La nuova cardiologia del territorio tra clinica e sanita'
ATTI DEL CONVEGNO
Grilli
Roberto - Le
linee-guida nel contesto italiano: opportunità, problemi e prospettive
Li Greci Ennio - Anziano con scompenso cardiaco: quando e' necessario ricoverare?
Micchi Alessio - La gestione sul territorio del paziente con scompenso cardiaco
Pinna Pintor Plinio - Verifica di Qualità dell’Assistenza Sanitaria tra procedure e risultati
Castello Cristina - Prevenzione
Del Zotti Franco - Quale EBM in Medicina Generale ?
Le linee-guida nel contesto
italiano: opportunità, problemi e prospettive
Roberto Grilli
Unità
Valutazione Interventi Sanitari, Laboratorio per la Ricerca sui Servizi
Sanitari,
Istituto di Ricerche Farmacologiche, Mario Negri, Milano
Introduzione
Con il nuovo Piano Sanitario Nazionale 1998-2000,
le linee-guida, dopo essere state già da molti anni presenti sulla scena
sanitaria internazionale, entrano ufficialmente anche nella realtà italiana
1
.
Diciamo “ufficialmente” perché non solo un
dibattito sulle linee-guida, il loro ruolo e le loro potenzialità e già in
corso da tempo nel nostro paese, ma anche e soprattutto perché nel corso degli
ultimi anni abbiamo già avuto modo di assistere al proliferare, a livello
locale di singole aziende sanitarie, nell’ambito di singole società
scientifiche, ad iniziative, più o meno fortunate, di produzione e/o diffusione
di linee-guida.
Non abbiamo a che fare, quindi, con una “novità”,
ma piuttosto con uno strumento che, dopo essere stato oggetto di iniziative
disorganiche e non coordinate, viene oggi formalmente riconosciuto come uno dei
mezzi di cui il SSN si dota per migliorare e razionalizzare l’assistenza..
Se questo è il messaggio fondamentale del Piano
Sanitario Nazionale, quest’ultimo tuttavia - rimandando ad un apposito
Programma Nazionale non ancora definito -- non delinea il contesto operativo
dentro il quale le linee-guida dovrebbero essere adottate, che cosa debba
davvero intendersi per “linea-guida”, quali dovrebbero essere le loro
finalità, quali siano i problemi affrontabili con questo strumento, chi le
debba elaborare (le società scientifiche, da solo o con il concorso di altre
parti in causa?) ed a quale livello (nazionale, regionale, o altro?).
Piuttosto che discutere quindi di argomenti che nel
corso degli ultimi anni sono già stati ampiamente esaminati, anche nella nostra
realtà (quali sono le ragioni che hanno portato alla nascita delle linee-guida,
quali siano le loro caratteristiche metodologiche, ecc), pare oggi decisamente
più urgente (ed interessante) avviare una riflessione sulla “strategia complessiva dell’uso delle linee-guida
” nel nostro sistema sanitario.
Che
cosa sono le linee-guida ?
La discussione sulla natura linee-guida investe
aspetti non soltanto di ordine, per così dire, filosofico (l’eterno conflitto
tra scienza e arte insito nella natura stessa della medicina, ad esempio), ma
anche la sfera, ben più concreta, dei rapporti materiali tra figure
professionali, tra organismi ed istituzioni, tra componenti sociali in generale.
Le linee-guida risentono inevitabilmente delle tensioni che attraversano la
sanità e tesi centrale di questo contributo è che esse siano una
“tecnologia” dinamica, le cui caratteristiche non sono definite una volta
per tutte, ma piuttosto dipendono dal contesto nel quale vengono applicate, dal
tipo di relazioni sociali tra le diverse componenti professionali e non
interessate (medici, operatori sanitari, amministratori, utenti e pazienti), dal
tipo di finalità ad esse assegnate.
Questo spiega le diverse fisionomie che lo
strumento linea-guida tende ad acquisire, a seconda che venga impiegato a
livello locale piuttosto che centrale, che sia promosso da organismi
professionali medici, piuttosto che da altre istituzioni, per iniziativa di chi
ha responsabilità di amministrazione dei servizi, piuttosto che prettamente
cliniche. Incidentalmente, questo spiega anche le molteplici diverse definizioni
di linea-guida che vengono variamente impiegate nei diversi contesti. Si tende
di fatto ad attribuire la qualifica
di “linea-guida” ad ogni iniziativa che abbia come obiettivo quello di
indicare la tipologia di prestazioni da offrire, facendone spesso un uso
interscambiabile con altri termini –protocolli, percorsi
diagnostico-terapeutici, standard – che acquisiscono sfumature di significato
di volta in volta diverse a seconda del contesto entro il quale sono enunciati.
Per
questo, il chiedersi oggi, a quasi ventanni dalla loro prima comparsa sulla
scena sanitaria internazionale, che cosa sia in realtà una linea-guida, è meno
paradossale di quanto appaia a prima vista.
Cosa
sono le linee-guida?
Per rispondere a questa domanda pensiamo sia utile
partire da quelle che sono le interpretazioni “estreme” della natura e del
ruolo delle linee-guida: da una parte essere possono essere intese come supporto
a decisioni cliniche che vengono comunque lasciate alla libertà ed autonomia
del singolo operatore, dall’altra come provvedimenti di tipo amministrativo
che delimitano rigidamente le opzioni (diagnostiche o terapeutiche) ritenute
accettabili.
Alla prima interpretazione corrisponde la
definizione data dall’ Institute of Medicine
2
, secondo la quale esse sono appunto da intendersi
come “raccomandazioni per assistere medici e pazienti nelle decisioni
cliniche”. Loro scopo principale sarebbe quindi quello di indirizzare i
comportamenti di singoli operatori in modo appropriato e razionale, offrendo una
sintesi ragionata delle rilevanti informazioni scientifiche disponibili.
Implicita in questa definizione è la concezione delle linee-guida come
strumento professionale, fatto dalla professione per la professione, attraverso
il quale quest’ultima rende espliciti i propri criteri di comportamento, ma
mantiene su di essi un saldo controllo.
Alla interpretazione opposta corrisponde una
visione delle linee-guida intese non tanto come mezzi per orientare il decision
making clinico, quanto piuttosto per definire quali prestazioni debbano o meno
essere offerte
3
. In questo caso si minimizzano le possibilità
discrezionali del singolo medico e pongono i presupposti per un controllo
esercitato dall’esterno sulla pratica clinica, motivato generalmente da
ragioni di carattere economico.
Questi due estremi, presuppongono diverse tipologie
di rapporti tra professione medica ed altre componenti sociali, ed in questo
senso è probabilmente appropriato pensare alle linee-guida più che come ad uno
strumento tecnico, come ad una cornice entro la quale vengono definiti il tipo e
la natura dei rapporti tra la professione medica e le altre componenti sociali,
per decidere cosa debba essere fatto nella pratica clinica. Sono quindi un modo
per “interpretare” relazioni sociali in ambito sanitario che trova,
necessariamente, diverse soluzioni operative a seconda dei contesti.
Tornando al nostro quesito di partenza, per
rispondere alla domanda “che cosa sono le linee-guida?”, dobbiamo
necessariamente definire il modello di relazioni sociali che immaginiamo debbano
esistere tra i diversi attori della scena sanitaria, medici, amministratori,
utenti, ecc. Più precisamente, il problema è decidere quale tipo di relazioni
sociali pensiamo siano più funzionali alla risoluzione dei problemi che abbiamo
di fronte, oggi, nel nostro specifico contesto.
Le
ragioni delle linee-guida come politiche assistenziali condivise
Entrambi gli approcci “estremi” che abbiamo
preso in esame si presentano come inadeguati per affrontare la complessità dei
problemi della medicina moderna. In particolare il problema dell’incertezza
intrinseca alle decisioni cliniche, il fatto di avere di fronte,
nell’assistenza a specifiche categorie di pazienti, diverse opzioni possibili,
con differenti margini di efficacia, implicazioni economiche, organizzative,
ecc.
Il primo modello risolve questa incertezza con il
primato medico-tecnico, lasciando le decisioni alla discrezionalità del singolo
operatore. La funzione delle linee-guida è quindi essenzialmente quella di
offrire al clinico un aiuto offrendogli, in forma sintetica e facilmente
utilizzabile, una sintesi del ventaglio di opzioni possibili, lasciandogli la
decisione finale. E’ importante sottolineare come questo approccio, che
ribadisce un controllo esclusivamente medico sulla pratica clinica entri in
contraddizione con alcuni fenomeni di fondo che attraversano la nostra sanità,
in particolare la tendenza, presente all’esterno della professione medica (tra
amministratori, utenti e pazienti), non soltanto a far si che quest’ultima
renda esplicite le proprie regole di comportamento, ma a partecipare sempre più
direttamente alla loro definizione.
Il secondo tipo di approccio, quello di tipo
amministrativo, si presenta anch’esso come inadeguato, se non nei casi in cui
si tratti di abolire comportamenti professionali palesemente “abnormi” ed in
contraddizione con le informazioni scientifiche (cose che vengono fatte –
farmaci ed esami diagnostici prescritti – e che sicuramente
non dovrebbero esserlo perché inutili e/o dannose). Questi casi sono
relativamente facili da identificare e da eliminare attraverso provvedimenti di
carattere amministrativo. Tuttavia, la gran parte dei problemi che
caratterizzano la pratica clinica sono ben più complessi: non si tratta di
discriminare comportamenti abnormi, ma piuttosto di delimitare il ventaglio di
scelte possibili (legittime) tra i tanti interventi variamente efficaci
disponibili per determinate condizioni cliniche, a partire dal proprio specifico
contesto culturale, organizzativo e di risorse. Si tratta di formulare legittime
interpretazioni delle limitate informazioni disponibili. Razionamento,
razionalizzazione, definizione di priorità, non possono essere risolti
attraverso un approccio rigidamente amministrativo, ma piuttosto attraverso una
dialettica che veda il protagonismo di punti di vista diversi a confronto a
partire dalle conoscenze disponibili sulla efficacia relativa delle diverse
opzioni possibili.
Come anche la vicenda Di Bella in qualche modo
dimostra, tutto questo implica anche l’accettazione del conflitto sociale e
della tensione tra punti di vista ed interessi materiali anche contrapposti,
come organico alla realtà sanitaria. In questa ottica abbiamo bisogno di ambiti
nei quali questo conflitto possa essere governato ed esprimersi in modo
costruttivo.
A fronte di queste considerazioni, non si tratta più
soltanto di usare le linee-guida come veicolo di informazioni scientifiche da
fornire al singolo operatore sotto la veste sintetica e facilmente fruibile di
“raccomandazioni di comportamento”, ma di utilizzarle come ambito di
definizione di regole socialmente accettabili per la pratica clinica o, se
preferiamo, di “politiche assistenziali condivise” dalle diverse parti in
causa
4
.
Questo mutamento di prospettiva rimanda
evidentemente a numerosi nodi problematici in buona parte ancora da risolvere.
Implicazioni
delle linee-guida come politiche assistenziali condivise
La prima implicazione della nozione di linee-guida
come politiche assistenziali condivise è, il loro passaggio da strumento della
professione medica per sé stessa, per il proprio autogoverno, a strumento
sociale in senso lato, vale a dire a strumento con cui i diversi punti di vista
delle parti in causa in ambito sanitario, definiscono le politiche assistenziali
che meglio si adattano al proprio specifico contesto. Da questo punto di vista
si tratta di verificare l’effettiva disponibilità da parte della professione
ad accettare una simile impostazione. Dati empirici
5
e l’osservazione di quanto sta avvenendo nel
nostro paese nell’ambito della medicina organizzata fanno legittimamente
pensare che questa accettazione non sia scontata e che vi siano tentativi di
fare delle linee-guida più che uno strumento di dialogo e confronto con
l’esterno, uno strumento con il quale le diverse componenti di quest’ultima
ribadiscono i propri ambiti di competenza mettendoli al riparo da intrusioni
esterne.
Quanto dell’attuale frenesia di molte società
scientifiche a farsi le proprie linee-guida “prima che ce le impongano gli
altri” corrisponde ad un atteggiamento culturale di chiusura verso l’esterno
e persino verso altre componenti
della professione?
Siamo tuttavia, vale la pena sottolinearlo, di
fronte ad una realtà che è, anche da questo punto di vista, molto dinamica. Le
opinioni e le attitudini culturali della professione cambiano anche rapidamente
in risposta ai cambiamenti di contesto. Il confronto dei risultati di due
indagini da noi condotte nel 1993 e nel 1997 su un campione di medici in ambito
oncologico rivelano che la percentuale di coloro che sostengono che figure non
mediche possano legittimamente partecipare all’elaborazione di linee-guida è
aumentata dal 71% al 85% per quanto riguarda gli epidemiologi, dal 16% al 38%
per gli amministratori sanitari, dal 24% al 38% per i rappresentanti dei
pazienti e dal 6% al 26% per i rappresentanti dell’utenza in generale. La
percezione quindi che la professione non può più eludere il confronto con
l’esterno va facendosi lentamente strada.
Un altro aspetto problematico di non poco conto è
che, perché le linee-guida possano davvero acquisire il significato di
politiche assistenziali condivise, occorre che le diverse parti in causa
accettino dei comuni punti di riferimento rispetto ai quali confrontare le
diverse posizioni. Occorre insomma che vi siano delle regole comunemente
accettate.
A questo proposito sembra di poter dire che
l’adozione delle informazioni scientifiche disponibili sulla efficacia degli
interventi sanitari debba necessariamente essere la prima di queste regole.
Questo non per adottare un atteggiamento fideistico nei confronti delle evidenze
che la ricerca clinica produce. E’ infatti importante sottolineare come questa
concezione delle linee-guida non assuma al proprio interno l’oggettività, la
neutralità delle informazioni che la ricerca produce. Al contrario, proprio
perché ne viene riconosciuta la parzialità, e quindi la intrinseca
“incompletezza” (che non è quindi solo quantitativa, determinata dalla
mancanza di informazioni rilevanti su specifici aspetti assistenziali, ma che è
anche qualitativa, determinata dalla non rappresentanza in ambito di ricerca di
specifici valori culturali e punti di vista)
6;
7
viene valorizzata la necessità di un processo che
le assuma si come punto di riferimento, ma che le sappia integrare e
“completare” attraverso il coinvolgimento diretto delle parti in causa
Le informazioni scientifiche rappresentano quindi
un elemento funzionale da una parte alla esigenza di promuovere politiche
assistenziali in grado di offrire reali benefici e dall’altra a quella di dare
al confronto tra le parti sociali un comune denominatore di riferimento, un
punto di partenza dal quale muovere verso una sintesi delle divergenze
possibili, evitando che il confronto si dissolva in una babele di linguaggi
troppo diversi per poter comunicare. In assenza di un riferimento rappresentato
da quanto effettivamente si conosce sulla reale efficacia di un intervento,
sull’impatto del suo impiego, diventa sostanzialmente impossibile discutere e
confrontarsi in modo costruttivo su quali siano le sue implicazioni in termini
di accettabilità e compatibilità con le risorse esistenti, diventa impossibile
discriminare il diverso grado di legittimità e rilevanza delle opinioni
esistenti: lo scontro verrà inevitabilmente vinto dalle lobby portatrici dei
valori e dalle culture in quel momento dominanti per capacità di accesso ai
media e per influenza politica, non degli interessi maggiormente in sintonia con
l’interesse sociale generale.
Una delle tante implicazioni della vicenda Di Bella
è che il riconoscimento delle informazioni scientifiche come comune terreno di
confronto è tutt’altro che scontato, anche da parte della rappresentanza
dell’utenza dei servizi, e che un cambiamento culturale di ampio respiro in
questo senso è drammaticamente necessario con il coinvolgimento di tutti,
operatori sanitari, medici ed amministratori, utenti.
Quale significato, prima di tutto culturale, può
avere in questo scenario l’adozione delle linee-guida come politiche
assistenziali condivise? Probabilmente anzitutto quello di ribadire che l’uso
delle informazioni scientifiche come riferimento delle scelte che devono essere
fatte in ambito sanitario rappresenta un principio organico al SSN e che questo
si applica alla cura Di Bella, cosi come ai tanti altri interventi e tecnologie
sanitarie che quotidianamente vengono erogati; che queste scelte devono essere
partecipate e non autoritarie, che esistono già oggi gli strumenti per arrivare
a scelte condivise che tengano conto dei diversi punti di vista; che solo in
questo modo è possibile tentare la difficile sintonia tra l’esigenza dei
singoli pazienti di accedere a cure efficaci
e quella sociale ad un uso razionale delle risorse disponibili.
Nel momento in cui si parla molto, e giustamente,
di linee-guida per la professione medica, vale la pena chiedersi quale potrebbe
essere la loro utilità per
a)
migliorare
il livello di consapevolezza dell’utenza rispetto al tipo ed alla efficacia
degli interventi che vengono offerti. Un
utente più consapevole è la condizione necessaria per svuotare lo slogan della
“libertà di scelta della cura” di tutta la strumentale demagogia con cui
oggi viene usato e farne davvero un diritto.
b)
fare
in modo che i singoli pazienti non si confrontino più solo con le opinioni di
chi li assiste, ma abbiano un punto di riferimento per esprimere nel rapporto
con il medico i propri punti di vista di vista, aspettative e preferenze.
Certamente in questo modo la relazione medico-paziente sarebbe meno
paternalistica ed autoritaria di quanto spesso non accada;
c) fare in modo che gli stessi organismi che rappresentano l’utenza acquisiscano, attraverso la partecipazione alla elaborazione di linee-guida, un ruolo positivo e costruttivo. Essi rappresentano indubbiamente un bisogno di partecipazione, un desiderio di “contare”, che va valorizzato, ma affinchè escano da una subalternità e passività nei confronti della professione medica che è simmetrica a quella che si riscontra nel rapporto medico-paziente a livello individuale occorre che si facciano promotrici di iniziative di riflessione critica sulla ricerca e le informazioni che essa produce. Se l’associazionismo dei pazienti accettasse le informazioni scientifiche come terreno di confronto tra i propri bisogni ed esigenze e quanto viene fatto concretamente nella assistenza cui i pazienti sono sottoposti, conquisterebbe una propria vera autonomia culturale ed avrebbe anche maggiori possibilità di incidere in modo positivo sui contenuti e le finalità della ricerca medica, sulle modalità di assistenza, sugli interventi da erogare.
Quindi l’uso delle linee-guida come “politiche assistenziali condivise” è ancora più un obiettivo da perseguire che un approccio realizzabile da subito. Non solo, da parte di settori non minoritari della professione vi è ancora forte la tentazione di usare lo strumento linea-guida più come uno scudo rispetto all’esterno, per difendere e mantenere propri spazi di potere e prestigio, piuttosto che come strumento di confronto e verifica con l’esterno.
Le
linee-guida come politiche assistenziali condivise a livello locale
Sino a questo punto le nostre considerazioni hanno
avuto come riferimento principalmente il sistema sanitario nel suo insieme, le
sue esigenze di governo e, quindi il possibile ruolo delle linee-guida in questo
contesto “macro”. Ma le linee-guida stanno conoscendo una stagione di grande
popolarità e diffusione anche e soprattutto a livello locale, di specifiche e
delimitate realtà sanitarie. Il numero di ospedali nell’ambito dei quali si
stanno avviando o sono state avviate iniziative di elaborazione di linee-guida
cresce rapidamente, rendendo visibili alcuni aspetti problematici sui quali vale
forse la pena di soffermarsi.
Infatti, anche a questo livello abbiamo a che fare
con un confronto tra culture diverse che si esprime attraverso concezioni
diverse dello strumento linea-guida.
Assistiamo oggi in un contesto di aziendalizzazione
dei servizi al frequente riferirsi alle linee-guida come momento di
esplicitazione dei “processi produttivi”, vale a dire come momento in cui
vengono formalmente definiti i diversi elementi del percorso assistenziale di
specifiche categorie di pazienti. Si tratta di tentativi di standardizzazione
dei percorsi diagnostico-terapeutici cui vengono sottoposte specifiche categorie
di pazienti, finalizzata alla ottimizzazione/contenimento dei costi ed
all’incremento della produttività.
Spesso, con questa logica, tipica di chi ha
responsabilità di amministrazione e governo dei servizi, si tende a perdere di
vista quello che dovrebbe essere lo scopo essenziale, vale a dire la promozione
di interventi di documentata efficacia, per focalizzarsi su aspetti che
riguardano principalmente la riduzione dei “tempi morti” della permanenza
dei pazienti in ospedale. Obiettivo questo certamente anche desiderabile, ma in
un contesto preoccupato innanzitutto di garantire la qualità delle prestazioni
erogate.
All’estremo opposto vi è l’uso delle
linee-guida da parte della componente clinica, in cui la preoccupazione
principale e la massimizzazione dell’efficacia clinica, con scarsa o nulla
consapevolezza rispetto al costo opportunità delle diverse opzioni
terapeutiche. In questo secondo approccio le linee-guida finiscono con
l’essere lo strumento che serve “a rivendicare” l’acquisizione di
maggiori risorse, di nuove tecnologie, per perseguire quello che viene ritenuto
essere un livello clinico assistenziale di eccellenza.
Certamente uno dei problemi che questi due diversi
modi di intendere a livello locale l’uso delle linee-guida sollevano è la
scarsa comunicazione esistente tra il mondo clinico e quello manageriale,
l’ancora molto limitata capacità dei clinici di entrare nel merito di aspetti
gestionali ed organizzativi e, simmetricamente, l’insensibilità di chi ha
responsabilità gestionali nei confronti di problematiche relative alla
efficacia clinica dei servizi e degli interventi offerti. Uno dei rischi della
situazione attuale, che ha visto indubbiamente gli amministratori acquisire
maggiore autorità e “peso specifico”, è quello di passare semplicemente
dalla fase di “dominio” della realtà clinica su quella amministrativa (con
l’imposizione di scelte operative sulla base di una autorevolezza legittimata
da un contesto che privilegiava le competenze mediche), ad un altrettanto
indesiderabile “dominio” degli amministratori sui clinici, in virtù di un
contesto che pone oggi l’accento sul problema del contenimento delle spese e
spinge verso un approccio “ecomomicista” alla sanità.
Non è per nulla scontato che le linee-guida, una
volta calate in queste dinamiche, si trovino ad essere il momento in cui queste
due culture trovano finalmente un ambito dialettico di confronto, piuttosto che,
al contrario, lo strumento con cui una della due afferma il prevalere del
proprio specifico punto di vista. Incidentalmente, facendo una ardita analogia
con quanto avvenuto sul piano della produzione industriale, si potrebbe anche
dire che le linee-guida rappresentano il momento in cui si ratifica il passaggio
da una medicina “artigianale”, in cui il singolo operatore è detentore e
determinante principale dell’intero ciclo produttivo, ad una medicina
“industriale” e “fordista”, in cui il ciclo produttivo passa sotto
controllo e verifica esterna, le mansioni sono parcellizzate tra le diverse
competenze e standardizzate nei modi e nei tempi di esecuzione. Questa evoluzione, in base alla quale la “managed care”
può essere vista come conseguenza inevitabile della evoluzione della medicina,
almeno quanto il fordismo lo è stato per quella industriale, rimanda, tra le
altre cose, ad uno scenario in cui il conflitto tra dimensione manageriale e
dimensione clinica diventa parte integrante della realtà assistenziale,
probabilmente più di quanto non lo sia stato in passato. Questo conflitto
necessita di momenti attraverso i quali possa esprimersi ed essere governato.
In questo senso, mentre sarà certamente
interessante esplorare in futuro quanto questi aspetti del fenomeno linee-guida
incidano sulle diverse figure professionali e sulla qualità
dell’organizzazione del lavoro ospedaliero, già adesso pensiamo si possa
affermare che anche a livello locale, simmetricamente a quanto abbiamo già
visto a livello più generale, si ripropone la necessità di chiarire a quale
definizione di linee-guida o meglio, a quale tipo di relazioni sociali, fare
riferimento. Ancora una volta la definizione di linee-guida come politiche
assistenziali condivise ci appare come la più adeguata al favorire il
necessario confronto tra culture e punti di vista che dovrebbero nelle
informazioni scientifiche il necessario punto di riferimento e di verifica.
Conclusioni
Ovviamente non si tratta in questa sede di trarre
vere e proprie conclusioni, quanto piuttosto di stimolare una discussione che
sappia individuare, tra le diverse possibili modalità di impiego delle
linee-guida, quella più funzionale ai problemi che abbiamo di fronte ed al tipo
di relazioni sociali che riteniamo desiderabili in ambito sanitario.
Quello che ci premeva sottolineare con questo
intervento è che dal modo in cui verrà disegnata “l’infrastruttura”
deputata alla produzione e disseminazione di linee-guida nel SSN, dipenderà il
ruolo che questo strumento, con cui dovremo tutti abituarci a convivere, potrà
acquisire.
1.
Grilli R, Penna A, Liberati A.
Migliorare la Pratica Clinica. Produrre ed Implementare Linee-guida. Il Pensiero
Scientifico Editore, 1995;
2.
Institute of Medicine. Guidelines
for Clinical Practice. From Development to Use. Washington DC: National Academy
Press, 1992;
3.
Penna A, Grilli R, Liberati A.
L'esperienza francese di produzione di linee-guida e le References Medicales
Opposables. ASI
1998;35-37.
4.
Lomas J. Making clinical policy
explicit. Legislative policy making and lessons for developing practice
guidelines. Inter J Tech Assess
Health Care 1993;9:11-25.
5.
Grilli R, Penna A, Zola P, Liberati
A. Physicians' view of practice guidelines. A survey of Italian physicians.
Soc
Sci Med 1996;43:1283-1287.
6.
Grilli R. Le linee-guida nell'era
della assistenza basata su prove di efficacia: da semplici raccomandazioni a
politiche assistenziali condivise. In: Liberati A, ed. La Medicina delle Prove
di Efficacia. Potenzialità e Liniti della Evidence-Based Medicine. Roma: Il
Nuovo Pensiero Scientifico Editore, 1997;
7. Naylor C.D. Grey zones of clinical practice: some limits to evidence-based medicine. Lancet 1995;345:840-842.
torna all' INIZIO ========================================================================================================
ANZIANO
CON SCOMPENSO CARDIACO: QUANDO E' NECESSARIO RICOVERARE?
E. Li Greci
- Verona
La mutata fisionomia del principale
"utente" dell'assistenza sanitaria che e', appunto, di eta' sempre
piu' avanzata suscita l'impressione che il mondo medico, ed in particolare
quello cardiologico per i motivi che vedremo, debba prepararsi ad affrontare con
saggezza la formidabile sfida posta dall'invecchiamento della societa'.
Ci dobbiamo pertanto necessariamente confrontare,
come e' facilmente desumibile dai ben noti dati epidemiologici , da un lato con
il costante aumento dei ricoveri per scompenso cardiaco nelle fasce di eta' piu'
avanzate, invece numericamente immodificati per fasce di eta' inferiori ai 70
anni (per quanto attiene gli USA la diagnosi di scompenso cardiaco e' la piu'
frequente nei pazienti ospedalizzati >65 anni e determina oltre 500.000
ricoveri l'anno) e d'altra parte con l'incessante tentativo di contenimento
della spesa sanitaria che pone sempre piu' chiare restrizioni
all'ospedalizzazione e che non possiamo assolutamente trascurare onde evitare di
vedere non riconosciuto, in quanto ritenuto incongruo, il lavoro svolto in
corsia.
E' proprio di questi giorni infatti l'adozione, da
parte di alcune regioni, del modello PRUO, indicatore di appropriatezza di
ricovero, del quale mi limito a segnalarvi, e poi ne vedremo il perche', le
limitazioni di incongruita' in
particolare a fini diagnostici e di mancato supporto socio-familiare.
Un'ulteriore difficolta' nel puntualizzare
adeguatamente la situazione e' quella rappresentata dall'attuale dinamismo della
medesima.
L'entita' del problema relativa alla cura/prevenzione
dello scompenso cardiaco e' stata progressivamente recepita con la conseguenza
di innescare, cosi' come gia' fatto in altri paesi, molteplici tentativi di
ottimizzazione della gestione domiciliare di tali pazienti che potrebbero
ovviamente modificare nel tempo quelle che tutt'ora appaiono come solide
motivazioni di ricovero.
Infine ricordiamo che quando si parla di eta'
geriatrica e' possibile, piu' che in altri casi, enfatizzare il concetto della
"vecchia" dicotomia della medicina come scienza e come arte essendo la
prima appunto espressa dall'evidence based medicine e la seconda dalla capacita'
intuitiva del medico di cogliere la complessa ed irripetibile individualita'
dell'ammalato dal punto di vista clinico ma anche, e soprattutto per quanto
riguarda il paziente di nostro interesse, socio-familiare e che entrambe
dovranno legittimamente influenzare in egual misura il sanitario nel prendere la
decisione che riterra' piu' opportuna per gestire al meglio il proprio paziente
anche, ed ancor piu', nel caso dell'indicazione al ricovero per scompenso
cardiaco.
Oggi, alle soglie del 2000, e' esperienza comune che
e' possibile trattare a domicilio molti pazienti con insufficienza cardiaca
manifesta altrettanto bene che in ospedale.
Decidere quali pazienti possano essere trattati a
domicilio e quali in ospedale richiede un'accurata definizione ezio-patogenetica
della cardiopatia di base con corretta valutazione della compromissione
anatomo-funzionale e del conseguente deficit di pompa.
L'altra condizione per una scelta appropriata e'
l'accertamento del contesto socio-familiare in cui il paziente vive e della
fattiva collaborazione del medico di medicina generale all'assistenza
domiciliare in considerazione della necessita' di interventi talora molto
ravvicinati.
Alla luce delle premesse poste ritengo che il modo di
procedere piu' corretto per rispondere adeguatamente al quesito postomi sia
adesso quello di verificare, in assenza di una specifica indicazione per il
paziente anziano, i suggerimenti posti dalle principali societa' cardiologiche
relativamente al ricovero ospedaliero nel paziente con scompenso
cardiaco.
I dati della letteratura in tal senso, come gia'
detto, non sono comunque di facile interpretazione e nelle recenti linee guida
redatte dalla Task-Force sullo scompenso di ACC/AHA la trattazione
dell'argomento e' affrontata solo in modo marginale.
Ovviamente non esistono dubbi relativamente
all'indicazione al ricovero nei casi piu' gravi sia di prima presentazione che
in corso di riacutizzazione di un quadro di scompenso cronico.
Peraltro tale patologia e' caratterizzata da una
serie di situazione cliniche di gravita' intermedia
che possono porre evidenti interrogativi decisionali ancor piu' quando, come
spesso accade nell'anziano, si intrecciano con problematiche teoricamente non di
pertinenza squisitamente medica ma egualmente non sottovalutabili al fine di un
corretto procedere.
Iniziamo quindi a verificare cosa suggeriscono ACC/AHA:
CLASSE I (indicazioni comunque accettabili):
1)
paziente che per la prima volta presenta uno scompenso da moderato a
grave
2)
paziente con scompenso cardiaco ricorrente complicato da eventi o
situazioni cliniche pericolose (ischemia o IMA recenti - EPA - ipotensione -
embolia sistemica o polmonare - aritmie sintomatiche - altre patologie mediche
gravi)
CLASSE II (indicazioni controverse e di efficacia non
certa ma pur sempre accettabili)
1)
scompenso cardiaco da lieve a moderato
2)
paziente che per la prima volta presenta uno scompenso lieve.
Il problema della razionalizzazione dei ricoveri e
conseguentemente il tentativo di
proporre delle linee guida all’ospedalizzazione è affrontato anche nel
Braunwald dove le indicazioni al ricovero si basano sulle direttive del
AHCPR e riprendono quelle già viste ma
descritte in modo più analitico:
-
edema polmonare acuto o dispnea a riposo con ortopnea
-
anasarca o edemi declivi + turgore giugulare+epatomegalia+oligoanuria
-
sintomi a riposo o durante attività minima
-
pressione arteriosa sistolica minore 80 mmHg o sincope
-
aritmie ipercinetiche ventricolari (BEV frequenti – TV non sostenuta)
-
evidenza clinica o strumentale di ischemia miocardica
-
malattie concomitanti aggravanti o precipitanti lo scompenso
-
refrattarietà alla terapia farmacologica orale
-
inadeguata assistenza domiciliare
Credo siamo tutti d’accordo nel considerare queste
ultime indicazioni confacenti anche al paziente in età geriatrica.
E’ importante notare come compaiono nelle suddette
indicazioni anche voci come la compliance farmacologica, che sappiamo assai
difettosa nel paziente anziano con terapie complesse, e l’adeguatezza
dell’assistenza domiciliare che, invece, come abbiamo già visto vengono
ritenute incongrue dal modello PRUO prima sottopostovi.
Questo aspetto è da sottolineare perché, se non
esistono dubbi, come abbiamo detto, a ricoverare nei casi
più impegnativi sarà invece nei casi più lievi non supportati da un
contesto socio-familiare o da adeguata assistenza
medica domiciliare che emergeranno i maggiori dubbi relativamente al da
farsi.
E’ sicuramente vero che per taluni pazienti
l’indispensabile definizione ezio-partogenetica della cardiopatia di base sia
attuabile ambutatoriamente o in regime di DH ma, allo stato attuale
delle cose, in pazienti anziani con polipatologia invalidante e conseguente
disautonomia psico-motoria (pensiamo ai vari gradi di demenza senile e alle
comuni patologie osteodegenerative) o in
condizioni di totale solitudo ciò possa diventare estremamente difficoltoso e con tempi di attuazione
prolungati.
Sempre nei casi di scompenso più lieve attuare in
completa sicurezza l’approccio terapeutico può risultare difficoltoso e
spesso gravato da problematiche non sempre prevedibili (ricordiamo l’effetto
prima dose di alcuni indispensabili farmaci o il precipitare di una patologia
prostatica ostruttiva da piccole dosi di diuretico o il possibile peggioramento
di una patologia concomitante
misconosciuta) come pure indispensabile sia monitorare ravvicinatamente
molteplici parametri al fine di evitare di
rompere un già precario equilibrio preesistente con la necessità quindi di
un’assidua partecipazione del
medico di famiglia anche al fine del necessario e frequente adeguatamento
terapeutico e del controllo dell’eventuale evoluzione peggiorativa del quadro
clinico.
Si torna quindi a stressare il concetto
dell’indispensabile valutazione del grado
di assistenza domiciliare
familiare e medica affiancato alle manifestazioni cliniche nel decision-making
del ricovero del paziente anziano scompensato.
Vorrei adesso affrontare brevemente due punti non del
tutto attinenti all’argomento trattato ma a mio parere indispensabili per una
corretta definizione dei contorni del medesimo.
A chi spetta prevalentemente la decisione di
ricoverare un paziente in ospedale?
Credo siamo tutti d’accordo che in maggior
percentuale è il medico di medicina generale che affronta tale problematica
valutando tutti i vari punti verificati (dei quali dovrebbe anche essere il
miglior conoscitore) senza peraltro poter dimenticare le continue
“raccomandazioni” di evitare di aggravare
i già pesanti bilanci del sistema sanitario nazionale.
Vorrei pertanto tentare di individuare uno strumento
estremamente semplice in quanto basato solo sulla classificazione NYHA in grado
di aiutare il medico di medicina generale:
-
pazienti con insufficienza cardiaca
in classe NYHA II sono candidati
alla gestione ambulatoriale a patto
esistano condizioni cliniche
globali e socio-familiari che lo
consentano
-
nel gruppo di pazienti in classe NYHA III non complicati si può iniziare
il trattamento a domicilio considerate le situazioni già citate per la classe
II alle quali va aggiunta la necessità di una più attenta monitorizzazione per
cogliere tempestivamente i casi “non responders”
-
i casi in classe NYHA III complicati da aritmie sintomatiche,
flebotrombosi, febbre persistente, episodi embolici, evidenza di ischemia, iper
o ipotensione marcata, grave copatologia vanno ricoverati.
L’ultimo punto che vorrei toccare riguarda la sede
più idonea di ricovero per il paziente anziano con scompenso cardiaco:
la divisione cardiologica o quella di geriatria?
In realtà è difficile stabilire in quali casi sia
opportuno assistere un paziente in reparto
specialistico e in quali, viceversa, sia sufficiente un reparto di
medicina geriatrica.
In linea di massima è auspicabile che il ricovero
avvenga in reparto cardiologico
ogni qualvolta si ritenga che il paziente, anche transitoriamente, possa
effettivamente beneficiare della strumentazione e dell’assistenza
specialistica disponibili.
Opportuno il ricovero nelle divisioni geriatriche
quando siano prevalenti gli aspetti di
comorbilità precipitanti il quadro di scompenso.
Come ho già detto
all’inizio della mia trattazione la patologia di pertinenza
cardiologica (e lo scompenso cardiaco in particolare)
andrà sempre più riguardando la popolazione anziana imponendo una maggiore
conoscenza specialistica da parte dei medici delle divisioni geriatriche onde
poter allargare la coorte di pazienti potenzialmente ricoverabili nelle medesime
dove la conoscenza della
polipatologia ed una visione più globale dell’ammalato dovrebbe garantire una
maggior efficacia nelle cure.
Allo stato attuale delle cose purtroppo si ha invece
talora l’impressione che al paziente non ricoverato in reparto specialistico
possa venir meno il più indicato e razionale iter diagnostico-terapeutico.
In effetti ancora troppe sono le divisioni
geriatriche che non attuano i programmi più avanzati relativamente alla terapia
dello scompenso (es.: i trattamenti intermittenti con inotropi e con
beta-bloccanti), o mancano del necessario accanimento nel tentativo di recupero
della sinusalità o limitano l'uso degli anticoagulanti o non pongono
indicazione ai trattamenti invasivi per la cura/prevenzione di alcune
tachiaritmie ponendo pertanto una sorta di handicap alla migliore gestione
dell'anziano con problematiche cardiologiche.
D'altra parte ritengo sarebbe assai più difficoltoso
chiedere al cardiologo di diventare un po’ geriatra.
torna all' INIZIO ============================================================================================================
La gestione sul territorio del paziente con scompenso cardiaco
Alessio Micchi (Costermano - Vr)
Negli ultimi anni è stato registrato un progressivo, sensibile incremento
di morbilità e di mortalità in relazione con lo scompenso cardiaco, pur
osservandosi una riduzione della mortalità globale dipendente da eventi
cardiovascolari. Questa
situazione è giustificata dall’effettiva diminuzione di decessi osservata per
alcune patologie cardiache (in particolare per
le manifestazioni
acute della
cardiopatia ischemica) e dall’aumento
di età della
popolazione generale, che ha
condizionato una maggiore incidenza di cardiopatie
di tipo degenerativo e
conseguenti ad ipertensione (A.Tavazzi, 1998)
L'incidenza annuale dello scompenso cardiaco, dai dati del Framinghan Study, è nella popolazione sino a 65 anni del
2‰ per le donne e del 3‰ per
gli uomini; è intuibile che
l'incidenza aumenta con l'aumentare dell'età, arrivando negli ultraottantenni
(84-94 anni) al 28‰ per le donne
e al 31‰ per gli uomini.
La
prevalenza nella popolazione italiana è attorno allo 04-2%, mentre nella
popolazione Veneta arriva al 43.2% fra 65-74 anni ed addirittura al 58.2% nei
pazienti con più di 85 anni. Come tutti sanno, la mortalità è elevata:
Nella
gestione dello scompenso cardiaco sul territorio, il Medico di Medicina Generale
(MMG) (così come il Cardiologo del Territorio), si trova di fronte a due tipi
di problemi gestionali:
1.
problemi di gestione scientifica
2.
problemi di gestione sanitaria
Due le modalità di possibile presentazione sul
territorio dello scompenso cardiaco:
1.
SCOMPENSO CARDIACO ACUTO
ü edema polmonare acuto
ü shock cardiogeno
2.
SCOMPENSO CARDIACO CRONICO.
1.
SCOMPENSO CARDIACO ACUTO
ü EDEMA POLMONARE ACUTO
TERAPIA EXTRAOSPEDALIERA DA PARTE DEL MMG
A)
PROVVEDIMENTI DI CARATTERE GENERALE
- mantenere la posizione seduta
- ossigenoterapia (6-8 l/m’; concentraz. 50-80%)
- salasso meccanico (tre lacci, rotaz. ogni 20 m’)
- incannulare una vena (pref.catetere venoso centrale)
- catetere vescicale con urinometro
-ventilazione assistita, se necessario
B) TERAPIA FARMACOLOGICA:
diuretici
- Furosemide 40-80 mg ev (sino a 250 mg)
- Acido etacrinico 50-100 mg ev
Vasodilatatori venosi
- ISDN
5-15 mg s.l
- Nitroglicerina in
boli ev di 0.5 mg od infusione
continua
Vasodilatatori arteriosi
- Nifedipina gcc perlinguali (poco maneggevole per l'imprevedibilità
d'azione)
Morfina (di
difficile reperimento per infiniti problemi legali)
C)
TERAPIA MIRATA:
infarto miocardico: nitroglicerina,
morfina;
crisi ipertensiva: nifedipina,
nitroglicerina, diuretici;
stenosi mitralica: nitroglicerina,
diuretico;
bassa portata: dopamina o dobutamina;
insufficienza aortica: nitroglicerina,
digitale;
stenosi aortica: nitroglicerina,
digitale se dilataz. Ventricolare;
fibrillazione atriale: digitale,
diuretici, nitroglicerina;
broncospasmo: terapia di base +
aminofillina;
acidosi: terapia di base + bicarbonato;
agitazione: terapia di base
+ morfina
SHOCK
CARDIOGENO
TERAPIA
EXTRAOSPEDALIERA DA PARTE DEL MMG
- due vie venose (calibro 16
G. o maggiore)
- se polmoni “puliti”:
somministrare liquidi
- ossigenoterapia
- correggere l’acidosi:
bicarbonato di sodio.
Il compito fondamentale del
MMG, è comunque, in questo caso, un rapido inquadramento diagnostico e l'invio
immediato del Paziente, anche con l'uso di eliambulanza, in ambiente protetto (UTIC)
Il ruolo del MMG diventa sicuramente indispensabile nella
gestione sul territorio dello
scompenso cronico tanto che i
compiti che il DPR 22/07/96,
n° 484, stabilisce
per la
Medicina Generale, corrispondono perfettamente
con gli
"obiettivi del
trattamento dello
scompenso", così
come indicato anche
dalle "Linee
guida sullo scompenso 98"
dell'AMNCO (Tab. 1)
Tab.1
A) prevenzione
A) prevenire
l’insorgenza e la
progressione
dello scompenso
B) diagnosi precoce
B) eliminare la causa
C) terapia
C) - migliorare i sintomi e la qualità di vita
- migliorare la sopravvivenza
DPR
22/07/96, n° 484
ANMCO,
1998: Linee guida sullo scompenso
Il
MMG ha quindi compiti di:
1.
prevenzione
2.
diagnosi
3.
terapia
1.
PREVENZIONE
·
PREVENZIONE
PRIMARIA
Molto può fare, in questo campo, chi
tutti i giorni “vede” un numero elevato di Paziente e chi con loro ha un
rapporto spesso confidenziale e coinvolgente. La prevenzione non può che essere
il compito fondamentale di chi lavora in prima linea e quindi di chi può
scoprire e controllare fattori di rischio, abitudini alimentari sbagliate,
qualità di vita disordinata.
La Tab.2 evidenzia quanto, ed in che
modo, può fare il MMG.
TAB
1: eziologia dello scompenso e possibilità d'intervento del MMG
EZIOLOGIA
INTERVENTO
1. MALATTIA CORONARICA
42%
1. Controllo dei F.R.: fumo,
CT, PA, sovrappeso
2. CARDIOMIOPATIA DILATATIVA
15.3%
2. astensione da alcolici
3. IPERTENSIONE
15%
3.
controllo valori pressori
4. VALVOLARE 14%
4. profilassi malattia reumatica, chirurgia
THE EOSI INVESTIGATION:
AMERICAN FAMILY PHYSICIAN 04/98
Eur. Heart J. 1997; 18: 1457-1464
http: //www.afp.org
·
PREVENZIONE
SECONDARIA
Ancora maggiori sono le possibilità di
intervento del MMG nella prevenzione secondaria dello scompenso.
Chi più del MMG può informare i
Pazienti ed i loro famigliari sulla patologia in atto, sulle cose da fare, su
come prendere i farmaci, su come prevenire alcune cause di aggravamento? Chi più
del MMG può seguire la terapia, i suoi effetti, le sue complicanze?
Allora quali i compiti del MMG?
ü
EDUCAZIONE SANITARIA
-
consigli generali
-
consigli dietologici e abitudini sociali
-
riposo ed esercizio
ü
PREVENZIONE DELLE CAUSE DI AGGRAVAMENTO
-
cardiache
-
non cardiache
ü
TRATTAMENTO FARMACOLOGICO
EDUCAZIONE SANITARIA
Consigli generali
-
Spiegare che cos’è lo scompenso e la ragione dei sintomi al Paziente ed ai
Familiari
-
Spiegare le cause dello scompenso e come riconoscere i sintomi (dispnea,
ortopnea, fatica, edema)
-
Insegnare cosa fare alla comparsa dei sintomi, come autogestire il diuretico
-
Insegnare quando è necessario l'intervento del medico
-
Insegnare l'autocontrollo quotidiano del peso: se aumento rapido (>2 Kg in
1-3 die): diuretico o Medico
-
Spiegare le basi della terapia farmacologica e non farmacologica
-
Eseguire la vaccinazione antinfluenzale
-
Raccomandare l'Importanza dell'igiene personale (cura dei denti, della pelle,
ecc.)
-
Abolire il fumo
Dieta
-
Riduzione del peso - Riduzione del
sodio - Restrizione alcolica
Attività fisica quotidiana
- Lavoro - Hobby - Esercizio fisico -
Attività sessuale.
PREVENZIONE
DELLE CAUSE DI AGGRAVAMENTO
Anche questo e' un campo in cui il MMG
può far molto, attraverso un'attenzione,
prevenzione, cura alle cause cardiache e non cardiache di aggravamento sotto
elencate:
Cardiache:
tachiaritmie sopraventricolari:
FA, FL..A, TPSV.
-
“
ventricolari: TV.
bradicardie: disfunzione
sinusale, blocchi A-V di grado avanzato
comparsa/aggravamento di rigurgiti valvolari:
mitralici, tricuspidali.
ischemia miocardica/IMA: frequentemente asintomatici.
Non cardiache:
non compliance al regime terapeutico prescritto
recenti variazioni del regime terapeutico farmacologico (es
antiaritmici, b-bloccanti, verapamil,
diltiazem, FANS)
sviluppo di tolleranza ai farmaci (nitroderivati,
diuretici)
tossicosi esogene (alcolismo, tossicodipendenze)
disfunzione renale (eccessivo uso di diuretici)
infezioni acute (batteriche, virali)
complicanze emboliche (polmonari, sistemiche)
disfunzioni tiroidee (amiodarone)
anemia (sanguinamenti occulti)
diabete mellito scompensato
ipertensione arteriosa non adeguatamente controllata
E' importante tenere presente che la causa che più
facilmente fa precipitare uno scompenso non è tanto un infarto miocardico, ma
quasi sempre la mancata compliance del paziente.
CAUSE PRECIPITANTI LO SCOMPENSO
Scarsa aderenza al trattamento (dieta, farmaci)
64.4%
Ipertensione non controllata
43.6%
Aritmie cardiache (FA,
FLA, TAS, TV)
28.7%
Fattori ambientali
18.8%
Terapia inadeguata
16.8%
Infezioni polmonari
11.9%
Stress emozionali
6.9%
Somministrazione non
appropriata di farmaci e liquidi
4%
Infarto del miocardio
5.9%
Patologie endocrine (tireotossicosi) 1%
TRATTAMENTO FARMACOLOGICO
Farmaci
- effetti
- dose ed orario di somministrazione
- effetti collaterali
Importanza
dell'aderenza alle prescrizioni
- complessità del trattamento
- rilevanza ai fini dell’efficacia del trattamento
- effetti
collaterali
2.
DIAGNOSI
Tab. 3
Definizione di scompenso cardiaco (i criteri 1 e 2 sono indispensabili):
1. Sintomi di scompenso
cardiaco (a riposo o durante sforzo)
2. Segni obiettivi di
disfunzione cardiaca (a riposo)
3. Risposta alla terapia
adeguata (in caso di diagnosi dubbia)
Indagini strumentali:
ECG
Rx torace
Ecocardiogramma
Il farmaco che ha cambiato la storia
naturale della malattia è
indubbiamente l'ACE-inibitore, usato a piene dosi.
E’ innegabile che dai MMG è
usatissimo nell’ipertensione (un iperteso su due è nella nostra USL trattato
con Ace-inibitori, molto meno, e spesso a dosaggio insufficienti, nello
scompenso cardiaco. Deve oramai entrare nella nostra testa e quindi nella nostra
penna la prescrizione di Ace-inibitori sino dalla I classe NHYA.
Nelle classi successive (tab.4) si usano
farmaci da noi ben conosciuti ed apprezzati. Una particolare attenzione va
riservata al controllo di Pazienti dimessi anche con B-bloccanti.
Tab.4
GESTIONE SANITARIA
Il
continuo aumento della spesa sanitaria in Italia è un problema grave, che
coinvolge tutti colore che hanno a che fare con la sanità.
La
spesa complessiva nel 97 è stata pari a 107.201 miliardi (mld), di cui 106.523
riferibili all’assistenza. Il disavanzo complessivo, stimato alla data
13/03/98, della gestione finanziaria corrente del SSN, ammontava a 8.628 mld.
E'
noto a tutti il crescente costo dell'assistenza ospedaliera confermato anche
dalla Corte dei Conti, che , nella
Relazione Generale sulla situazione del Paese nel 1997, affermava che
“……..a gravare sui costi della sanità in maniera significativa è
la spesa ospedaliera. In due anni (1996-97), in questo settore,
la spesa è cresciuta del 16%, coiè pari a 7.000 mld di lire.
Lo
scompenso cardiaco a questa spesa da un buon contributo,
per il grande impegno di risorse, spesso
"ospedaliere". (Tab.5)
Tab.5
- Pazienti dimessi
dalle strutture
ospedaliere pubbliche e private convenzionate,
con diagnosi principale di
“scompenso cardiaco”:
86.235
- Giornate di degenza: 975.335
- Degenza media:
11 giorni
Dati
ISTISAN 95
Non vi è quindi dubbio che, come recentemente
riportato da Opsich-Tavazzi (G Ital Cardiol 08/1998),
“lo scompenso cardiaco cronico rappresenta un problema di salute di
dimensioni rilevanti e crescenti, che richiede urgentemente soluzioni gestionali
coerenti con il nuovo assetto che il SSN sta assumendo nel nostro paese”.
Sono oramai indispensabile programmi di management capaci
di ridurre i costi assistenziali, di migliorare la qualità di vita dei
pazienti. di ridurre mortalità e morbilità.
Per
questo, sia in Italia sia all’estero, sia dall'Ospedale sia dal Territorio
sono stati ideati tutta una serie di “modelli gestionali” sia specifici per
lo scompenso, sia dedicati ai malati cronici, tutti comunque tesi a risparmiare
risorse ed a migliorare l’assistenza sanitaria. Tab.6.
Tab.6
MODELLI GESTIONALI “DELL’OSPEDALE”
MODELLI GESTIONALI “DEL
TERRITORIO”
-
creazione di ambulatori dedicati, gestiti da personale
- specialisti ambulatoriali
infermieristico specializzato
- specialisti operanti in strutture private
-
sviluppo dell’assistenza domiciliare specializzata
- “dimissioni protette”
-
gestione telematica
- RSA (residenze sanitarie di assistenza)
-
utilizzo di centri di riabilitazione cardiologica
- ADI (assistenza domiciliare programmata)
-
creazione di unità di breve degenza per Pazienti
- ADP (assistenza domiciliare programmata)
in fase di instabilizzazione
- Country Hospital affidati a MMG (www.geotis.com)
-
unità intensive ed intermedie per lo scompenso
- Medicina di gruppo
-
ambulatori dedicati e Day-hospital
- associazionismo Medico
-
ospedalizzazioni domiciliari
Il
grande problema di questi modelli gestionali è la loro mancata integrazione:
spesso, ognuno va per la sua strada incurante di quello che succede attorno,
spesso vi è un vero muro tra ospedale e territorio (MMG e Cardiologi
territoriali).
Ma
la sanità del 2000, la ristrutturazione negli ospedali ed in particolare la
riduzione di posti letto, impone,
ed imporrà soprattutto in futuro, l'integrazione,
una continua collaborazione tra ospedale e territorio, quindi un dialogare ed un
lavorare assieme per un obbiettivo comune: tutela della salute con contenimento
dei costi.
La
proposta personale è di affidare Pazienti in scompenso cardiaco critico ai
MMGed ai Cardiologi del territorio (cardiologi ambulatoriali ma anche MMG con
specialità in Cardiologia) attraverso l'Assistenza Domiciliare Integrata (A.D.I.)
gia' codificata nel DPR 22/07/1996 n°484 (Tab.7).
L'ADI
può sicuramente diventare lo strumento di integrazione fra MMG, cardiologi del
territoio, Struttture Ospedaliere dedicate allo scompenso:
PAZIENTE IN SCOMPENSO CRONICO
ASSISTENZA
DOMICILIARE INTEGRATA
UNITA’ OSPEDALIERE PER LO SCOMPENSO
Tab.7
“ Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei
rapporti con i medici di medicina generale……...”
(Allegato H)
Art. 1: prestazioni
1.1 L’assistenza
domiciliare integrata, di
cui all’art. 39
comma 1,
lettera C,
è svolta
assicurando al domicilio del paziente le
prestazioni:
- di medicina generale;
- di medicina specialistica
-
infermieristiche domiciliari e di riabilitazione
- di aiuto domestico da parte dei familiari o del competente servizio
delle aziende
- di assistenza sociale.
1.2 Lo svolgimento
è fortemente
caratterizzato dall’intervento integrato dei
servizi
necessari, sanitari
e sociali,
in rapporto
alle specifiche
esigenze di ciascun
soggetto al fine di evitarne il ricovero.
D.P.R 22
luglio 1996, n. 484
BIBLIOGRAFIA:
-
Opasich C, Tavazzi L., Riflessioni sul problema
organizzativo dell'assistenza al paziente con scompenso cardiaco cronico.
G Ital Card 1998; 28: 913-919
-
Menotti A., Seccareccia F., Epidemiologia delle malattie
cardiovascolari in Italia
La Cardiologia nella Pratica Clinica 1997; 4:
241-283
-
ACC/AHA Task Force Report. Guidelines for the evalutation
and management of heart failure.
-
J Am Cool Cardiol 1995; 26: 1376-98
-
The Task Force of the Working Group on Heart Failure of
the European Society of Cardiology. The treatment of heart failure. Eur Heart J
1997; 18: 736-753
-
ANMCO, SIC, ANCE: Linee guida cliniche 1998;
Piccin & Cepi
-
Gavazzi A.: Lo scompesno di cuore. La Medicina
Internaionale 1998; 12.
-
Ho KKL., Pinski J.L., Kansel W.B., et al. (1993), The
epidemiology of heart failure: the Framinghan study.
-
J. Am. Coll. Cardiol. 22 (Suppl. A9, 6A-13A.
-
Ho KKL., Anderson KM, Kannel WB, Grossman W., Levy D.:
Survival after the onset of congestive heart failure in
-
Framinghan Study subjects. Circulation 1993; 88: 107-715.
-
Cowie MR., Mosterd A., Wood DA., et al., The epidemiology
of heart failure.
-
Eur. Heart J. 1997; 18: 208-2251997
-
Ambrosio GB., Riva LM., Zamboni S. et al. Lo scompesno di
cuore nella popolazione: dati di prevalenza.
-
Cardiologia 1992; 37: 685-691.
-
Ambrosio GB., Casiglia E., Spolaore p. et al. Prevalence
of congestive heart failure in elderly. A survey from a population
-
In the Veneto region. Acta Cardiol. 1194; 49: 324-327.
-
Jay N., Cohn, Preventing Congestive Heart Failure.
American Family Physician April, 1998
www: aafp.org/afp/980415ap/chon.html
-
Ministero della sanita': rapporto ISTISA e Piano
Sanitatio Nazionale 1998; www:interbusiness.it
-
Hughes S., Ulasevich A., Weaver F., et al. Impact of home
care on hospital days: a meta analysis.
-
Health Service Research 1997; 32: 415
-
Siu Al. The effect of home care on hospital days: what is
the take home message?
-
Health Service Research 1997; 32: 385-389
-
Nobili s., Assistenza domiciliare: una sfida per il
futuro. M.D. 1998; 17: 13
-
Argentini F., Ssn: spesa attuale e finanziamenti futuri.
1998; 18: 4
-
Proto C., Faggiano P. Scompenso cardiaco: patologia del
territorio. Cardiol. Extraosp. 1997; 3: 246-247
-
Poole-Wilson P.A., Colucci W.S., Massie B.M., Chatterjee
K., Coats A.
Heart Failure - Scientific Principles and Clinical practice". 1997; Churchill Livingstone Inc.
===================================================================================
Verifica
di Qualità dell’Assistenza Sanitaria
tra procedure e risultati
Plinio Pinna Pintor
Fondazione Arturo Pinna Pintor - Torino
Nello
scorso Agosto sono state dichiarate inagibili e chiuse per la sanificazione
alcune sale operatorie del più grande ospedale piemontese,, a seguito di un
controllo batteriologico dell'aria e delle superfici effettuato dai NAS su
indicazione del Procuratore della Repubblica (Fig. 1).
Il
controllo è stato effettuato con uno speciale apparecchio per il
campionamento istantaneo dell'aria, e l'agibilità delle sale è stata
giudicata in base al dato analitico risultante, vale a dire sul numero di unità
formanti colonie batteriche che, se superiore agli standard di quel
metodo, è considerato inaccettabile per il rischio di infezioni che
comporterebbe.
La
campagna giornalistica che ne è seguita ha creato non poco scompiglio e
caduta di prestigio dell'ospedale che già, in più occasioni, era stato nelle
cronache per misteriosi inquinamenti da gas anestetici.
Da
una approfondita verifica del metodo usato per giudicare la qualità
dell'ambiente sotto il profilo batteriologico è emerso che il metodo
utilizzato, proposto 30 anni fa, è oggi considerato obsoleto dagli esperti in
quanto non si è mai potuta dimostrare una correlazione fra i dati
batteriologici dell'aria ambientale e le infezioni nosocomiali [i] (se si esclude la famosa
epidemia di legionella pneumoniae).
Questo
episodio è interessante per più motivi:
1) come esempio dei
limiti insiti nella valutazione della qualità delle organizzazioni sanitarie,
in questo caso la sicurezza nelle sale operatorie di un grande ospedale,
basandosi solo su indicatori di processo
o procedura (forniti per di più da un metodo obsoleto) quale è il
buon funzionamento dal punto di vista microbiologico dell'impianto di aria
condizionata e piuttosto che sui
risultati, cioè sulla prevalenza delle infezioni osservate in un
determinato periodo nella stessa sala.
2) In secondo luogo,
perché una valutazione impropria basata solo sul "processo" ha
determinato provvedimenti limitativi dell'attività di un grande ospedale,
costi e perdita di immagine.
Non
è di oggi il dibattito su quali aspetti del sistema assistenziale siano più
adatti a rilevarne la qualità.
E’
opportuno ricordare per la sua indiscussa ed esaustiva chiarezza il cosiddetto
“Paradigma di Donabedian” che considera oggetto della verifica di qualità
le seguenti caratteristiche [ii]:
§
le
strutture (structures)
cioè le caratteristiche o
proprietà fisiche ed organizzative del sistema ossia del contesto ambientale
in cui vengono effettuate le cure (es. dimensioni degli ambienti, condizioni
climatiche, percorsi, dotazioni strumentali, ore di assistenza
infermieristica),
§
Il
processo o procedura (process) cioè
le modalità con cui le cure vengono effettuate o, secondo la definizione
della Joint Commission in Accreditation of Health Care Organization degli USA,
la serie di eventi, attività, meccanismi o prassi destinate ad ottenere un
risultato. (es. le modalità di accettazione, di compilazione delle cartelle,
della loro archiviazione, il rispetto delle norme di sicurezza e così via).
§
I
risultati o esiti (outcomes)
sono variazioni misurabili della salute o del contrario: mortalità e
complicanze, riconducibili a determinati interventi e possono essere
specificati come: clinici, fisiologici e biochimici, emozionali e cognitivi,
psicosociali, soddisfacimento del paziente).
Indipendentemente
dalle caratteristiche che si intende valutare, è necessario disporre per
ciascuna di esse di modelli di riferimento quantificabili, che vengono
definiti indicatori. Gli indicatori,
siano di strutture di processo o di esito, vengono elaborati con il consenso
di esperti sulle ricerche specifiche e sulla documentazione della letteratura.
Il
giudizio sulla qualità viene espresso come livello di conformità della organizzazione o dei singoli
professionisti, in percentuale o in termini categorici o scalari, rispetto
agli indicatori ed agli standard relativi.
Oggi
si ritiene che non sia sufficiente, per esprimere un giudizio oggettivo sulla
qualità dell'assistenza, basarsi solo su una batteria di indicatori limitati
ad uno dei tre aspetti di struttura, di processo o di esito. Ognuno di questi
gruppi di indicatori ha un limite di validità intrinseco.
Per
quanto riguarda strutture e processi, in molti casi, infatti, non è stata
dimostrata una correlazione convincente con gli esiti, se per esiti si intende
- come è ragionevole - un miglioramento della salute od il suo contrario,
come la morte o le complicanze.
Vi
sono in proposito numerosi esempi in letteratura.
Il
limite principale degli indicatori di struttura e di processo è di carattere
metodologico ed è insito nella debolezza del metodo deduttivo da cui non ci
si può mai aspettare certezze ma, al massimo, una buona probabilità.
Come
dice O. Leary [iii],
il Presidente della Commissione di accreditamento degli USA: se si fanno bene
le cose giuste è molto probabile che si avranno buoni risultati. Non è
sempre così.
Nel
1990, ad esempio, in uno studio condotto dall’allora presidente della Joint
Commission, W. Jessee [iv],
su più di 5.000 Ospedali Medicare non è stato possibile dimostrare alcuna
differenza di mortalità globale nè di quella per ictus e per attacchi
cardiaci, tipico indicatore di esito, fra gli ospedali conformi agli standard
strutturali e procedurali della Commissione e quelli al di sotto degli
standard.
Ciò
ha posto in dubbio il potere discriminante degli standard di processo.
Un
altro esempio nostrano e più recente è l’obbligo, tra i requisiti minimi
per l’autorizzazione all’esercizio di tutte le strutture, oggi in
discussione nelle Regioni italiane, di un doppio percorso nelle sale
operatorie, sporco e pulito come si dice [v].
Ora,
sull’utilità del doppio percorso in termini di riduzione delle infezioni
nosocomiali, la letteratura è bilanciata tra il sì ed il no.
Imporre
strutture e procedure complesse e costose senza alcuna documentazione che
producano reali benefici sulla salute è sottrarre risorse verso provvedimenti
di provata efficacia.
Gli
indicatori di struttura e di processo tuttavia si possono accertare e misurare
più rapidamente e facilmente; è forse per questo che sono quelli sino ad ora
più diffuse nella normativa degli USA, Canada, Australia ed anche in Italia [vi].
D'altra
parte, la validazione degli indicatori di esito è molto difficile in quanto
gli esiti possono dipendere non solo dalla qualità delle strutture e delle
procedure ma, in molti casi, dalle caratteristiche della popolazione di
pazienti su cui agiscono.
La
difficoltà di utilizzare indicatori di esito era stata scoperta più di un
secolo fa da Florence Nightingale [vii].
Questa
coraggiosa missionaria laica della sanità scopre, al ritorno dalla guerra di
Crimea, enormi differenze di mortalità degli ospedali in Inghilterra e con
perspicacia geniale ne individua le cause nella differenza di gravità dei
malati ricoverati nei diversi ospedali e nel fatto, da lei osservato, che
alcuni trasferiscono i moribondi in altro ospedale diminuendo la loro mortalità
e aumentando quella di chi li ricovera. (Tav. I-III)
La
mortalità e le complicanze sono da considerare fra gli indicatori di esito, i
più inconfutabili per verificare la qualità dell’operato degli ospedali e
dei medici e per effettuare confronti fra le strutture, solo a condizione che
la gravità delle malattie delle popolazioni e molte altre condizioni, come la
selezione dell’accesso in ospedale, siano comparabili. Ciò
che è molto difficile rilevare.
Per
consentire la definizione di gruppi di pazienti omogenei per quanto riguarda
il rischio di mortalità e di complicanze, è necessario disporre di metodi di
stratificazione del rischio derivati su popolazioni di numerosità sufficiente
e basati su variabili cliniche facilmente rilevabili nella pratica ospedaliera
con un buon valore predittivo del rischio. Negli ultimi decenni sono molto
numerosi i modelli per predire il rischio di mortalità in molte specialità
mediche e chirurgiche.
La
verifica di qualità si baserà sugli scostamenti
nella frequenza degli eventi osservati rispetto a quelli attesi,
scostamenti che in generale non dovrebbero superare il doppio degli intervalli
di confidenza dei modelli.
Un
esempio recente è fornito dallo studio di mortalità in cardiochirurgia.
Quando,
alla fine degli anni 70, negli Stati Uniti venne posto il problema di
confrontare l'efficacia degli interventi chirurgici svolti in diversi Centri,
ci si rese subito conto che il confronto utilizzando dati grezzi di mortalità
perioperatoria sarebbe stato iniquo. Infatti, chi opera pazienti gravi ha
verosimilmente una mortalità maggiore di chi opera pazienti meno gravi e che,
forse, offre alla società un servizio meno rilevante di chi risolve casi
gravi. Da allora sono stati proposti numerosi modelli di stratificazione del
rischio pre-operatorio che hanno consentito di correggere la mortalità per
fattori che ne aumentano il rischio e sono facilmente evidenziabili prima
dell'intervento (Tav. IV). Alcuni di questi modelli sono stati utilizzati
negli anni '90 per mettere a confronto centri cardiochirurgici e singoli
cardiochirurghi nello stato di New York[viii]
e della Pennsylvania [ix].
Noi stessi abbiamo utilizzato questi modelli per confrontare la mortalità
operatoria di pazienti operati di due strutture dalla stessa equipe
cardiochirurgica, dimostrando che, a parità di chirurgo e di gravità dei
pazienti, il centro dove vengono operati può fare la differenza [x].
E'
opportuno un breve accenno alla legislazione italiana più recente sulla
Verifica di Qualità. (Tav. V)
Nel
decreto di riordino della riforma N. 502/517 del 1992 e 93 vi sono due
articoli che riguardano specificamente -il n. 10- l'adozione degli "indicatori
quale strumento ordinario e sistematico per l'autovalutazione e la verifica
dell'efficienza gestionale e dei risultati conseguiti nell'esercizio
dell'attività sanitaria", ed il N. 14 che "preordina uno specifico sistema di indicatori per la valutazione
delle dimensioni qualitative del servizio riguardante la personalizzazione e
l'umanizzazione dell'assistenza, il diritto all'informazione ed alle
prestazioni alberghiere, nonché l'andamento dell'attività di
prevenzione".
L'elenco
degli indicatori è contenuto nei decreti attuativi approvati nel 95 e nel 96.
Infine,
è stata approvata nel 1995 la legge generale sulla Carta
dei servizi sanitari. Nel 1997, ultimo venuto il decreto sui requisiti
minimi tecnologici e strutturali per l'autorizzazione all'esercizio
dell'attività sanitaria.
Gli indicatori
di efficienza e qualità riguardano tutte le aree di esercizio
dell'assistenza sanitaria del SSN, in particolare: nell'ambiente di vita e di
lavoro, nell'assistenza sanitaria di base e generica, specialistica
ospedaliera e per lungo-degenti. Per ciascuna di queste aree sono stati
elaborati diversi tipi di indicatori: di domanda e di ammissibilità, di
risorse, di attività e di risultati (Tav. VI). Nelle tavole da VII al X sono
riportati alcuni esempi delle diverse tipologie di indicatori nell'area
dell'assistenza ospedaliera (Tav. VII¸X).
Gli
indicatori di personalizzazione e di umanizzazione, al diritto
all’informazione, alle prestazioni alberghiere e agli aspetti della
prevenzione (decreto del 15.10.96 ex art. 14) devono essere applicati nello
stesso contesto territoriale ed ospedaliero degli indicatori di efficienza (Tav.
XI).
Il
rilevamento della presenza o meno delle caratteristiche individuate dagli
indicatori o dalla loro prevalenza, in quanto affidato agli operatori del
servizio avrebbe il carattere di una valutazione obiettiva.
Nella Carta dei servizi - al contrario - il giudizio sugli aspetti rilevanti
della qualità dei servizi per il ricovero ospedaliero o per le prestazioni
specialistiche - quale ad esempio la tempestività, la semplicità delle
procedure, l’accoglienza, la completezza delle informazioni, il comfort, le
pulizie (Tav. XII), è affidato al paziente. Si tratta quindi di un giudizio soggettivo
come punto di partenza per l’analisi della qualità del servizio ed esprime
quella che si definisce la qualità
percepita.
Con
una analisi sommaria delle caratteristiche degli indicatori di efficienza
e qualità -art. 10- si
rileva che su indicatori delle 3
aree considerate, solo il 22% sono di “risultato”
(Tav. XIII).
Nell'area
dell'assistenza ospedaliera, tuttavia. dei 18 indicatori considerati come di risultato,
soltanto 9 sono tali in quanto espressione diretta dello stato di salute o
della mortalità, che di tutti gli indicatori è il più inoppugnabile.
Per
quanto riguarda gli indicatori di
personalizzazione ed umanizzazione la stragrande maggioranza è inerente
le strutture ed il processo.
Per
la carta dei servizi, trattandosi di valutazione soggettiva, in quanto
il soddisfacimento rientra fra i risultati delle cure in teoria tutti gli
indicatori, anche quelli rivolti a giudicare strutture e processi, potrebbero
essere considerati come di risultato.
Sia
la valutazione oggettiva prevista dalla legge sugli indicatori, sia quella
soggettiva affidata al giudizio del paziente (vox
populi) non trova allo stato attuale possibilità di attuazione.
Mancano
ancora a tutt'oggi, infatti, i valori medi di riferimento e quindi gli
standard nazionali e regionali, che avrebbero dovuto, secondo la legge, essere
elaborati sulla base delle informazioni raccolte periodicamente da parte dei
Direttori Generali delle ASL e delle Aziende Ospedaliere.
La
mancanza di valori di riferimento rispetto ai quali ciascuna struttura
sanitaria, pubblica o privata, avrebbe dovuto confrontarsi ha praticamente
impedito sino ad ora lo sviluppo del processo di autovalutazione previsto
dalla legge e quindi lo stimolo al miglioramento insito nel confronto con i
modelli ufficialmente riconosciuti [Nota [1]].
Il
problema non è da poco se si considera che fra i requisiti ulteriori per
l'accreditamento definitivo delle strutture pubbliche e private sono previste
anche le "risultanze positive
rispetto al controllo di qualità anche con riferimento agli indicatori di
efficienza e qualità".
Sappiamo
oggi che, tutto sommato, il ritardo nell'elaborazione degli standard non è
poi un gran male in quanto tutti gli indicatori sono attualmente in corso di
revisione da parte dell'Istituto Superiore di Sanità e si spera che sul
modello di ciò che sta verificandosi in altri Paesi, in particolare negli
USA, si dia maggior importanza agli indicatori di risultato o outcome.
Negli
USA, infatti, che storicamente sono all'avanguardia, l’attività di
valutazione della chirurgia ha avuto inizio sin dal 1919 da parte
dell'American College of Surgeon, estesosi da 40 anni a tutti i settori
dell'attività medica ospedaliera e territoriale con l'istituzione della Joint
Commission on Accreditation of Health Care Organization.
Questa
Istituzione “not-for-profit", costituita da rappresentanti di agenzie
professionali, fornitori di servizi sanitari e da religiosi, ha elaborato da
40 anni gli standard ed ha avuto l'incarico di accreditare, su richiesta, le
strutture sanitarie pubbliche e private,
fornendo garanzie alle Assicurazioni
statali e private sulla qualità delle cure.
Il
manuale di riferimento, "Accreditation
Manual for Hospital” un tempo - oggi "Accreditation
Manual of Health Care Organization", è una raccolta di indicatori
prevalentemente strutturali e procedurali.
Dal
Marzo di quest’anno, tuttavia, la Commissione di accreditamento delle
strutture sanitarie degli USA (Joint
Commission Accreditation Health Care Organization, JCAHCO) ha introdotto
nuovi criteri per l’accreditamento basati su misure di esito
con un progetto denominato ORIX [xi].
Da quella data, infatti, tutti gli ospedali degli USA già accreditati hanno
dovuto scegliere fra le più di 200 misure di outcome quelle maggiormente
pertinenti ai loro servizi ed applicarle entro l’anno al 20% di tutta la
popolazione ricoverata per le specialità relative.
Le
misure di esito sono ad esempio per l’ostetricia il rapporto fra N° cesarei e N° parti totali e per
il reparto cardiovascolare la
prevalenza delle complicazioni e mortalità dopo by-pass.
I
criteri di misura e di valutazione sono contenuti in un inserto del manuale
dal titolo “Performance Measurement
System Evaluation and Selection” che non è ancora disponibile in
Italia.
Indipendentemente
dai dettagli tecnici della valutazione, l’integrazione degli standard di
qualità nel più avanzato sistema di verifica di qualità e di accreditamento
dell’organizzazione sanitaria ,quale è quella degli USA, sta ad indicare
una nuova tendenza che non può non essere intercontinentale nel riconoscere
che oggi per una valutazione della qualità globale delle prestazioni e per il
loro miglioramento continuo è indispensabile disporre anche di misure di outcome.
Interessante
da notare, infine, che fra le nuove misure figura anche un capitolo dal titolo
"Patients Right, Responsability and
Ethics” , introdotto allo scopo di garantire che tutte le procedure,
esami, trattamenti ed interventi abbiano come finalità esclusivamente il
beneficio del paziente e non motivazioni affaristiche.
In
questo capitolo è pure sottolineato, analogamente ai contenuti della nostra
Carta dei Servizi, il diritto
all'informazione completa sui
trattamenti proposti e quelli alternativi nonché - ciò fa meditare -
l'informazione sull'eventuale tornaconto del medico.
Profondamente
diversi il contesto politico, sociale e tecnologico e l’organizzazione
dell’assistenza sanitaria degli USA rispetto all’Italia.
Profondamente
diverso anche l’approccio al sistema di verifica di qualità o di
accreditamento volontario negli USA, così
come
in Canada ed Australia, normato da leggi e formalmente obbligatorio in Italia.
Ciò
malgrado, l'evoluzione più recente va nella stessa direzione per quanto
riguarda l'opportunità di integrare gli indicatori di processo con quelli di
esito. E’ impensabile - è vero - che la verifica di qualità si possa basare
solo su misure di esito in quanto, senza la valutazione dei processi che li
hanno prodotti, non potremmo mai venire a capo delle cause degli errori e
correggerli per il miglioramento.
Ma
è altrettanto impensabile che si possa continuare a valutare organizzazioni
sanitarie e medici basandosi esclusivamente o quasi su indicatori di strutture e
di processo.
Anche
nel nostro Paese le organizzazioni professionali come le nostre dovrebbero
adoprarsi per lo studio, la selezione e l’applicazione di nuove misure di
esito che siano espressione oggettiva delle condizioni di salute e di benessere
della popolazione.
Per
una valutazione oggettiva ed accurata della qualità delle organizzazioni
sanitarie e della loro attività sono indispensabili indicatori di strutture di
processo e di esito.
La
tendenza culturale odierna è quella di dare sempre più peso ad indicatori di
esito che siano espressione oggettiva delle condizioni di salute e di benessere
delle popolazioni, eliminando gli indicatori di processo non correlati al
miglioramento delle cure.
Corrispondenza:
Plinio Pinna Pintor
Fondazione Arturo Pinna Pintor
Via Vespucci 61 - 10129 Torino
Tel. 011 593911 Fax
011 5683893
E-mail: fappto@tin.it
Nota [1]
: sembra perlomeno prematuro sotto l'aspetto consuntivo il movimento di
Verifica di e Revisione destinato al miglioramento delle strutture sanitarie
in atto da tempo, che ha impegnato molti volonterosi operatori della sanità,
in assenza di standard locali o nazionali e delle relative soglie, a cui
fare riferimento per i confronti. Migliorare rispetto a quali aspettative di
processo o di esito?.
[i] Department of Health and Human Services - Centers for Disease Control
and Prevention Draft Guideline for
Prevention of Surgical Site
Infection Federal Register Vol 63 n° 116 June 1998
[ii] Donabedian A: The role of outcomes in Quality Assessment and Assurance. QRB
1992, 18: 356-360.
[iii] O'Leary D: Statement on Health Care Quality before the Senate Labor and
Human Resources Committee. http://wwwa.jcaho.org/news/testimon.htm.
[iv] Jessee WF, Schranz CM: Medicare mortality rates and hospital quality:
are they related? QA in Health Care
1990, 1990, 2: 137-144.
[v]
Requisiti minimi organizzativi, tecnologici e strutturali. Agenzia per i
Servizi Sanitari Regionali. Bozza Maggio 1996.
[vi]
Perraro et al.: L'accreditamento. QA in Health Care 1996; 3.
[vii] Nightingale F: Notes on hospitals. 3rd edition 1863: London;
Longman, Green. In:
Jezzoni LI ed. Risk Adjustment for measuring health care
outcomes. Ann Arbor, Mich.: Health Administration Press, 1994, pag. 6.
[viii]
[viii]Hannan EL, O’Donnell JF, Kilburn H, Bernard HR, Yazici A. Investigation
to the relationship between volume and mortality for surgical procedures
performed in New York State hospitals. JAMA
1989;262:503-510.
[ix] Coronary Artery Bypass Graft Surgery. Technical report. The
Pennsylvania health Care Cost Containment Council. June 1995.
[x] Pinna Pintor P, Bobbio M.,
Sandrelli L., Patané F., Bartolozzi S., Bergandi G., Giammaria M., Alfieri
O.: Risk stratification for open heart surgery: a method to compare two
institutions regardless the influence of the surgical team.. Annals
Thoracic Surgery 1997 ; 64 : 410-413.
[xi] JCAHO. "The ORIX Initiative";
"ORIX: The Next Evolution in
Accreditation". 1998 [http://www.jcaho.org/perfmeas/oryx/20pct.htm];
[http://www.jcaho.org/perfmeas/oryx/oryx_qa.htm]
=========================================================================================================
IL MEDICO DI MEDICINA GENERALE E LA GESTIONE DEL PAZIENTE CON CARDIOPATIA ISCHEMICA.
Alberto Ciacciarelli
La
gestione del paziente con cardiopatia ischemica presuppone, da parte del medico
di medicina generale (m.m.g.), da un lato un’adeguata conoscenza e
comprensione delle varie e spesso complesse dinamiche di rapporto che si
instaurano fra curante, paziente, familiari, cardiologo, dall’altra il
possesso di conoscenze specifiche e competenze elettrocardiografiche di base.
La
cardiopatia ischemica, come noto, è caratterizzata da fasi cliniche diverse,
acute e croniche, che spesso si alternano vicendevolmente in uno stesso paziente
e richiedono ciascuna un approccio gestionale appropriato.
GESTIONE
DEL PAZIENTE “STABILE”
L’aggettivo
“stabile” qualifica il paziente il cui quadro clinico sia immodificato da
almeno due mesi.
Di
fronte a tale tipo di malato, la cui prognosi è complessivamente favorevole (la
mortalità annua oscilla tra il 3 e il 4%), il primo compito del m.m.g. è
verificare il mantenersi nel tempo della condizione clinica di “stabilità”.
Per
fare ciò egli utilizzerà,
nell’anamnesi, “domande chiave” (del tipo “quale è l’entità massima
dello sforzo tollerato?”), che mirano a stabilire la severità’ della
riduzione della riserva coronarica ed il suo eventuale variare; indagherà
inoltre sulla presenza del sintomo dispnea in concomitanza con il dolore,
possibile espressione di una notevole estensione dell’ischemia, con
conseguente insufficienza ventricolare sinistra, condizione quest’ultima
documentabile anche con l’esame obiettivo, ove si evidenzi la comparsa di un
terzo o di un quarto tono cardiaco e/o la presenza di rumori umidi
all’ascoltazione polmonare.
L’esecuzione
di un elettrocardiogramma (ECG) a riposo riveste un’importanza tutto sommato
relativa, limitata alla possibile evidenziazione di onde Q patologiche e/o di
una ipertrofia del ventricolo sinistro; la sensibilità e la specificità
infatti dell’ECG nei confronti della diagnosi di ischemia sono scarse (si
stima che circa un terzo dei soggetti sicuramente ischemici abbia un tracciato a
riposo normale).
Ben
diversa, sicuramente accettabile, è invece l’accuratezza diagnostica
dell’ECG quando venga eseguito durante il dolore e/o sia possibile un
confronto con registrazioni precedenti.Il test da sforzo, valutato criticamente
in tutti i suoi parametri (durata dell’esercizio, frequenza cardiaca
raggiunta, comportamento della pressione arteriosa e del tratto ST), è in grado
di fornire informazioni, sia pure indirette, circa la riserva coronarica (entità
dello sforzo tollerato, momento di comparsa del sottoslivellamento del tratto ST)
e la funzione contrattile ventricolare sinistra (studio della modalità di
comportamento della pressione arteriosa sotto sforzo).
L’esecuzione
con e senza terapia permette di giudicare l’efficacia della stessa.
L’ecocardiogramma
nel paziente stabile ha il significato di poter documentare eventuali difetti
regionali della cinetica del ventricolo sinistro, di studiarne la funzione
contrattile (nella stratificazione prognostica del paziente ischemico, come
noto, la frazione di eiezione ventricolare sinistra recita il ruolo di
primattore) e di evidenziarne una ipertrofia, fattore di rischio indipendente di
morbilità e mortalità cardiovascolari.
Dubbio,
comunque scarso, è il contributo dell’ECG dinamico sec. Holter, il cui ruolo
sembra limitarsi alla quantificazione del cosiddetto “carico ischemico
totale” (il 75-90% degli episodi di ischemia si stima sia silente).
Oltre
a “vegliare” sul mantenimento nel tempo della condizione di “stabilità”,
il m.m.g. ha davanti a sé un secondo non meno importante compito: attuare la
prevenzione secondaria.Fa oramai parte della cultura cardiologica il dato,
dimostrato nei vari studi condotti a riguardo, che gli interventi sui fattori di
rischio coronarico hanno un impatto diverso a seconda che vengano messi in atto
in pazienti con o senza evidenza di cardiopatia ischemica.
Gli
studi di prevenzione primaria, infatti, hanno evidenziato come il fumo di
sigaretta sia il fattore il cui controllo comporta i maggiori benefici
(riduzione del 50-70% dell’incidenza di cardiopatia ischemica), mentre i
grandi trials condotti sulla prevenzione secondaria, come il 4S e il CARE, hanno
dimostrato in maniera significativa, anche in termini di riduzione della
mortalità totale, l’importanza del trattamento farmacologico dell’ipercolesterolemia.
In
particolare dai dati del 4S si evince che occorre trattare con simvastatina per
cinque anni trenta maschi con le
caratteristiche dei partecipanti allo studio ( età 35-70 anni, colesterolemia
totale >212 mg/100 ml, media 260) per evitare una morte e quindici soggetti
(maschi e femmine) per evitare un evento coronarico, mentre in prevenzione
primaria (dati dello studio Woscops) occorre trattare per cinque anni con
pravastatina centodieci maschi (età
45-64 anni, colesterolemia totale >242 mg/100 ml, media 272) per evitare una
morte e trentasette per evitare un
evento coronarico.
Come
già accennato, la prognosi del paziente stabile è complessivamente buona: la
mortalità annua, dell’ordine del 3-4%, scende all’1%, valore non dissimile
da quello della popolazione generale, nei soggetti senza storia di infarto
miocardico, con funzione contrattile del ventricolo sinistro normale e con test
da sforzo positivo a carichi elevati.
In
tale contesto è doveroso avere coscienza di quanto ci insegna la teoria del
reverendo Bayes, secondo la quale bassa prevalenza di eventi significa scarso
potere predittivo per qualsiasi test. Di qui, anche in omaggio ad un’etica di
contenimento della spesa sanitaria, l’opportunità di un uso
“parsimonioso” e ben mirato delle indagini in questi pazienti.
Per
essi l’ipotesi coronarografia, nella prospettiva di una eventuale
rivascolarizzazione, va presa in considerazione solo in caso di inefficacia
della terapia medica o di severa riduzione della riserva coronarica (test da
sforzo positivo a bassi carichi).
Il
m.m.g. non solo deve essere consapevole di tali indicazioni allo studio
emodinamico, ma deve anche considerare che un eventuale intervento di by-pass
aorto-coronarico può migliorare l’aspettativa di vita solo dei pazienti con
stenosi “critica” (>50%) del tronco comune della coronaria sinistra o
“equivalente” (stenosi>70% della discendente anteriore prossimale e della
circonflessa) e con disfunzione ventricolare sinistra.
Dall’intervento
cardiochirurgico è lecito invece attendersi un significativo miglioramento
della qualità di vita del paziente, visto che il sintomo angina scompare in una
percentuale che supera il 95% dei casi.
COME
RICONOSCERE E GESTIRE, DA PARTE DEL M.M.G., LE FASI ACUTE?
Egli
può trovarsi di fronte due tipi di paziente: chi è già noto per avere una
cardiopatia ischemica oppure un soggetto senza storia clinica ad essa
riferibile.
Il
primo paziente può manifestare un peggioramento dell’angina o avvertire un
dolore prolungato oppure, avendo già sofferto di un infarto miocardico,
sperimentare nuovamente l’angina.
L’altro,
invece, può lamentare
dolori al petto o interpellare il proprio medico per un dolore toracico
prolungato.
COME
ORIENTARSI?
Anzitutto
conducendo un’attenta indagine anamnestica,
mirata in primo luogo ai caratteri del dolore, ma rivolta anche e in
maniera critica, specialmente nel paziente anziano, a sintomi di allarme, come
dispnea improvvisa, insufficienza cardiaca acuta, vomito e palpitazioni.
E’
proprio in queste situazioni che il m.m.g dotato
di competenze elettrocardiografiche
di base può, registrando un tracciato durante il dolore, prima e dopo TNT
sublinguale, e potendo eventualmente confrontarlo con registrazioni precedenti,
migliorare significativamente la sua accuratezza diagnostica e orientarsi in
maniera adeguata.
QUALE
E’, A QUESTO PUNTO, IL COMPORTAMENTO PIU’ RAZIONALE?
Di
fronte ad un dolore sospetto, con o senza alterazioni elettrocardiografiche, è
opportuno il ricovero, dopo avere somministrato ASA.
Se
il dolore è sospetto, ma l’ECG è normale, è ragionevole considerare altre
ipotesi diagnostiche, non dimenticando il dato che una percentuale oscillante
tra l’1 e il 6% dei pazienti con infarto miocardico acuto ha un ECG sotto
dolore normale.
E’
dunque prudente e corretto, in questi casi, ricorrere anche ad una “diagnosi
enzimatica”.
GESTIONE
DEL PAZIENTE SOPRAVVISSUTO AD UN INFARTO
MIOCARDICO
In questa particolare fase della cardiopatia ischemica il m.m.g.
riveste un ruolo di primo piano nell’attuazione della prevenzione secondaria.
La
prognosi in questi pazienti è legata infatti sia alla presenza dei classici
fattori di rischio coronarico che alle complicanze post-infartuali,
rappresentate dalla disfunzione ventricolare sinistra (soprattutto),
dall’instabilità elettrica e dall’ischemia residua, cui non dovrebbe
aggiungersi un fattore di rischio aggiuntivo, iatrogeno, allorquando al paziente
non venga data l’opportunità di usufruire di trattamenti di provata
efficacia, quali ASA, Beta-bloccanti, Ace-inibitori, statine.
Le
“attese” del paziente con cardiopatia ischemica nei confronti del proprio
medico oscillano tra il bisogno di rassicurazione e quello di non sentirsi
troppo limitato da prescrizioni/proibizioni .
COME
RISPONDERE ADEGUATAMENTE A TALI ASPETTATIVE?
Anzitutto
essendo in possesso di conoscenze per quanto possibile “certe” e aggiornate,
quindi informando correttamente sull’entità del rischio cui il paziente è
esposto, nonché sull’efficacia delle varie opzioni terapeutiche nel ridurlo e
infine rispettando le sue scelte.
A
questo proposito è interessante riflettere sulle conclusioni di uno studio
condotto in vari paesi europei (Svezia, Gran Bretagna, Germania, Francia e
Italia), pubblicato da A. Menotti sul Giornale Italiano di Cardiologia del
novembre 1997, nel quale, a mo’ di intervista, sono stati posti, a soggetti a
basso rischio cardiovascolare, a soggetti a rischio elevato, a pazienti
sopravvissuti ad un infarto miocardico e ai loro familiari, vari quesiti
inerenti la malattia coronarica.
Analizzando
in particolare i dati italiani, si evince che sull’argomento i soggetti ad
alto rischio risultano avere le stesse fonti di informazione (mass media in
primo luogo) di quelli a basso rischio, manifestano un’analoga fiducia verso
di esse, ma richiesti di dichiarare se avevano o meno modificato il proprio
stile di vita negli ultimi due anni, meno del 10% ha risposto affermativamente,
contro il 23% dei soggetti definiti a basso rischio.
“Vi
è da chiedersi a chi questi soggetti debbano essere affidati”, si domanda
l’estensore del lavoro.
Quale
è la risposta del medico di medicina generale?
BIBLIOGRAFIA
Weiner DA, Ryan TJ, Mc Cabe CH et
al. Prognostic importance of a
clinical profile and exercise test in medically treated patients with coronary
disease. J AM COLL
CARDIOL 1990;82:2286
Bogaty P, Dagenois GR, Contin B et
al. Prognosis in patients
with a strongly positive exercise electrocardiogram
AM J CARDIOL 1989;64:1284
Deedwania PC, Carbaial EV.
Silent ischemia during daily life is an independent predictor of
mortality in stable angina CIRCULATION 1990;81:748
Rocco MB, Nabel EG, Campbell S et
al. Prognostic importance of
myocardial ischemia detected by ambulatory monitoring in patients with stable
coronary artery disease CIRCULATION
1988;78:877
Picano E.
Ecocardiografia nella cardiopatia ischemica.
1996. Ed. Piccin Nuova Libraria
S.p.A. Padova
Braunwald E.
Malattie del cuore. 1994.
Ed. Piccin Nuova Libraria S.p.A. Padova
Mock MB, Ringquist I, Fisher LD et
al. Survival of medically
treated patients in the coronary artery surgery study (CASS) registry CIRCULATION
1982;66:562
Pyorala K, De Backer G, Graham I
et al. Prevention of coronary heart
disease in clinical practice. Reccomandations of the Task Force of the European
Society of Cardiology, European Atherosclerosis Society and European Society of
Hypertension EUR HEART J
1994;15:1300-31
Euroaspire Study Group.
EUROASPIRE. A European group of Cardiology survey of secondary prevention
of coronary heart disease: principal results
EUR HEART J 1997;18:1569-82
Sacks FM, Pfeffer MA, Moye LA et
al. The effect of pravastatin on
coronary events after myocardial infarction in patients with average cholesterol
levels N ENGL J MED
1996;335:1001-09
Scandinavian Simvastatin Survival
Study Group. Randomized
trial of cholesterol lowering in 4444 patients with coronary heart disease: the
Scandinavian Survival Study (4S) LANCET
1994;334;1383-89
Shepherd J, Cobbe SM, Ford I et
al. Prevention of coronary
heart disease with pravastatin in men with hypercholesterolemia
N ENGL J MED 1995;333:1301-07
Marchioli R, Marfisi RM.
Prevenzione primaria e secondaria della cardiopatia ischemica. Dalla
meta-analisi e dalla meta-regressione ai meccanismi biologici: riflessioni per
una pratica clinica basata sull’evidenza scientifica
G ITAL CARDIOL 1998;28:434-59
Marchioli R, Bomba E,
Di Pasquale A et al. La
carta del rischio post-IMA: risultati dei primi 18 mesi di follow-up nel GISSI
Prevenzione G ITAL CARDIOL 1998;28:416-33
Menotti A e la Sezione Italiana dello Studio HELP. Conoscenze, attitudine e azioni nei riguardi della cardiopatia coronarica. La Sezione Italiana dello Studio Help (Heart European Leaders Panel) G ITAL CARDIOL 1997;27:1125-32
=========================================================================================
Cardiopatia
ischemica e mortalità evitabile nel Veneto.
De Marco R, Verlato G, Zanolin ME, Locatelli F,
Accordini S.
Istituto di Igiene
Università di Verona
Le malattie cardiovascolari costituiscono la principale causa di morte nelle società occidentali: tra di esse, la Cardiopatia Ischemica (CHD) contribuisce per il 30/50 % di tutti decessi, con ampia variabilità all’interno delle nazioni occidentali. In particolare è ampiamente documentato che la mortalità per cardiopatie ischemiche, soprattutto nella fascia d’età 35-64 anni, può essere notevolmente ridotta da interventi di prevenzione primaria tesi a modificare lo stile di vita dei soggetti a rischio (abitudine al fumo, all’alcool ed esercizio fisico) e da un monitoraggio adeguato da parte dei medici di base dei soggetti a rischio.
Per tale motivo la mortalità per cardiopatie
ischemiche è considerata un indicatore di mortalità evitabile, e il suo
andamento nel tempo e nello spazio può permetterci di evidenziare i progressi
e/o eventuali carenze negli interventi di prevenzione primaria e
nell’efficacia della gestione del paziente a rischio da parte della medicina
di base.
Nel periodo 1969/91 la mortalità per malattie
ipertensive cerebrovascolari e per
CHD presenta nel Veneto un decremento significativo che rispecchia il decremento
della mortalità per queste cause nella maggioranza dei Paesi occidentali. La
riduzione della mortalità per CHD risulta essere superiore in Veneto che in
Italia (33% vs 24% nei maschi e 45% vs 39% nelle femmine): un andamento analogo
si riscontra anche per la mortalità per malattie ipertensive e cerebrovascolari.
Alla fine del periodo (1987-91) il tasso di mortalità
per CHD nella fascia 35-64 anni è di 58.8x100.000 (100.6 x 100.000 nei maschi e
18.8 x 100.000 nelle femmine) ed è
significativamente più basso di quello italiano (SMR=0,94: 95% CI:0.91-0.96).
E’ tuttavia difficile spiegare la
minor mortalità registrata nel Veneto per Cardiopatie Ischemiche ipotizzando
una riduzione nei fattori di rischio rispetto alla media italiana, ipotesi che
contrasta con l’eccesso di mortalità per tumore polmonare e per quelle
patologie principalmente dovute all’esposizione a fattori di rischio. Nel
Veneto infatti risulta significativamente elevata rispetto al dato nazionale la
mortalità per cause attribuibili a particolari
stili di vita, quali la cirrosi epatica (SMR=1.10) , il tumore polmonare
(SMR=1.26) e la dipendenza da alcool (SMR=1.44), malattie legate all’abuso
alcoolico e all’abitudine al fumo.
La variabilità geografica dei tassi di mortalità
per CHD all’interno delle USSL del Veneto è ampia e statisticamente
significativa con SMR USSL-specifici che variano da un minimo di 0.656 ad un
massimo di 1.475; in particolare nelle aree rurali si riscontra una maggiore
mortalità per cardiopatie ischemiche mentre nella fascia costiera l’incidenza
è minima. Le USL che presentano i più alti eccessi di mortalità per CHD sono:
Asiago, Thiene, Agordo, Isola della Scala, Legnago e Valdagno.
==================================================================================================
Franco Del Zotti - Medico di Famiglia - Verona
Ormai
i grandi data base e medline via internet sono la nuova potentissima Biblioteca
d’ Alessandria, di cui tutti gli studiosi vanno fieri. . Eppure anche
questo Tesoro potrebbe essere messo in pericolo. Immaginiamo per un attimo
che, entro 3 giorni, Generali
seguaci di Di Bella scatenino una
guerra nucleare con bombe E capaci di distruggere
gli Epidemiologi ad Oxford come a Milano . Abbiamo solo 3 giorni di
tempo per portare con noi le fonti più preziose, una mappa
sintetica per rifabbricarla , per scrivere un piccolo Bignami con i
consigli più preziosi della EBM .
Seguendo
la metafora, tenterò in poche
righe di analizzare il contrasto tra moltiplicazione e complessità
“tecnica” dalle fonti Evidence Based
Medicine (EBM) e la difficoltà della fruizione del singolo Medico di
Medicina Generale (MG) contemporaneo .
EBM
dimezzata
Un’epidemiologia
clinica rigorosa ha prodotto centinaia e centinaia di regole pratiche che però
rischiano di portarci fuori strada se non si torna alla definizione originaria
di EBM data da Sackett.: l’EBM non è solo l’insieme delle migliori prove
derivate da ricerche sistematiche di qualità ma anche l’adattamento di
quelle prove all’esperienza clinica del singolo medico con il singolo
paziente (15). Orbene, a me sembra che gli esegeti dell’EBM spesso
cadono in una grave omissione
quando enfatizzano il ragionamento epidemiologico teorico sugli
Interventi e le Outcomes,
a spese di quello esperienziale e relazionale . La difficoltà a
concettualizzare e definire “operativamante” la vita del clinico e/o del
paziente non possono autorizzarci a sottovalutare le esperienze individuali soprattutto in un
campo, la medicina di famiglia, ove
decisivo è il ruolo del Contesto.
L’oscuro
intrecciarsi delle “Evidenze”
Il
termine “evidenze” a volte tende a mitizzare l’esattezza e
l’incontestabilità del processo tecnico e scientifico che sta dietro all’EBM
e ai Trials a doppio cieco. Tutto è “chiaro” . Se poi le cose vanno
storte questo dipende da chi -medico di base o paziente - “non
è stato ben educato per”...
Tutto
ciò ricorda il lavoro dello psicologo Norman
(12), famoso per i suoi studi sulle cause dei guai e catastrofi derivanti
dall’uso pedissequo della Tecnologia . Egli ha fatto notare che molte
catastrofi della Marina e dell’aviazione sono dipese dalla voglia di
adattare l’uomo alle macchine e non viceversa. Ma al di là della necessità
irrinunciabile di tener conto dell’uomo
singolo (mg o paziente ) in carne ed ossa ,con tutti i suoi
“difetti”, bisognerà dire che forse anche lo stesso mondo
delle evidenze “forti” è
più complesso e barocco di quanto appaia . Alcuni casi clinici di
Fibrillazione atriale giunte alla
mia osservazione di MG esemplificheranno meglio questa spinosa problematica
Caso
clinico numero 1- (Tra Padania e Pompei)
Una
paziente con fibrillazione atriale, di
circa 70 anni, con famiglia a Pompei arriva nel mio ambulatorio a Settembre ,
di ritorno dal Sud con una ricetta dello specialista cardiologo.
-Il
cardiologo di Pompei : “ ma come al nord non le hanno detto di prendere
l’Aspirina ?”
-La
signora entrando nel mio studio :
“ Il cardiologo ha prescritto Aspirina , che lei dottore e gli
specialisti di Verona non mi avete mai scritto..”
-Io
: “ Sì cara signora, ma lei va da questo specialista ogni anno da almeno 5
anni e lui pure non aveva mai pensato all’aspirina..”
In
buona sostanza forse più della Letteratura , dobbiamo ringraziare il
“revanscismo” anti-nord del collega specialista di Pompei se egli ha
pensato all’ASA a differenza di noi medici al nord..
In
realtà, tutti noi, medici
del Nord e del Sud, in un
caso di fibrillazione cronica “tranquilla”, nonostante i 2-3 colleghi
cardiologici annuali, avevamo
messo il “pilota automatico” della prescrizione conica di verapamile ;
nessuno di noi, benché lettori
del BMJ da anni, aveva inserito
tutte le novità EBM nel tran tran della relazione medico-paziente. Insomma l’EBM ricorda
un asteroide : potenzialmente
minaccioso ma ancora distante ed
inosservato.
II
Caso di FA : dare il massimo EbM a
chi non si aspetta niente
un
Paziente di 68 anni con Fibrillazione atriale ad alta frequenza viene inviato
da un medico al PS e quindi ricoverato. In pochi giorni subisce cardioversione
e quindi dimesso. Il paziente non
ha mai avuto sintomi e ora continua a ripetermi : “ Ok, doc, ma ..io stavo
bene e sto bene...”
E
se il paziente avesse una recidiva, come
la metteremo con la sua domanda ?
Consentiamoci
pure di ignorare “la volontà e
le motivazioni “ del paziente “aggredito” dalle nostre cure derivate
dall’ultimo grido dell“EBM” . Resta il fatto che
lo stesso mondo delle evidenze “cliniche” è molto meno lineare di
quanto vogliamo credere. Spulciando qui e lì Medline ed i testi presenti sulla scrivania del Mg più ispirati dall’EBM (2;
4; 16) ho costruito questa tabella di ben 25 variabili cliniche (vedi
tabella 1) . Pur ammettendo che ogni Evidenza resti valida e “stabile” per
almeno qualche anno- e questo è infrequente- e pur ammettendo che non vi
siano sovrapposizioni e contrasti
tra alcuni dei 25 , potete immaginare quanto difficile sia tenerli in
considerazione in “contemporanea” davanti al paziente. Come ci insegna la
neuro-psicologia la mente dell’uomo è limitata ed il suo “span”
di memoria recente in
genere non contiene più di 7 elementi.
Ma
non basta. In realtà esistono almeno altre 10 variabili logistiche che
sono decisive per una buona gestione di un fibrillante (Tabella 2 ). Dobbiamo
ringraziare l’EBM per averci dato delle strade su cui porre il paziente. Ma
queste vie non sono 2 binari, ma
innumerevoli raggi decisionali
che perforano la nostra testa di medici e/o pazienti
Quale
domanda ?
I
cultori dell’EBM dicono che tutto inizia con la giusta domanda a MEDLINE in
cerca di trial di qualità.
Ma
come dicevo poc’anzi i casi clinici non sono proiettabili sui comodi binari
delle flow-chart ma ricordano la Sfinge con la sua abilità di moltiplicare le
domande , una volta interrogata. Se ci manteniamo nell’ambito della FA
allora ci chiederemo con poche possibilità di risposta da Medline :
a)
Il mio paziente di cui sopra aveva una tachicardia a 115. E allora :Qual è la
prognosi di pazienti non-valvolari con una Tachicardia intermedia, magari
inferiore a 140, visto che gli studi
spesso
sono stati effettuati con
di tachicardia superiori (4) ?
b)
come curare con coumadin o ASA una paz con FA che è anche ulceroso e che ha
avuto un episodio di melena (la multi-patologia e multi-farmacologia è
assai frequente oggi negli anziani che , tra l’altro, hanno
FA) ?
C)
molti trial indicano soluzioni specifiche come l’ASA ad esempio per donne inferiori a 75 anni. E per chi ha 75 ed
1 mese (2) ?
In
molte situazioni le domande sono
senza risposta e pretenderebbero un’analisi decisionale statisticamente
sofisticata con il coinvolgimento del paziente, analisi non alla portata di
qualsiasi medico normale (9) . L’epidemiologia è importante ma dobbiamo
essere realisti : pochi hanno l’abilità
di gestire know-how statistico-decisionali “barocchi”
Evidenze
“conservatrici”
Nel
mondo dell’EBM assistiamo ad un
paradosso. Da una parte la scienza medica ( e con essa l’EBM) è il fattore
produttivo di Cambiamento di gran lunga più importante ; dall’altra l’EBM
ci chiede di restare nei presunti binari delle certezze EBM . Ma, come
sostiene Geljns (8), nel
primo trial sul bypass
aorto-coronarico i criteri di ingresso erano
talmente restrittivi per
cui allora potevano entrare nello studio solo
il 10% di coloro che
comunemente oggi ricevono un
bypass .
In
realtà il Mg non deve fare esperimenti innovativi per andare contro le
evidenze attuali ed in parte ha il dovere di “resistere” alle novità . Ma
non bisogna nascondere un rischio . I pazienti di oggi sono molto più
“orientati alle novità” rispetto al passato . E potrebbero non
dimenticare che il farmaco oggi EBM era stato negato dal medico ieri perché
allora non era EBM ...
Dalla
Biblioteca alla Torre di Babele
Il
processo scientifico che è dietro all’EBM è del tutto rispettabile ma non
deve divenire venerabile. Molti
ragionieri, direttori sanitari e
politici di serie B
stanno passando rapidamente dall’amore dell’EBM verso l’ideologia
dell’EBM, producendo miriadi di protocolli e linee-guida e frotte di vati e
preti dell’EBM . Si accresce un pericolo : l’Ideologizzazione di un
progetto scientifico e/o tecnologico , che spesso
è la premessa per il suo fallimento. Nella sola Gran Bretagna le
autorità regionali hanno prodotto 2000 linee-guida , un fenomeno che fa
pensare la rischio della Torre di Babele , con ogni spigolo del palazzo
poliedrico che offre una sua “verità” ufficiale (10)
. E’ quindi urgente distinguere le poche operazioni mentali
pratiche della migliore Ebm dalla miriade di regole
burocratico-istituzionali in pericolosa crescita esponenziale.
Dal
dire al fare
La
forza dell’apparato scientifico che
è dietro l’EBM assieme al richiamo di immagine legato alla scelta della
parola “Evidenza” producono
in molti epidemiologi un’ansia del
Cambiamento repentino : i MG dovrebbero quasi immediatamente adeguarsi a ciò
che è dimostrato vero ; magari il giorno dopo una legge , magari dopo
l’emanazione dell’ultima Nota CUF. Questa
ansia è in verità
un po’ irrazionale in
uomini di scienza. Ed inoltre contraddice un’altra Scienza, quella che
studia il Cambiamento reale e non quello desiderato. Gli psicologi della
scuola di Prockaska (13) da anni hanno ormai dimostrato che qualsiasi
cambiamento comportamentale importante avviene
in 6 stadi intervallati spesso da mesi o anni e non in maniera
improvvisa e binaria (sì/no).
Numerosi
studi ormai testimoniano la validità di
queste tesi anche nel settore delle modifiche dei comportamenti
professionali . Ad esempio Armstrong nel 1996 ha dimostrato con un
interessante focus group che i MG cambiano lentamente : solo 2 cambiamenti
importanti in 6-8 mesi, in genere stimolati da singoli incidenti o eventi
drammatici ad amici e parenti più che dalla semplice
lettura dei Trials. I Mg ,inoltre, assaggiano il cambiamento partendo
da singoli casi o piccole casistiche e solo dopo estendono le loro
acquisizioni al grande gruppo dei pazienti
(3)
Nonostante
tutto...
Dopo
le numerose critiche mi preme porgere un segnale di rispetto ed uno di
ringraziamento all’EBM.
Restando
nel tema della cardiologia e dell’EBM,
bisognerà dire che non si può non ignorare il peso degli studi EBM in
questo settore. Questo è il campo in cui sono più frequenti Diagnosi basate
su criteri precisi “operativi” e quindi più traducibili in EBM : basti
pensare al peso delle linee-guida nella gestione pratica dell’infarto o al
peso crescente dell’ECG computerizzato o Telematico. Grazie a molti Trial
EBM questo è il settore che offre più farmaci salva-vita. Infine il MG, che
spesso segue questo tipo di disturbi ad alta prevalenza , ha al primo posto
della sua spesa proprio questi farmaci cardiovascolari e quindi non può
permettersi di ignorare la forza dell’EBM cardiovascolare .
E
ora il ringraziamento. Essa ci ha liberato in un sol colpo:
a)
della pesantezza dei tradizionali sacri testi di patologia medica e clinica
medica. Oggi nessuno che considera seriamente
di addentrarsi nell’EBM consultando questo tipo
di manuali
b)
dell’Ipse dixit dei grandi baroni che vogliono mantenersi
“indiscutibili”
c)
dei tanti Maradona delle Medicina, “artisti”
individualisti , che allignano anche nel nostro settore della MG
d)
degli informatori farmaceutici sul disinformato-amicone
e)
del “fare sempre” . L’EBM spessa
insegna cosa evitare e cosa non fare piuttosto che l’interventismo fine a se
stesso
f)
e, per finire, dovremo ringraziare l’EBM perché ci ha fatto abbandonare le
riviste Non-ebm della buca postale per andare nel raro silenzio delle
Biblioteche; perché ci ha
consigliato di comprarci un PC e
collegarci a Internet e a Medline ;
Per
passare dal dire al fare
Un
maggior rispetto per la terribile complessità e la drammaticità delle scelte
dei singoli Mg e dei singoli pazienti dovrebbe essere la base di partenza per
una realistica ed efficace “implementazione” .positiva dell’EBM.
Adattando le indicazioni della
metanalisi di Bero et al (5) dovremo ricordare ciò
che si è rivelato più utile o
meno utile in questo settore:
1. La semplice informazione non è molto utile
2. I soli congressi servono a poco; al massimo ad indicare nuove “rotte”
3. Sono utili i reminder decisionali attivati dal PC . Ad esempio il calcolo del rischio cardio-vascolare o la necessità di ASA potrebbero essere suggeriti “automaticamente” ai MG che usano cartelle computerizzate di qualità
4. Sono utili le analisi delle barriere (pratiche e/o cognitive) al cambiamento
5. Sono utili interventi complessi che prevedono almeno 2 tra i seguenti fattori: Audit locali, feedback di ritorno informativi (feedback) ai MG + consensus miste tra MG e specialisti locali)
6.
Strategie di “Marketing” che
premino anche da parte delle istituzioni pubbliche i comportamenti più
corretti ancor prima di punire quelli disfunzionali ( il premio è in genere
ben più efficace delle punizioni)
Verso
un’EBM sistemica
Dopo
avere analizzato i tanti limiti
di un EBM che si fermi alla Standardizzazione della semplice clinica, pensiamo
che sia il caso di proporre un’evoluzione dell’EBM verso un sistema di EBM che comprenda oltre ai dati dell’epidemiologia
clinica
a)
l’Evidence based psycology del MG e del Paziente,
come abbiamo più volte ribadito analizzando i casi clinici e le variabili
decisionali delle tabelle I e II.
b)
l’Evidence Based
Relationship e cioè
l’ottimizzazione del percorso relazionale tra MG e Specialisti nella
costruzione di linee-guida facilmente adattabili al singolo paziente . Se ad
esempio i MG mantengono un atteggiamento molto conservativo (solo farmaci) e
gli specialisti un atteggiamento molto aggressivo
( la cardioversione ) il paziente potrebbe essere disorientato e
perdere fiducia sia negli uni che
negli altri con ovvie ripercussioni per la gestione di patologie
croniche.
c)
l’evidence Based
History dell’EBM
per
capire quanto e come utilizzare l’EBM bisognerà studiare esempi di storia
dei criteri EBM per singole patologie e problemi.
Per tornare all’esempio della FA e del
Coumadin, bisognerà
capire quali sono stati i motivi per cui la finestra dell’INR ideale si è
ristretta sempre più -in questo decennio -
rendendo difficile l’uso
pratico del farmaco nella MG.
Sono convinto che assieme a motivi
epidemiologici esistano motivi “culturali” (ad esempio il peso
delle cause per malpractice) che
hanno condizionato e non di poco l’evoluzione delle linee-guida
dell’anti-coagulazione
Cose
pratiche per l’EBM in MG
I
Mg saranno tra i principali fruitori dell’EBM
e quindi è necessario che intraprendano
alcuni step pratici verso
questa direzione . Queste alcune tra le indicazioni degli studiosi (11) :
A)
Abbonarsi a riviste EBM che
ormai hanno anche un’edizione Italiana .
B)
Il medico ha poco tempo per leggere ma non può non leggere . Ergo : deve
privilegiare le riviste di brevi
abstract “di qualità”,
tratti dalla principali fonti internazionali , rigorosamente EBM.
C)
fondare club EBM
che abbiano voglia di rinnovare lo stile “passivo” e poco
pragmatico dei tradizionali aggiornamenti e dei
Journal Club . A Verona ad
esempio, abbiamo costruito 3 Practice Club tematici su Asma, Ulcera,
Ipertensione che hanno lo scopo
non solo di disseminare le migliori Linee -guida ma di analizzare le strategie
del cambiamento cognitivo comportamentale e relazionale
di MG , pazienti, Specialisti.
Mappe
e “Consigli per gli Acquisti”
Ormai
l’EBM è un mare magnum che
rischia di farci naufragare. Una
sua implementazione ottimizzata necessita di Poche regole importanti
,invece che di una caterva di presunti “comandamenti” inapplicabili.
Inoltre
è indispensabile dotarsi di
Strumenti pratici per la Borsa del Mg e per
l’ambulatorio del MG e
cioè
a)
Cartelle computerizzate che includano
elementi EBM “riconoscibili” ,
b)
semplici modi di interrogare Medline tramite Internet, con la speranza che
prima o poi nasca una Medline italiana per i tanti Mg che non sanno
l’inglese
c)
Flow-chart, mini-protocolli in
Strumenti cartacei e plastificati a parete o inseribili nella borsa. Tra
l’altro le linee-guida olandesi
adottate da un gran numero di MG in Olanda viaggiano
proprio su questo tipo di materiale “povero”.
Linee-guida
per le Linee guida
le
linee-guida sono un’intersezione di un
agglomerato di singoli pezzi EBM e di una Consensus tra Colleghi. Esse quindi, essendo una costruzione un pò
“barocca” rischiano di amplificare i pericoli dell’EBM. Secondo
Bero e Hibble ( 5; 10)
urgono Linee-guida delle linee guida. In particolare secondo questi AA:
A)
esse devono essere semplici, specifiche, amichevoli
B)
devono identificare i “Punti-chiave” tra i mille
C)
devono avere molta EBM nei loro “nodi”
D)
devono essere flessibili
E) devono adattarsi al singolo paziente
Bero
non ci dice come realizzare gli ultimi 2 punti, come evitare di ricadere nell’arte o viceversa
nella massificazione . Compito della EBM del futuro è identificare
chiari percorsi logici e scientifici multi-disciplinari ( non solo di
epidemiologia ma anche di psicologia
sociale, tecniche comunicazionali, ecc) che da una parte “umanizzino” la
medicina basata sulle evidenze e dall’altra le diano un spinta propulsiva
fuori dai laboratori epidemiologici verso
la medicina degli ambulatori e
delle case. L’EBM non deve
essere un perfetto giocattolo per studiosi, ma una comoda calzatura per medici e pazienti che vogliano
continuare a tenere i piedi per terra. Tutto
ciò sarà possibile solo se
i fruitori del lavoro degli epidemiologi , MG e pazienti ,
saranno ampiamente coinvolti non solo nella fruizione ma anche
nell’auspicabile rinnovamento
dell’EBM
Tab 1
Un
evidenza a 25 pezzi
25 Criteri “interni” legati
all’EBM nella FA
ablazione a catetere a radiofreq. |
cardioversione farmacol |
cardioversione elettrica |
complicanze FA |
ecg holter |
ecg QT con antiaritmici |
ecg WPW |
ECO - dimensioni atrio (>50 mm) |
ECO Qualita’ Strum e Operat |
ECO FEiezione e/o
Faccorciamento ( è scritta nel referto?) |
ETA’ < o > 65; nelle donne >75 |
Farm betaboloccanti |
Farmaci anticoagulanti e INR |
Farmaci Digitale |
Farmaci : i TANTI antiaritmici |
Farmaci - Altri (es :FANS ed interaz) |
Farmaci antipiastrinici |
Frequenza polso |
Inizio malattia |
Inizio recente o acuto |
Ipertiroidismo
e Terapia con ormoni tiroidei |
Ipertiroidismo (gestione clinica nei
fibrillanti) |
Rischio Emorragico ( Coumadin- ASA) |
Con/Senza altre malattie internistiche
(Diabete, ipert) |
Sintomi o Asintomatico |
Tab 2
Ed
inoltre ..per semplificare.. cito solo altri 10 criteri
che
possono condizionare le scelte (Tot=35)
Città/ Paese |
familiari e compliance |
Qualità del Laboratorio |
Medici Specialisti - Numero |
Psicologia della compliance e
dell’impazienza ( Farmaci in cron per i “pazienti” o
Cardioversione per gli impazienti ? .) |
Preferenze paziente e Abilità Cognitivo-decisionali del paz e del MG |
Propensione al Rischio |
Relazione Paz-MG |
Relazione
MG-Laboratorio |
Relaz.
MG-Med Spec |
Bibliografia
1.. Allery L, Owen P, Roblin M, Why general practitioners and consultant change their clinical practice : a critical incident study , BMJ,1997; 314: 870-874
2.
American Geriatrics Society Clinical
Practice Committee. The Use Of Oral
Anticoagulants (Warfarin) in Older People
Journal of the American Geriatrics Society. Volume 44 • Number 9 •
September 1996
3.
Armstrong D, Reyburn H, Jones R. A
study of general practitioners’ reasons for changing their prescribing
behavior. Bmj,1996;
312:1398-1402
4.
Bartoccioni S a cura di : Terapia
98- following therapeutics patterns of karolinska institute - ediz italiana,
La Treggia, Perugia, 1998
5.
Bero Lisa, Roberto Grilli, Jeremy M Grimshaw, Emma Harvey, Andrew D Oxman,
and Mary Ann Thomson, Getting research
findings into practice: Closing the gap between research and practice: an
overview of systematic reviews of interventions to promote the implementation
research findings . BMJ 1998; 317: 465‑468
6.
Del Zotti MD lavoro Focus group ulcera
7.
Del Zotti F. Metodi di medicina
generale . Levante editori, Bari, 1993
8.
Gelijns AC, Rosenberg N, Moskowitz AJ Capturing
the unexpected benefits of medical research NEJM ,339 (10):693 ‑ 1998
9. Sox H et al Medical decision Making. Butterwoths , Boston, 1988
10.
Hibble A. Et al Guidelines in
general practice: the new Tower of Babel?, BMJ 1998; 317: 862‑863
11.
Jackson, R., Feder G. Guidelines
for clinical guidelines . BMJ 1998; 317: 427‑428.
12.
Norman D. Le cose che ci fanno
intelligenti, ediz. Italiana,
Feltrinelli, Milano, 1995
13.
Prochaska J, Norcross J, DiClemente C.
Changing for Good. Library of Congress. 1994
14.
Sackett D, Haynes R.,
Tugwell P. Clinical Epidemiology.
Little Brown , Boston 1985
15.
Sackett D. Et al . EBM Medicine How to practice and to teach EBM-
Churchill Livingstone , New York, 1997
16. The SPAF III writing committee for the Stroke Prevention in Atrial Fibrillation investigators. Source . Patients with nonvalvular atrial fibrillation at low risk of Stroke duriong treatment with Aspirin JAMA. 279:1273‑7. April 22/29, 1998
=========================================================================================================================