Welfare Society

Intervista a Massimo Borghesi

Il bene comune non si può frantumare
 

Gli ultimi eventi hanno distrutto il mito della globalizzazione. La dimensione politica si è rifugiata in una posizione manichea. Ma il fine deve tornare il bene della persona
 

 

a cura di Paola Bergamini


Enron, i titoli argentini, l’affare Cirio e adesso il caso Parmalat. Viene da chiedersi cosa stia succedendo nel mondo. E non solo a livello economico. L’impressione è che solo il proprio interesse sia importante e che non ci sia più la possibilità di costruire un bene comune. Ne abbiamo parlato con Massimo Borghesi, professore di Teoretica all’Università di Perugia.

L’economia mondiale appare dominata da forze senza scrupoli, siano esse banche, organi monetari, finanziari, industrie. È la fine del mito della globalizzazione?

Direi che costituisce un altro colpo, dopo le guerre nei Balcani, l’11 settembre, l’Afghanistan, l’Iraq, all’idea di una mondializzazione sorta nel contesto del post-’89: la «fine della storia» di cui parlava Fukuyama. La globalizzazione, presentata come panacea dei mali e delle differenze socio-economiche del globo - il problema della fame debellato entro il 2000 -, cede il posto a valutazioni più realistiche. La globalizzazione, come afferma Giovanni Paolo II in Ecclesia in Europa, «invece di indirizzare verso una più grande unità del genere umano, rischia di seguire una logica che emargina i più deboli e accresce il numero dei poveri della terra» (§ 8). Nel contesto europeo, italiano in particolare, la globalizzazione è stata la giustificazione addotta per la vendita delle industrie nazionali, per il ridimensionamento dello Stato sociale, per una prassi economico finanziaria che ha posto al centro il potere bancario e i
centri finanziari offshore, fuori dell’Europa, definiti da Luigi Spaventa, come i veri «Stati canaglia» per la rapina e le distruzioni dei risparmi. Questo quadro, che si impone anche all’osservatore più distratto, ha reso obsoleta l’equazione globalizzazione-bene comune data, fino a ieri, come scontata. In concreto la globalizzazione ha funzionato come modello per le economie forti, supportate da realtà politiche (Usa, Europa, Giappone,) che al loro interno hanno praticato una chiara posizione protezionistica. La lezione da trarre è che le realtà più deboli hanno bisogno più che mai di essere tutelate.

L’idea di “bene comune”, che tu richiamavi e che gli attuali scandali finanziari sollevano drammaticamente in primo piano, pare essere uscita da tempo dal vocabolario. Che posto riserva la politica contemporanea al “bene comune”?
La mondializzazione significa in qualche modo, almeno per gli Stati più piccoli, perdita di sovranità e di controllo sui processi economici. La politica non riesce più a controllare gli “istinti animali”, la somma degli egoismi individuali, di cui si compone la società civile. Dopo l’89 a fronte della mondializzazione economica sta la perdita di universalità della politica. Il modello democratico, apparentemente senza nemici, ripiega nella celebrazione del libero mercato. È il fondamentalismo islamico, nel suo mix teologico-politico, la follia dell’11 settembre, che ha costretto l’Occidente a riguadagnare la sua dimensione politica. Come negli anni della guerra fredda, della divisione tra Est e Ovest, è la presenza del “nemico” la via di ritorno al politico. In questa prospettiva il “bene comune” è determinato dalla comune difesa dall’avversario. Il che, attualmente, ha un suo significato come tutela e protezione dal terrorismo. Più globalmente, però, la nozione di bene comune viene a ricomprendere la guerra contro i tiranni per esportare la democrazia nel mondo. La sua dilatazione richiede una guerra globale. L’uso del termine si colloca, in tal modo, dentro una visione manichea che divide il mondo in aree geografiche popolate da buoni o da cattivi.

Mi pare di comprendere che tu non sei d’accordo con questa prospettiva. L’idea di “bene comune” ha a che fare con la nozione di “compromesso”? Il compromesso non indica un cedimento ideale e pratico?
La politica vive di universalità e di compromesso. Essa è, oggi, in crisi perché non è né l’una né l’altro. È, piuttosto, idealismo cinico, teso a marcare strumentalmente le differenze, cui segue un pragmatismo senz’anima. Il compromesso è negativo quando indica la pura mercanzia, lo scambio mafioso, la dissipazione delle risorse. Al contrario è positivo quando è volto al superamento dell’odio sociale e politico. Il “compromesso storico” Dc-Pci rappresentò, nel contesto infuocato degli anni 70, una formula di governo e di coesistenza sociale.
Il compromesso è tollerante verso il male minore, avendo come fine la riduzione della conflittualità sociale e ideale che divide una nazione. Rientra in questo ambito il tema delle “leggi imperfette” per il quale rimando al volume collettivo Il potere e la grazia. Attualità di sant’Agostino, edito da Trenta Giorni- Nuova Òmicron.

Tu presenti l’arte del compromesso come una modalità specifica per pervenire al bene comune. Oggi, tuttavia, il panorama politico è segnato da una conflittualità infinita, conflittualità che da un decennio caratterizza gli stessi organi dello Stato.
Dopo l’89 sinistra e destra hanno pensato di raggiungere un saldo controllo del potere attraverso il sistema bipolare, un sistema tipicamente “manicheo” che prevedeva la liquidazione del centro. La conflittualità sorge da qui, da come la magistratura si è sostituita alla politica nell’opera di questa “liquidazione”. Il problema oggi non sta nella riduzione delle differenze tra i poteri (balance of powers), con cui lo Stato moderno ha posto un limite alle proprie tendenze assolutistiche. Così come in campo economico si deve evitare la reductio ad unum dei controllori delle imprese (Bankitalia, Consob, Antitrust). Il problema è che ognuno faccia la sua parte e non trascenda il ruolo che riveste. È vero, d’altra parte, che i ruoli si scambiano là dove emergono i vuoti. Così alla depoliticizzazione della politica segue la politicizzazione della magistratura, alla delegittimazione del sindacato l’erompere dei Cobas… In politica non esiste il vuoto; quando c’è, è il caos. Per questo una politica consapevole del suo primato non deve delegittimare l’avversario, ma accordare il riconoscimento nell’ottica di un bene complessivo. Il compromesso assume forma ideale nell’ottica di un bene complessivo. Questo richiede oggi un’attenzione particolare alle fasce meno protette: i milioni di persone che si avvicinano alla soglia della povertà; gli immigrati accolti, a certe condizioni, come ospiti degni di rispetto.

Il bene comune corrisponde a un modello sociale?
In un certo senso sì ed è quanto ha tentato di delineare la dottrina sociale della Chiesa. Si tratta di un modello aperto, che prevede, a seconda delle circostanze storiche, un ventaglio di possibili opzioni. Nella realtà, però, tutto dipende dal fatto se la persona, compresa secondo una misura più o meno grande, sia il fine dell’azione politica, economica, sociale. Quando Giorgio La Pira chiese l’intervento dello Stato per impedire la chiusura della Nuova Pignone di Firenze, fu duramente criticato dal “liberista” Luigi Sturzo. La Pira, in realtà, non si preoccupava della purezza dei modelli, ma del licenziamento degli operai e di centinaia di famiglie sul lastrico.
Il bene comune nasce dal particolare, dalla cura di “qualcuno”, per volgersi poi, come tensione ideale, verso la totalità.

Si può dire che l’Occidente è il luogo della persona? Non è qui il presupposto per una nozione autentica di “bene comune”?
L’Occidente è il luogo della “persona” nella misura in cui la tradizione cristiana, per la quale la persona è il “reale” per eccellenza, è ancora viva. Viceversa la nuda persona è, come Hegel aveva ben compreso, l’individuo astratto, il nulla del mendicante senza volto che intralcia il nostro passo. Altrove esistono popoli, etnie, tribù, non i singoli. L’Europa che sta costituendosi riconosce questo dono che gli è dato - l’autocoscienza di un bene prezioso -, ma, come J. H. Weiler ha mostrato nel suo saggio su Un’Europa cristiana (Rizzoli 2003), non il suo donatore. Cionondimeno l’essenziale sta nel riconoscimento di quelli che Ecclesia in Europa chiama
i «tre elementi complementari»: il diritto delle Chiese e delle comunità religiose di organizzarsi liberamente; il rispetto delle identità specifiche delle confessioni religiose; il rispetto dello statuto giuridico in cui tali Chiese e confessioni religiose già godono in virtù delle legislazioni degli Stati membri dell’Unione. Riconoscendo queste tre condizioni, l’Europa riconosce il terreno di genesi della nozione di persona, il luogo della sua esperienza. Il nodo è come accordare tale nozione con quella di “bene comune” che attualmente deve tener conto dell’estraneo, dello straniero apportatore di usi, costumi, mentalità diverse. Remi Brague in un suo splendido libro, Europe, la voie romaine, indicava nella tradizione romano-cristiana una capacità di accoglimento e di integrazione senza precedenti. La scorciatoia francese, per la quale lo Stato laico abolisce ogni segno religioso pubblico, ha sortito il riconoscimento, da parte delle autorità islamiche, delle scuole cattoliche come luogo di apertura e di vera tolleranza. Ancora una volta una posizione fortemente ideologica diviene fonte di divisione, di separazione e di scontro. Viene meno, in questo caso, quel necessario compromesso tra diritti universali e usi particolari - una cosa è il velo, un’altra il burka - in cui trova luogo la tolleranza. Una tolleranza che, senza fanatismi e guerre di religione, l’Occidente potrebbe gradualmente chiedere anche ai Paesi di tradizione islamica con cui più intensi sono i rapporti economici e diplomatici.
 

 

Welfare Society: «Intervista a Massimo Borghesi. Il bene comune non si può frantumare», a cura di Paola Bergamini, Tracce febbraio 2004

 

Click qui per tornare indietro a "galatro_home"