incarico delle rappresaglie contro i beneventani, allorquando Onorio Papa si
negò ad investire del Ducato di Puglia il Conte Ruggero » obbrobrioso
confermare, « largamente adempì al feroce mandato ». P
Falcone Beneventano che narra « tanto quegli quanto
gli altri baroni quotidio confinia civitatis igno ferroque consumere coeperent
»e, Ugone infante, in modo particolare, straziava i miseri prigionieri «
strappando loro i denti e lacerandone le membra e ne disponeva la liberazione
solo dopo averne esatto il riscatto. Egli, Falcone, lo chiamava « vir nefandae
memoriae e tiranno crudele». Nel 1133 è subentrato nel feudo di Fenucchio, un
Tommaso che ne acquisisce, come i predecessori il
nome. Gli storici sono concordi nell’affermare che, questi, fu « uno dei più
potenti baroni locali » e «uno dei più fidi normanni, se, in quel modo, fu
remunerato dai suoi re ». Infatti, oltre Fenucchio, il
suo dominio si estese a Torrecuso, Apollosa, Castelpote, Torre palazzo o tre
palazzi, Ponte e Casalduni.
Il
catalogo dei baroni al n. 982 precisa « Thomasius de
Fenucchio dixit, quod demanium suum de Fenucchio est feudum duorum militum, et
de Torrecuso feudum duorum militum, et de Castello Potene feudum unius militis
» mentre, come già innanzi avemmo a dire, al n. 983 dello stesso catalogo è
Guglielmo Rampano che, avendo in suffeudo, per conto dello stesso Fenucchio, il
Castello di Ponte, accusa « trium militum». Ripetizione, quest’ultima, resasi
necessaria per stabilire il raffronto con gli altri feudi vicini e sulla entità della prestazione dovuta. E notiamo che, il
Castello di Ponte, fornisce « trium militum » contro due di Fenucchio,
Torrecuso e Torrepalazzo nonché uno solo di
Castelpotone.
Perché
mai?
Ovvia
la risposta per quanto innanzi riferito e cioè: un
milite per ogni venti once d’oro dovute al sovrano e, nel caso, mentre
Castelpotone corrispondeva venti once, Torrecuso, Fenucchio e Torrepalazzo ne
corrispondevano quaranta once, Castel Ponte, a sua volta ne doveva
corrispondere sessanta.
Allora,
eccoci a formulare alcune necessarie considerazioni.
Ponte
contribuisce in misura superiore agli altri feudi citati e per la tassazione di
sessanta once e, quindi, per la fornitura di armati all’esercito
del re; ciò vuol dire che la popolazione di Castelponte è di gran lunga
superiore a quella singola degli altri feudi o, ancora, è da ritenersi che la
ricchezza produttiva di Castelponte è notevolmente maggiore a quella singola
degli stessi feudi.
Invero,
siamo incerti nell’accogliere l’una e l’altra ipotesi. La prima, perché sarebbe
in perentorio contrasto con quanto sinora assunto circa un Castelponte sempre,
notoriamente, disabitato a causa dell’aria malsana, la seconda, conseguenza
naturale e indubbia della prima, perché ove non vi sono braccia non vi è ricchezza,
quando anche la natura non lesina di porvi la sua mano malefica.
A
tal punto dobbiamo ammettere una terza ipotesi e cioè
che, trattandosi di suffeudo, amministrato da « rapace gabelliere », lo
sfruttamento veniva ad incidere e sull’operosità della esigua povera gente del
luogo e sui poveri mercanti viandanti tenuti al pagamento dell’esosa gabella.
Ci è di
conforto il contenuto di cui al n. 983 del catalogo dei baroni, laddove recita
«et de Casalatore feudum unius militis e con augmento obtulit (Willelmus de
Rampano) milite octo e servientes decem».Lo stesso Rampano che, a dimostrare la
sua capacità di crudele suffeudatario, chiede ed ottiene di portare il numero
degli armati da fornire al re, da uno ad Otto, per il piccolo casale di
Casalduni, all’epoca, notoriamente più piccolo dello stesso Ponte.
Perché
non avrebbe potuto agire in tal guisa anche per il feudo di Castel Ponte?
Al
fedele suffeudatario non importa essere odiato come tiranno e
persecutore, a lui conta figurare presso il padrone e far figurare lo
stesso al cospetto del Re.
E, come
figurerà quest’ultimo quando, al completo, i suoi demanii « cum augmento sunt
milites XXXII e servientes XXIV »! Solo così può
evincersi la « potenza » del signore di Fenucchio che preferiva avere vassalli,
e, che vassalli!, al mantenimento, di parte, dei suoi
feudi.
Basta
ricordare quanto scrive il Mellusi nella sua opera, purtroppo, incompleta « Il
T.aburno — I Monti del Sannio — » allorché trattando la contrada di Ponte
Finocchio, testualmente recita: « Tra i sassi, all’altra sponda, si eleva
ancora un pilastro, su cui, in gabbia di ferro, si poneva la testa sanguinosa
dei giustiziati, quando la legge creò spettacoli terrificanti. Di notte, al
chiaro di luna, frastagliato dalle nugole, si videro ivi passare sulle acque
orribili spettri... » Leggende gli
spettri ma, realtà le esecuzioni.
Vari
decenni durò il dominio dei Fenucchio, prosapia di
Tommaso e, precisamente, sino a quando, con l’avvento degli Svevi, Errico VI e
Costanza d’Altavilla figlia di Ruggero, ne affettuarono l’espoliazione.
Essi
smembrarono la vasta baronia, incamerandone gran parte, tra cui Torrecuso,
mentre donarono Fenucchio e Apollosa ai Benedettini di Santa Sofia. Nel 1151,
Ponte passò alla signoria dei Sanframondi, e, primieramente a tal Raone, barone
di quel Guardia già nomato vico Framondo, presso
Telese e dal quale, secondo molti, la prosapia ne assunse il nome del casato. Chi
erano i nuovi padroni di Ponte detto allora Castel
Ponte?
Normanni di provenienza, anzi, sin troppo orgogliosi
della loro origine, tanto da autodefinirsi « orti ex genere Normandorum ». Scesi in Italia con le orde vandaliche che, dalla
Normandia, verso il 1100, seguirono Rainulf o Drengot, Guglielmo, Dragone e
Umfredo d’Altavilla.
Nelle
vicende che posero in lotta, tra di loro, i Drengot e gli
Altavilla, Raone che sarebbe stato, in seguito, il capostipite della
famiglia dei Sanframondo, si trovò dalla parte del vincitore Ruggero
d’Altavilla e beneficiò dell’assegnazione di diversi possedimenti che erano
stati dei vassalli di Rainulfo.
Ottenne,
allora, vico-Fremondo, presso Telese, dal quale di poi assunse il cognome che
estese alla terra di Guardia che venne a nomarsi, Guardia Sanframondo.
La
successiva assegnazione, che sembra avvenuta nel 1151,
cioè a distanza di ben 17 anni dalla occupazione da parte di Ruggero, pose
sotto la loro signoria il feudo di Castel Ponte, già tolto, per fellonia, ai
Fenucchio.
Ma,
a questo punto, avendo esposto quanto riportato da illustri storici e cronisti
di tempi più o meno lontani, riteniamo vantaggioso inserire parte della ricca
disamina, acuta e diligente, fatta più di recente, dall’emerito studioso professore Dante Marrocco, direttore del Museo civico di
Piedimonte Matese.
Trattando
la « genealogia dei Sanframondo », il professore Marrocco,
appassionato cultore della materia che noi avemmo il piacere di conoscere, anni
orsono, in occasione di sue ricerche in un Comune che noi, all’epoca,
frequentavamo per la professione, inizia:
«
La prima questione si apre sul nome “Sanframondo”.
Rispetto
alla casa feudale, quella che qui c’interessa, le probabilità sono due:
1)
l nome sul posto preesisteva ai cavalieri normanni che
lo hanno adottato;
2)
il nome è dei cavalieri normanni venuti forse nella
prima metà del secolo XI. »
Nel
primo caso, il Marrocco, richiama, nelle note, l’assunto del Gattola, del De
Lellis, del Meomartini, del Bellucci, del De Blasi, qualcuno di essi anche da noi consultato per riportare quanto di nostro
precede.
Nel
secondo caso poi, sempre lo stesso Marrocco cita, in nota, il
Ciarlanti e l’Ammirato.
Egli
dice: « Sono portato a preferire che abbiano dato il nome, ma non è facile
decidere fra le due opinioni».
Così
resta ancora in dubbio il caso anche se, noi, propendiamo per la tesi che il
nome preesisteva alla loro venuta, dappoiché non si evince da alcun documento
che, con la discesa delle « orde vandaliche dalla Normandia», al seguito
dei condottieri, ci fosse un Fremondo, un Flejmondo o
simile e che, il capostipite, si nomava solamente e semplicemente Raone. Mentre ed è ben noto, che ottennero, come primo feudo, vico
Fremondo, presso Telese, ed in futuro per evoluzione, per alterazione o per ben
altra contrazione o addizione di pronuncia, divenne sancto Fremondo e, di poi,
Sanframondo.
D’altronde
sarebbe più casuale il fatto che, portando loro già tal nome, avessero avuto,
come primo possedimento, una terra che recava un appellativo ad esso nome somigliante.
Resta
solo da verificare l’eventualità che rientrassero in
possesso di dominio già a loro appartenuto e non menzionato in questo
particolare.
Intanto,
lo studio, del Marrocco, resta profondo e prezioso di
particolari per cui ci è indispensabile fare ad esso ricorso.
In
merito allo stemma adottato dai Sanframondo apprendiamo:
«
Lo scudo della casa nella sua semplicità — campo
azzurro alla croce greca di oro — rileva oltre che all’antichità (cogli ultimi
Sanframondo ci avviciniamo ai sedici quarti di nobiltà), anche la consistente
durata, attraverso quattrocento anni di dominio mai conosciuto con interessati
matrimoni, mai cambiato, rileva uno scudo senza riferimenti locali, senza
pretensioni.
Vi
è adombrato la triplice fedeltà dei normanni
Sanframondo alla razza, alla terra, all’idea politica, che li distingue molto
nel baronaggio del regno. »
Anche
qui, nostro malgrado ma, col solo desiderio di porre la storia al vaglio dei
lettori, siamo costretti a formulare alcune riserve sul giudizio inerente la « fedeltà all’idea politica » dei Sanframondo.
Esistono
testimonianze documentate e storicamente affermate che, proprio « a causa della
loro instabile fedeltà verso i regnanti, spesso furono spogliati dei loro
feudi, sia pure temporaneamente » (Di Costanzo, libro XII, cap. I).
Fecero
parte, inoltre, alla famosa « congiura dei baroni » contro Ferdinando I d’Aragona,
cioè avverso quei reali dai quali avevano ottenuto
benefici « a iosa », anche « in clemenza ».
Si
è nel 1151, re Ruggero, in odio al cognato Rainulfo, per la vicenda
dell’accettata e, forse, sollecita investitura del Ducato di Puglia, dopo aver
sterminato i seguaci dello stesso e messo a ferro e fuoco le terre occupate,
come avemmo a dire, sembra alquanto pacato nella sua
tremenda ira, solo dopo aver appreso della sua morte.
Intorno
allo stesso anno dava inizio alla spartizione e assegnazione dei feudi, già
appartenuti ai vassalli di Rainulfo.
Ponte,
con oltre un millennio di presenza storica ma con poco più di qualche secolo di
vita, peraltro vissuta all’ombra di un apparente misticismo, manifestato da
quelle numerose chiese e badie, divenute luoghi di insane
allegrie, sì da costringere un Papa ad affidarne la conduzione vigilata, si
prepara a vivere il più lungo periodo feudale all’insegna del dominio dei
Sanframondo.
Scrive
Carlo De Lellis nel « Discorso delle famiglie nobili del Regno di Napoli » che, Guglielmo Sanframondo, figlio di Raone,
signoreggiò con poche varianti siffatta Valle dal 1151 e, Castel Ponte, fu
tenuta dai Sanframondo col titolo di Barone sino al 1504, con qualche breve
interruzione.
Vi
è anche da menzionare che, su questa terra di dominio, come
in effetti pure a Guardia, i Sanframondo non vi dimorarono mai, essi
preferirono, in un primo tempo, il castello di Limata e, poscia, quello della
Rocca Nuova o Massa Superiore.
A
Guglielmo I, figlio di Raone che sposò Maria di
Peroleo e non una regale, come chiarisce il Bellucci a seguito del ritrovamento
di una pergamena nell’archivio della chiesa di San Biaso in Aversa, recante la
data 4 febbraio 1151, appartennero, nello stesso anno, unitamente a Ponte, le
terre di Cerreto, Guardia, Limata, Pietraroia, S. Lorenzo, Faicchio, Massa
inferiore e superiore.
Allo
stesso succedette il figlio Guglielmo II, il quale ebbe signoria sui medesimi
feudi sino al 1190 e, nel 1187, in occasione della crociata in Terra Santa,
promossa da Re Guglielmo II, metteva a disposizione in rapporto all’entità del
corrispettivo di rendita dovuto, XXVIII cavalieri, L
scudieri e una quantità di piatti. Sposò una tale Sibilla non meglio
identificata.
Nel
1190 diveniva, per successione, signore delle baronie, il figlio Giovanni I, prodigo di donazioni a beneficio di badie e, in
particolar modo, per quella di Santa Maria delle Grotte, posta su una pendice
del Taburno. È lo stesso Giovanni che tenne affidato, quale prigioniero, il
guelfo di Lombardia « Ruffinum Brognonomen di Padua » e per mandato di Federico
II.
Ma nel « cor di Federico », trovò posto Guglielmo
III, primogenito di Giovanni, signore delle terre dei suoi avi dal 1227 al
1272.
Trattato quasi con affetto
familiare dall’imperatore che aveva riposto in lui tanta fiducia, fu nominato
da questi «giustiziere di Terra di Lavoro e Molise » Aveva
portato a nozze una normanna di nostra terra, Adelisia di Dragoni, dalla
quale ebbe due figli Giovanni e Francesco.
Quasi con
certezza fu proprio durante il suo dominio che, Ponte, con altre contrade quali
Fragneto, Torrecuso, Lapollosa furono oggetto di nuova assegnazione. Infatti, Carlo I d’Angiò, passato il Volturno, a
fine gennaio 1266,
è pronto per la definitiva battaglia alla conquista di
Benevento, cosa che avvenne il 26 febbraio successivo. Manfredi di Svevia, era in attesa di quello scontro che doveva essergli .fatale.
Aveva appena 28 anni, « biondo e di gentile aspetto » (Dante lo ricorda nel Purgatorio,
III). L’atteggiamento dei Sanframondo, in quella circostanza, fu ambiguo e,
certamente, una generosa posizione poteva essere presa, a favore di quella casa
che, li aveva sostanzialmente beneficiati.
Carlo I d’Angiò, passò
indisturbato nelle loro terre, anzi fu agevolato con forniture, cosa che, molti
storici condannano mentre altri ritengono l’atteggiamento « una condotta abile »,
riconoscendo « un favoreggiamento
agli Angioini francesi
In sostanza avevano tradito
Manfredi. Da constatare, però, che, nel 1269, Carlo I
per premiare i nobili Frangipane, per aver a lui consegnato Corradino di
Svevia, catturato con vile tradimento, spoliò Castel Ponte ai Sanframondo e lo
donò con
Torrecuso, Fragnito e Lapollosa a Giovanni Frangipane, signore di Astura.
Qualche
decennio dopo, in una successiva spartizione angioina, Castel Ponte passò al
giustizierato del Principato Ultra e venne a formare università autonoma,
riportata al Cedolario dell’anno 1320, regnante Roberto d’Angiò, come casale
Pontis unc. 3, tari 15, grana 18.
Però,
nel 1359 viene segnalato come « inabitatum » e ciò, in
conseguenza delle calamità avutesi nel decennio precedente, con la grande
carestia del 1341, la peste epidemica del 1343 e, infine, lo spaventoso
terremoto del 1349, flagelli tutti questi che non ebbero a colpire solo il
nostro feudo ma, lutto e pianto furono di casa in vastissime zone dell’intero
Reame.
Non
inverosimile, dati i tempi, durante queste immane sciagure,
troviamo Castel Ponte di bel nuovo in possesso dei Sanframondo e, precisamente,
di Tommaso, conte di Cerreto, sposato in prime nozze con Mattia de Palmieri e
dalla quale ebbe un solo figlio, Giovanni, mentre, in seconde nozze, con la
nobile Francesca di Fossaceca ebbe quattro figli: Nicolò, Antonello, Francesca
e Margherita.
A
questo punto nasce una discordanza, acclarata, con precisa documentazione, dal
Marrocco (op. cit.).
Nicolò
e non Giovanni il primogenito nato dal primo matrimonio poiché è questi che troviamo alla successione del padre, mentre Giovanni sarà
solo signore di Rotello. Inoltre, Nicolò risulterà
nato nel 1363 mentre Giovanni nasce nel 1369.
Che qualcuno voglia pensare... non tocca a noi
alludervi. La precisazione,
intanto, si è resa necessaria dappoiché, il secondogenito di
Nicolò, a nome Urbano, ottenne la baronia di Castel Ponte. La storia non ci rimane molto di lui mentre, dell’unico suo
figliolo
Giantomaso, detto di Ponte,
si conosce che convolò a nozze la nobile Sancia Carafa, dalla quale non ebbe
alcun figlio. Giantomaso da Ponte, rimediò alla mancanza di legittima prole,
con un buon numero di figli naturali, avuti da vari letti.
Era
questo il periodo che, i baroni di Castel Ponte, infierivano maggiormente a
danno dei poveri viandanti, taglieggiandoli in modo spaventoso con l’esazione
del pedatico, depauperando in reazione il commercio e, provocando, per tale
ragione, l’intervento del re Ferdinando d’Aragona il quale
abolì il pedatico, assegnando, in compenso, al barone di Ponte, 40 once d’oro
che venivano prelevate dall’entrata del regio Fisco.
E
che il pedaggio e le dogane imperassero con una
violenza incontrollabile nella zona, ce lo documenta un passo tratto dall’opera
di Monsignor Iannacchino — Telesia e la sua Diocesi —.
A
Ponte, come avvoltoi stavano alla vedetta temuti signori per fare man bassa sui viandanti ed esigere il pedatico e di qui
andavano e venivano eserciti in quelle guerre sterminatrici che conti e baroni
si facevano tra loro, onde gli assalti e gli assedi sostenuti da Castel Ponte,
Castel Fenicolo distrutto, e Torrecuso tutti in questi pressi nelle due opposte
rive del Calore.
Ancora
sussiste la taverna ove si esigeva il pedatico detto del passo e mi si additò
la pietra sopra cui erano scritte le tariffe. »
Ed
Erasmo Ricca, nella sua « Storia dei feudi » commenta del provvedimento di re
Ferdinando che, abolendo il pedatico offre, in compenso, le 40 once d’oro, come
abbiamo poco innanzi ricordato, ma,
il Ricca aggiunge: « Clemenza di un Re! il pedatico egualmente si riscoteva ».
Anche
il Bellucci (Samnium, 1928, III, pag. 31) così vuole ricordare
l’episodio di cui sopra, segnando però il compenso di 10 once d’oro anziché 40,
come detto da Monsignor Iannacchino e quindi da Erasmo
Ricca, « in escambio de la abolizione del passo de la dicta terra, sospeso per
commodo et utilità comune ».
Era
il tempo in cui spadroneggiavano i Sanframondo e, la povera gente, piangeva
sulla propria miseria portando le prime casupole, dalla malsana valle allo
schienale dell’aguzzo colle, tra l’Alenta e il Calore, mentre ancora, tra le
mura, che si chiamavano sacre, delle badie, i frati, troppo allegri, a poco a
poco stanno saggiando l’ira papale che, iniziò con
Nicolò V e che avrebbe colpito duramente le loro intemperanze.
Intanto,
il 18 gennaio 1494; Alfonso Il d’Aragona, confermando a Giantomaso l’investitura
sul feudo di Castel Ponte, fece a lui dono anche della
terra di Monterone, allora disabitata.
Alla
morte di Giantomaso che, ricordiamo, non aveva avuto figli legittimi, a data 3
novembre 1502, le terre, già in suo possesso, furono
incamerate dal Fisco.
Finiva
così, in queste contrade, il lungo dominio dei Sanframondo anche se, lo diciamo
per dovere di cronaca, alla morte di Giantomaso, un suo cugino Tomaso da Ponte,
avanzò, inutilmente, pretese alla successione.
Altro
ed ultimo infruttuoso tentativo di ricomporre i feudi, ormai definitivamente
perduti, fu operato da Carlo Sanframondo, il quale veniva dalla
Francia al seguito di Carlo VIII, col grado di ufficiale di cavalleria.
Cadde in battaglia, presso Sulmona, il 18 maggio 1496.
In
tal modo non ci resta che chiudere il capitolo, ricordando solo che, le brevi
interruzioni durante il dominio dei Sanframondo, videro alla signoria di Castel
Ponte, prima un tal Nebulone e, poscia, la famiglia napoletana Brancaccio.
Del
primo apprendiamo che, durante il dominio, fu affidato alla sua guardia, da
Federico II, il prigioniero guelfo piacentino Vitolo Palestrella.
Di
un Nebulone poi, anche se col nome, stavolta, di Nebilone e
tanto ci lascia in forse, sappiamo che, nel 1051 aveva il
feudo di Decorata, presso Colle Sannita, mentre già era signore di Ponte Castel
Vipera, seconda attrazione però anch’essa poco accettabile, se si tiene
presente che il feudo di Ponte, non si chiamò in nessunissima evenienza di «
Castel Vipera ». L’unica cosa che tiene al confronto è l’epoca e, questa, solo,
ci ha indotto alla segnalazione.
Della
famiglia Brancaccio, napoletana, anche presente nella signoria di Castelvetere nonché, col titolo di Duca, padroni della vicina terra di
Fragneto Monforte, della quale subirono espoliazione, nel secolo XV, per
fellonia da Ferdinando Il d’Aragona. Nomi di rilievo tra essi
furono Violante di Gianvilla, moglie del Consigliere reale Mariano Brancaccio;
sua figlia Flavia moglie di Pietro Brancaccio. Dalla loro unione nacque Rebecca
che andò sposa al nobile Giovanni Spinelli, nominato
dall’imperatore, principe di San Giorgio la Montagna e Montefusco.
Dopo
alcuni secoli di dominio, da parte di un solo Casato che, per la sua potenza,
ebbe a dimostrarsi duraturo nel tempo e, per valore combattivo e per esosità in
tirannia, Castel Ponte, ricco di storia ma non di particolari avvenimenti,
comincia la sua interminabile odissea di asservimenti
a diversissimi ceppi baronali.
Non
bisogna mai dimenticare la grande importanza della zona ai fini della logistica
militare e commerciale, quindi se la donazione ad un vassallo rappresentava un
benevolo riconoscimento, l’acquisizione da parte di quest’ultimo, senza dubbio,
rappresentava un inestimabile vantaggio economico, in ordine
al pedatico.
Perciò,
la discontinuità del dominio, dovuto alla frequenza delle espoliazioni, alle
quali il regnante annetteva il suo irritato intervento qualora intendeva
castigare la fellonia, e, quindi anche le molteplici assegnazioni a baroni di
lignaggio, soliti all’adulazione ma non inconsueti al tradimento.
Son
trascorsi due anni dalla morte dell’ultimo Sanframondo, Giantomaso signore di
Ponte, e, non avendo lasciati eredi, il feudo con le altre terre a lui
appartenenti, sono avocate al regio Fisco.
Però
un feudo dall’importanza derivante, come più volte ripetuto,
dal passo obbligatorio di soldati e mercanti, non poteva restare, di gran
lunga, senza il suo barone.
Ed ecco
che, Consalvo de Cordova, generale spagnuolo al servizio di Ferdinando il
Cattolico, soprannominato « gran capitano », assai caro al suo re per
aver tolto il reame di Napoli ai francesi e per aver sostenuto, per oltre sette
mesi, l’assedio di Barletta, vende, nel 1304, il feudo di Castel Ponte ad
Andrea de Capua, duca di Termoli, con la precisa imposizione, voluta dallo
stesso Re, di corrispondere alla vedova di Giantomaso, Sancia Caraf a, una
congrua rendita in dote.
Andrea
de Capua, discendente omonimo del gran conte d’Altavilla che aveva sposato
Costanza di Chiaramonte già moglie, ripudiata, di Ladislao d’Angiò, parteggiò
per tradizione familiare, apertamente, per gli angioini, perché riconoscente,
con tutti i suoi, a costoro che « avevano di gran lunga
sollevato il loro casato ».
Con tutto ciò furono perdonati e beneficiati anche dagli aragonesi, così che,
Alfonso d’Aragona, confermò loro i possedimenti tenuti in signoria ed
ottennero, inoltre, successive investiture.
Andrea
otteneva Ponte, mentre Bartolomeo de Capua diveniva si-
gnore di Pago Veiano e, tutto ciò, per volere e benevolenza
di quello stesso Ferdinando il Cattolico da loro avversato.
Già,
nel 1439, un Luigi de Capua, nelle vicende per la successione al trono di
Napoli, fra Alfonso d’Aragona e gli Angioini, si distinse nella presa di
Fragnito, togliendola ai catalani Periglios e Gargia Cabanilla.
Successivamente, nel 1506, Ferdinando il Cattolico, insieme a Ponte, insignoriva di
quel Fragnito, il discendente di Luigi l’espugnatore, Andrea di Capua.
Sembra
strano questo gioco di successioni e investiture a beneficio di casati e
signori, talvolta amici e tal’altra nemici; purtroppo
accadeva e molto di frequente.
Tennero
il feudo di Castel Ponte sino al 1522, anno in cui Ferrante de Capua, lo vendette a Diomede Carrafa, conte di Maddaloni che, a
data 9 gennaio 1489, con privilegio di re Ferdinando d’Aragona, aveva ottenuto,
col titolo di conte, in vendita Cerreto, in compenso dell’aiuto che, il Carafa,
aveva prestato al Sovrano, per l’entrata in Napoli.
Diomede
Carafa, nel 1486, con l’uccisione del Sanframondo ribelle a Ferdinando I, ebbe pure in concessione la terra di Limata, possedimento,
quest’ultimo, che i Carafa hanno tenuto sino all’abolizione del sistema
feudale, con una sola interruzione e per breve tempo, nel 1500, quando cioè,
volontariamente vendettero tale feudo a Giulia Doria e Antonio Caracciolo, con
cessione precaria col patto di ricompra. Cosa che
avvenne regolarmente anni dopo.
Ciò
mette in evidenza l’estensione della vasta zona di
unico corpo, perché confinante l’una all’altra, tenuta in signoria dai Carafa,
tenendo anche presente che, nel 1506, avendo Diomede sposato Maria Caracciolo,
figlia di Marino, si aggiungeva ai possedimenti anche la terra di San Lupo,
portata in dote dalla moglie.
Vendeva,
perché ritenuta fuori mano e superflua, la terra di Cercemaggiore, nel 1534, ad
Ottavio Mastrogiudice, marchese di San Mango per il prezzo interessante di 12
mila ducati.
Già,
però, nel 1524, i Carafa avevano ceduto Castel Ponte a tal Boffilo Crispano ed a un prezzo di gran lunga maggiore, o per normale succedersi
di cose o per necessario realizzo di danaro.
Non
ci è stato possibile appurarne la movenza.
Come
pure, non ci è stato possibile rintracciare notizie
sulla mancata stipula con Margheritone Loffredo che, in attesa di
perfezionamento del passaggio di possedimento, tenne il feudo per ben due anni,
dal 1522 al 1524, anno questo dell’improvviso passaggio al Crispano.
Intanto
si reputa opportuno ricordare che, il casato Loffredo, vanta anche lustro di
nobiltà dappoiché, molti di essi, furono per lungo
tempo marchesi di Trevico ed ebbero parentela con un ramo dei Caracciolo.
Boffilo
Crispano detiene il feudo sino al 1544. Del casato di questo novello signore di Castel Ponte, sappiamo solo che, la famiglia, certamente
originaria dei dintorni di Napoli, nel Principato, grazie ai buoni uffici dei
Caraf a, ebbe ad acquistare solo questa terra, ove restò per un ventennio senza
far sentire il peso del proprio dominio.
A
Boffilo Crispano seguì nel 1544, Giovan Berardino Carbone che dominò la terra di Castel Ponte per soli due anni,
effettuandone, poscia, vendita nel 1546 a tal Rinaldo della famiglia Carafa.
Del
casato Carbone apprendiamo che fu di notevole lignaggio, così che, ai tempi di
Carlo III (1382), un tal Giacomo Carbone, otteneva
Durazzano che poi, dopo breve interruzione, passava, per volere di Ladislao
d’Angiò, a Masone Carbone contro pagamento di 7 mila ducati d’oro versati allo
stesso Re.
Indi
troviamo, Giacomo Carbone juniore, signore di Paduli per investitura di
Giovanna Il a data 18 settembre 1422. In questo feudo, forse di loro
gradimento, rimasero molto tempo tanto che, dopo aver ceduto nel 1546, Castel
Ponte al Carafa, lo stesso Giovan Berardino
Carbone, al 1 ottobre 1560,
otteneva il titolo di marchese di Paduli, terra già da qualche secolo e più di
padronanza della famiglia.
Così
abbiamo visto subentrare nel feudo di Castel Ponte un Rinaldo Carafa.
Si
è giunti al 1546, il nostro piccolo feudo pur ancora flagellato dalla malaria,
causata dall’acqua stagnante del Calore che, ingrossandosi durante le piogge,
col successivo ripiegamento nel suo letto scorrevole, lascia le sponde invase
da pozzanghere che alimentano perennemente i miasmi malarici, porta la sua
esistenza sempre più sopra il cocuzzolo della caratteristica collinetta, forse
messa lì proprio per accogliere la fuga dalla miseria e dal malanno.
I
Carafa o Caraffa, nobile famiglia napoletana, ramo staccato dai Caracciolo nel
XII secolo e che, nel tempo, darà alla Chiesa insigni prelati, come Paolo IV
papa, 12 cardinali, 2 patriarchi, 26 vescovi, è sparsa in signoria tra varie
importanti terre del reame.
Infatti,
per quanto ci attiene, troviamo i Carafa nel 1488, conti di Maddaloni e quindi
di Cerreto e di Limata; nel 1496 possedevano, con Carlo Carafa, il feudo di Airola, poi Fabrizio Carafa principe di Roccella venne a
possedere l’importante feudo di Arpaia, ceduto poi a Marzio Carafa nel 1606. Né dalla loro signoria, nel tempo, si sottrassero Paolise,
Apice, Pescolamazza (oggi Pesco Sannita), Pietralcina, Tocco Caudio, Cusano
Mutri, Civitella, Guardia Sanframondo, San Lorenzo Maggiore, Morcone,
Sassinoro, Pontelandolfo, San Lupo, Durazzano, Baselice, Circello, Colle
Sannita, Remo, San Bartolomeo in Galdo, San Giorgio la Molara, Molinara.
E,
nel 1546, anche Castel Ponte, che già ne era stato
interessato, sia pure per soli due anni, ottiene a suo dominatore un Carafa,
attraverso un Rinaldo seniore, primo investito e un Rinaldo juniore che vende
il feudo 17 anni dopo, precisamente nel 1563, a tal Nicolantonio Caracciolo.
All’epoca Castel Ponte contava 62 famiglie contro le 49 del 1545 e le 63 del 1532.
Era,
questo signore, Nicolantonio Il Caracciolo, figlio del protestante Galeazzo
che, per abbracciare la nuova religione aveva rinunciato al baronaggio, e
nipote di Colantonio I, padre di Galeazzo e signore di
Torrecuso, Finocchio, Torrepalazzo, Telese, Castelpoto, Pollosa e Solopaca.
Egli
al consistente patrimonio ereditato nel 1562, grazie all’amore dell’avo e al
beneplacito del Re che non confiscò i beni per mancanza di eredi,
aggiunse, nel 1563, il feudo di Castel Ponte. Nicolantonio II Caracciolo è
riportato dalla cronaca come « uno dei più ricchi e splendidi signori del regno
».
Il
suo motto, tenacemente inciso su ogni cosa che poteva dare evidenza alla sua
ambiziosa grandezza, fu « semper adamas » (« diamante » o volgarizzato « sempre
duro, tenace »).
Tenne
i suoi possedimenti sino al 1585 e, per amor di storia, riferiamo
anche quel che di lui, in modo alquanto discorde, dissero i cronisti del tempo
e che, noi, già avemmo a scrivere nel nostro lavoro « Torrecuso — da
Adelchi a Mellusi — ed. Pollastro, 1981. »
«
Discussa è, dai cronisti, la fine di questo personaggio che, secondo alcuni,
per il solo motivo di essere stato odiato dal viceré di Alcalà,
perché osava difendere nei parlamenti i diritti dei baroni contro le pretese
della Spagna, fu molestato sotto pretesto di eresia (si ricordi il padre
Galeazzo), processato e carcerato a Roma in Castel Sant’Angelo fin quando non
fu provata la vanità delle accuse; poi perseguitato ancora sotto altri viceré,
per vivere tranquillo, decise di ritirarsi a Venezia, dove nel 1576 viveva più
da principe che da esule per poi morire a Murano nel 1577.»
Secondo
altri, invece, perché « oberato di debiti, ad istanza
dei creditori i suoi feudi, già venduti alla madre Vittorio Carafa nel 1574,
furono messi in vendita giudiziaria nel 1586 ».
Noi
propendiamo per l’ipotesi appena accennata dappoiché, i Sarriano che
subentrarono nel possesso del feudo lo ottennero per acquisto, come Lelio
Caracciolo, nello stesso anno, ebbe la signoria in
Torrecuso per acquisto « conseguente ad asta ».
Sotto
buona stella, per ambedue i feudi, avvenuta contemporaneamente il cambio di
signoria e, per ambedue i feudi fu il più lungo sotto
il casato dominante ed anche il meno infelice.
Vale
a confermarlo e il lungo indisturbato possesso e la mancanza in essi di tumulti popolari assai frequenti, a causa
dell’esosità e dalle angherie padronali.
Illustre il casato dei Caracciolo, senza dubbio il più
illustre del Reame; rispettabile la discendenza dei Sarriano, sia in agiatezza
che in costumi.
Essi
che, con Fabrizio, avevano iniziato il lungo periodo di dominio nel feudo di
Castel Ponte, non tralasciarono di fare acquisto anche delle difese di Aspro e Pantano.
Già
signori del castello di Casalduni dal 1338, a seguito di compera effettuata il
9 marzo di quell’anno, da Pietro Sarriano, venditore Diomede II Carafa, otteneva, per « riconosciute qualità di egregia personalità
», in data 3 aprile 1602 da Filippo III, detto il Pio, il titolo di Conte di
Casalduni mentre, in seguito, altro Sarriano, precisamente Domenico, nel 1722,
si vedeva conferire il titolo pure illustre, di Duca di Ponte, dall’imperatore
Carlo VI d’Austria.
Essi
occuparono i loro piccoli feudi sino al tramonto dell’era feudale che aveva
stretto, così lungamente, le nostre povere terre, nella morsa della schiavitù
più nefasta paragonabile, oggi, solo ai residui del deleterio colonialismo.
Così,
l’alba del 1806, anno della legge francese sull’abolizione del regime feudale,
si presentò radiosa per i nostri antenati che, malgrado tutto, col sudore e col
pianto, seppero mantenere in vita queste sacre zolle
che assicurano a noi, discendenti, il necessario sostentamento.
IL
FATICOSO CAMMINO DELLA SPERANZA
DI BRUNO DE NIGRIS -1982-.
Ma, per l'umile e già troppo provato Castel Ponte, il
"servaggio", sia pure in altra maniera, però sempre umiliante, non
ancora era cessato. Anzi, dati i nuovi tempi che
avevano, per altre terre, sapore di redenzione, per il nostro "antico
feudo", essi furono la continuità di nuove vessazioni. Eppure,
la legge 2 agosto 1806, emanata da Giuseppe Napoleone, aveva soppresso la
feudalità! Eppure, il potere dei baroni che, per
secoli, aveva spaziato in questo nostro lembo di penisola, lasciando, alla fine
del lauto banchetto, briciole di povertà ai focolari spenti dalla miseria,
occhi senza più lacrime con lo sgomento di un presente oramai avvezzo, al
passato, non era più! Anche se, di fronte all'incredulo
sbalordimento delle popolazioni liberate, il giogo restava ancora come triste
ricordo. Nel 1811, la terra di Santa Anastasia che fu già di Telese o di
Benevento, che fu già di principi e conti normanni angiomi svevi e aragonesi,
la terra che, sebbene ammalata di una nefasta ricchezza, stagnante, di uno
storico fiume, restava sempre la terra della insostituibile
viabilità latina eppoi moderna, passava con la sua poca gente, avvezza al
lavoro e al sacrificio, insieme a Casalduni ed altri Comunelli, al Molise. Ma
se questo provvedimento, per alcuni di essi, fu un
solo episodio, per l'umile terra di Ponte, sarà l'inizio di un'altra secolare
odissea. Infatti, anni dopo, passa al circondano e
mandamento di Pontelandolfo e, così, nel 1869, troverà modo di essere compresa
nella nuova Provincia di Benevento, unitamente a Casalduni, Campolattaro,
Fragneto Monforte, Torrecuso, già compagni di catena nel triste passato
servaggio, con l'unica differenza che, mentre queste contrade, ora, assurgono a
Comuni autonomi, Ponte rimane ancora la cenerentola destinata a frazione di
Casalduni, cioè di quella terra nata dal suo antico riflesso. E non finisce qui la mortificante sequenza di questa grama
vicenda per lo spopolato paesello perché, nel 1901, venne, quasi una condanna,
aggregato, come frazione, al Comune di Paupisi, mai feudo e giammai castello in
passato, ma soltanto, per l'ordinamento feudale, casale di Torrecuso. Poco più
di un decennio durò quest'altra mortificante situazione e, solo nell'anno del Signore 1913, per la storia, il 18 del mese di
giugno, Ponte ottenne la sospirata completa autonomia. Una lapide a ricordo di
questo primo fausto avvenimento, fu apposta fermamente, presso la Chiesa del SS. Rosario, unica stupenda Chiesa all'epoca perché,
come precisa Monsignor Iannacchino: "Oggi - (1900) - la Chiesa di S.
Anastasia, che Monsignor De Bellis (1667) dice perpulcra, non è più, e Ponte ha
una sola Chiesa, che è quella del SS. Rosario, la quale di recente è stata
bellamente rifatta dal suo zelante Arciprete Domenico Amato di
Pietraroia". Ritornando alla lapide, diremo che, in essa,
giustamente traspare la gioia di quegli abitanti che, finalmente! sentono di aver conquistata l'autonomia e con essa il senso
pieno della libertà. Riportiamo integralmente il testo di essa:
Addì XVIII giugno MCMXIII
Per concorde volere del Parlamento Nazionale
questa frazione di Ponte
che per lungo volgere di tempo
subì il prepotere del Comune vicino
conquistò finalmente la propria autonomia
Il Popolo
con animo riconoscente
con fede invitta nei propri destini
a perenne ricordo
questa lapide
pose
Nello scritto si nota ed a
ragione, lo spirito risentito, diremmo quasi ribelle,
di un pensiero popolare che, per così lungo tempo dominato e represso, gode, in
quel momento, dell'ampio respiro della libertà mai conosciuta e, senza dubbio,
sempre sognata. L'antico "Ponte Lapideo" poi "Ponte di Santa
Anastasia" indi "Castel Ponte", ne aveva
ormai il pieno diritto, quasi a rivendicare la primogenitura nella valle e sui
colli che l'avevano accolto e guardato in tanta miseria. Cosa
accadeva in quegli anni, nella terra già dominata, è presto detto anche se,
taluni avvenimenti o fatti, riguardano solo di riflesso Ponte. Si provvedeva
alla realizzazione del "ponte di ferro" e,
le fiancate, costituite da eleganti parapetti, corrono parallele e belle, sullo
svelto unico arco che s'inciela sul fiume Calore. Gareggiava l'opera stupenda
per maestà con il ponte di Solopaca, il "ponte a catene" di Maria
Cristina. Di quest'ultimo resta viva l'ispirazione
sfarzosa dell'ingegnere Giura mentre, per il nostro rimane il ricordo alla
tecnica geniale dell'ingegnere Fiocca. Comunque il
passo era stato fatto: la rotabile Benevento Valle Vitulanese, aveva il suo
tesoro d'arte che, perentoriamente, dichiarava decadute all'esistenza e i
vecchi traghetti e le sconnesse passerelle che, via via, vennero a sparire.
Purtroppo, nati quasi insieme, ad ambedue questi sovrani di passaggio, quasi a
volo sul medesimo corso d'acqua, toccò, contemporaneamente, il declino. Durante
l'ultimo conflitto mondiale - il secondo per andar di passo con la storia -
essi furono distrutti, il nostro totalmente mentre, quello di
Solopaca, è testimoniato ancora dalla presenza dei quattro grandi leoni
a guardia degli accessi. In seguimento, senza potersi dimenticare la passata
illustre contesa importanza viabile di Ponte, venne la ferrovia: la
Napoli-Foggia. Doveva ricalcare quel suolo e quel percorso già toccato dalle
milizie romane, dai cavalli normanni, dalle orde sveve, dagli eserciti angiomi
ed aragonesi. Il destino aveva solo in tal modo privilegiato Ponte e, il tempo
da venire, non poteva sottrarsi ad esso. Benevento era
da poco nuova Provincia e, lavori fervevano anche più a monte
della valle, ove, alle falde del Taburno, sulla granitica roccia, sempre come
baluardo, poggiava l'altro paese a noi pur tanto caro, Torrecuso. I lavori che
interessavano quest'altro Comune erano parimenti importanti e vitali per esso. Si realizzava un'opera importantissima: la prima
strada esterna per il collegamento alla Vitulanese. Lasciamo, però, alla
meravigliosa penna del Mellusi che, allora, ancor giovane, subiva tutto il
fascino dell'opera che andava a miglioramento della sua terra natale. "Non
posso finalmente non dar cenno di un fatto, che pel
nostro villaggio può dirsi importantissimo, e che di utili conseguenze sarà ad
esso ferace; parlo della nuova via ch'ora appunto si reca a termine .....
Questo Comune poco lontano dalla via Vitulanese, che guida da un lato verso la
Valle Caudina e dall'altro verso Benevento e verso Molise, aveva come varchi,
angusti sentieri, aspri e nell'inverno perigliosi; onde chiuso in se stesso,
facilità di commerci non aveva". (Memoria del castello di Torrecuso).
Abbiamo voluto ricordare quest'ultimo avvenimento anche perché, proprio a
motivo di questa strada e, attraverso questa strada appena segnata, un giorno,
forse ricco di sole o, forse triste di pioggia, da Ponte, ove aveva radici, si
portava a Torrecuso e, contento vi piantava il suo
nome, un artigiano. Un umile uomo di lavoro, ignaro del destino che, sul colle
illuminato di cielo e di storia, avrebbe incontrato per sé e creato per altri:
egli era il nostro bisavolo e, di lui, noi portiamo e tramandiamo il suo nome.
Ci scusiamo con il gentile lettore per aver chiuso questo capitolo con una nota
del tutto personale.
PONTE “INDUSTRE E VIVACE”
DI BRUNO DE NIGRIS -1982-.
La fine
del secondo conflitto mondiale, che "tanti lutti addusse" e che,
tempestivamente, portò alla ricostruzione di quanto danneggiato dall'immane
flagello, vide anche Ponte affiancarsi alla ripresa. Anzi, per la nostra contrada, fu
addirittura un risveglio dal lungo torpore degli anni appena trascorsi e che,
in certo modo, rappresentavano la continuità del secolare servaggio.
Quasi una gara col tempo e con la paziente attesa, una esplosione
di ambiziosa rigenerazione, un nuovo modo di far sentire la propria presenza e,
nell'orgoglio e, nella realtà. Ricomposta la strada ferrata e ricostruiti i
ponti sul Calore, nuove case si sparsero ovunque, sereni tetti e allegri
fumaioli, balconi e finestre ornati di fiori, un tutto simbolo di raggiunta
tranquillità: era ormai ora, dopo "tanto peregrinare!" Lo stesso
fiume divenne un malato convalescente e poi, un sicuro compagno di paesaggio.
Una volta, tanto bistrattato dalla storia per i malanni che, lungamente, aveva
intorno lasciato, ora, dalla stessa storia, divenuta contemporanea, veniva riconosciuto come fonte preziosa per l'economia
locale. Una ripresa in tutti i settori che, giustamente, valsero agli
appellativi, del compianto Rotili "centro industre e vivace". E, noi
che avemmo la ventura di conoscere questa terra, ancora appassita ed umile
nell'aspetto e nell'essenza, scarna di progresso,
ruotante unicamente intorno al suo antico prestigio di insostituibile
passaggio, notiamo, ora, questa fioritura imponente di forza espressiva e di
presenza attuale. Popolamento del viale Stazione, un giorno,
non lontano, sede di qualche isolata casetta con qualche "taverna" e
ricoveri per quadrupedi. Popolamento della via
Vitulanese, un giorno non lontano, completamente spoglia di abitazioni e, interessata,
col suo nastro stradale sconnesso, alla lenta marcia dei traini e dei calessi.
Apertura e popolamento della via Ripagallo e via Campo
Sportivo, ambedue esposte al sole e all'aria mossa per un orizzonte antistante
pulito dalla mancanza di costruzioni. Potremmo, così e ancora per molto,
enumerare questa toponomastica che, di recente, ha fatto dell'antica
Ponte una ridente invidiabile cittadina, gradita ai numerosi forestieri
che, in gran numero, ne hanno fatto loro dimora. Una dotata Scuola Media Statale,
un apprezzato Centro di addestramento radiotecnici, la
Caserma dei Carabinieri, una attrezzatissima farmacia, una agenzia Cassa di
Risparmio, due agenzie di Assicurazioni, una agenzia del Consorzio Agrario
Provinciale, una premiata Casa Vinicola, complessi per la lavorazione degli
inerti fluviali, per la lavorazione degli infissi in plastica e altri ancora.
Tutto un insieme che mette in evidenza la vitalità di
questo rinnovato centro, ormai punto di attrazione se, si tiene presente anche
alla considerevole affluenza delle popolazioni vicine, al ricco mercato
settimanale del venerdì. Corollario alla fiorente rinascita: una nuova stupenda
Parrocchia, dedicata a Santa Generosa, ricordo dei figli ad una Madre
esemplare, sorta sulla via Vitulanese e consacrata da
Sua Eccellenza Mons. Felice Leonardo, per grazia di Dio, guida spirituale alla
Cattedra Vescovile di Cerreto Sannita, alla cui Diocesi appartiene il Comune di
Ponte. Così, lo squillo delle campane del SS. Rosario,
dall'alto dell'antico colle e, lo squillo delle campane di Santa Generosa,
dalla ridestata valle, all'alba e al tramonto, s'incielano e, nell'aria più
tersa di questa contrada, rendono grazie al Signore per la tranquillità
finalmente conquistata.