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Lo Spirito Americano

di Rino Camilleri
 

Confesso di essere rimasto notevolmente colpito. Nell'immaginario dei più, New York era il business, il salotto di Andy Wharol, il tempio dell'arte che più moderna non si può, il covo dei liberals, il centro mondiale dell'edonismo patinato.

Certo, tutto questo c'è ancora, ma le immagini del dopo 11 settembre ci hanno mostrato questa New York e l'altra, quella della gente normale, dei vertiginosi lavavetri, dei venditori di hot-dogs, degli impiegati comuni e degli sbandati del Bronx, unite e corali nel gridare, scandendo in coro, "Usa! Usa!" stretti attorno a un presidente per il quale, presumibilmente, la maggior parte di loro non aveva votato.

La ressa per andare a dare una mano, le quattordici ore di lavoro ininterrotto di pompieri e poliziotti, le gare di solidarietà, i ristoranti di lusso che offrono pasti gratis, addirittura i tychoons che rinunciano a guadagni sicuri pur di concorrere a sostenere la Borsa, il fiorire pirotecnico di bandiere a stelle e strisce dappertutto; insomma, lo stringersi di un intero continente attorno al suo capo e al suo simbolo, dimenticando ogni differenza di vedute, di opinioni politiche, di ceto, di religione e di razza, tutto questo è reale, l'America è davvero così.

Quante volte abbiamo riso sotto i baffi, noi scafati europei, all'ingenuità di certi happy ends hollywoodiani (penso, per esempio, al buonismo affratellante e patriottico del film Independence Day, quello in cui gli Usa guidavano la riscossa dell'umanità contro un devastante attacco alieno), e abbiamo pensato che certe cose, anche in America, accadono solo al cinema. Invece no: gli americani hanno dato a tutti una lezione di democrazia. Ricordo un collega giornalista, del quale mi era ben nota la scarsa simpatia per l'american way of life. Cambiò idea quando si ritrovò inviato a San Francisco in occasione dell'ennesimo terremoto.

Mi parlò, ammirato, di quel che aveva visto, degli immensi anelli autostradali accartocciati e i grattacieli a pezzi; ma soprattutto del fatto che, poche ore dopo il disastro, automobili provviste di altoparlante percorrevano le strade ancora agibili avvertendo la popolazione che tale fabbrica era stata riattivata, tal altro ufficio aveva ripristinato le linee elettriche ed elettroniche, che quanti non erano impegnati nel soccorso potevano tornare a lavorare.

E la gente, giacca al braccio o elmetto in testa, effettivamente rientrava al lavoro, ciascuno come poteva, magari con mezzi di fortuna. Tutti erano perfettamente consci che la cosa migliore per tutti, in quel momento, era proprio quella: far funzionare le cose prima possibile. L'America è così, è sempre stata così, ed è questo che ne fa un grande Paese, legittimato, piaccia o no, al comando.

Ed è giusto che sia proprio io a dirlo, perché ho al mio attivo un libro ancora in circolazione, Doveroso elogio degli italiani (Bur), nel quale non risparmio le critiche alle nazioni cosiddette "avanzate" evidenziandone i difetti per meglio far risaltare i pregi degli italiani. No, adesso non faccio opera di pentimento, perché continuo a credere che gli italiani siano migliori degli altri.

Ma per amor di giustizia non posso fare a meno di ammettere che qui da noi un 11 settembre avrebbe visto ben altro spettacolo: marce antigovernative, dietrologie, accuse, ricerca di capri espiatori, dichiarazioni e controdichiarazioni alla stampa, querele, cortei di protesta, richieste di dimissioni.

E, dieci anni dopo, gente ancora nei container. Il resto mettecelo voi lettori, ché a me manca lo spazio. La domanda è: perché negli Usa "democrazia" è quel che abbiamo visto ed elogiato, e da noi è sempre più spesso sinonimo di confusione? Perché i pregi degli italiani (sui quali continuo a non avere alcun dubbio) in America si espandono e affermano, e in Italia si deprimono fin quasi a sparire?

Certe emergenze servono, se non altro, a costringere alla riflessione: una tragedia come quella dell'11 settembre ha unito gli americani; gli italiani ne avrebbero tratto motivo di ulteriore divisione. E' una questione di Dna? Non credo: gli italiani che vivono in America si sono comportati in questa circostanza da americani.

Come del resto tutte le altre etnie presenti in quel Paese di immigrati. Gli "antitaliani" che da noi guardano con invidia ai Paesi "avanzati" dovrebbero meditare su questo. Gli antiamericani, poi, dovrebbero meditare su quest'altro: la leadership mondiale bisogna potersela permettere; gli americani dimostrano di saper reggere il compito.

E non si vede alcun altro candidato all'orizzonte. Certo, chi comanda lo fa a modo suo, ed è normale che scontenti qualcuno. Ma, guardandosi intorno, c'è poco da scegliere. Anzi, non c'è altro.

Rino Camilleri,
"Il Giornale", 22.09.2001