Società

Nel cimitero cristiano di Kabul l’ultimo scempio dei Taliban

Non un fiore né un albero per le 168 tombe, molti i segni del disprezzo degli studenti coranici verso chi non era musulmano


Quattro anni fa, il custode del cimitero cristiano di Kabul è stato fucilato dai talebani. L’attuale custode vive di elemosina, convive con la paura e racconta che lo scarico di una fogna è stato deviato in modo da riversarsi sul camposanto.

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Commento

di Maurizio Corsetti


KABUL - Rahimullah figlio di Habibullah spinge il lurido portone in legno del cimitero cristiano, e il suo primo pensiero è per chi l'ha preceduto e non può raccontarlo. «Khalid faceva il guardiano, come me, e una sera i Taliban l'uccisero. A quel tempo il muro di cinta era basso. Si prese una fucilata in testa. Non importa che Khalid fosse un perfetto musulmano e pregasse Allah cinque volte al giorno. Per i Taliban, avere a che fare con i cristiani era peggio che essere atei».


Da allora, e sono ormai quattro anni, il muretto giallo che disegna il perimetro delle tombe del "dio sbagliato" è alto più di due metri. Rahimullah fa la guardia e dice che la pietà umana, così come un'offerta di cinque dollari («Vivo di elemosina, signore») non hanno la presuntuosa esattezza del dogma religioso: «Ogni essere umano che muore ha diritto al rispetto, appartenga egli al vostro Dio o al nostro. E io ho bisogno di mangiare».


Questo è forse il luogo in cui gli studenti coranici impazziti sfogarono il loro spregio con la massima intensità. E siccome i Taliban erano specialisti nell'ammazzare, e qui erano già tutti morti (a parte il guardiano, per il quale rimediarono in fretta), ecco che trovarono il modo di offendere anche i cadaveri. Come, lo indica l'ampio gesto di Rahimullah quando dal mantello sbuca una mano che sembra di statua: «Loro misero quel tubo sopra queste tombe». Lo scarico parte dalla fognatura delle casupole sul lato più corto del muro, e rovescia il liquame puzzolente proprio sopra il camposanto. L'acqua va a cadere sulla lapide del tenente dei lancieri Cecil Gaisford, «ucciso in azione» si legge, il 14 dicembre 1879. Ma gli schizzi non risparmiano i resti del capitano John Hursey, morto in battaglia tre giorni prima, e neppure evitano di sporcare la lapide di Giovanni Leoni, 23/7/1952 - 11/8/1972: uno dei quattro italiani sepolti in questo Spoon River della vergogna.


Più in basso c'è un secondo tubo di scarico. «Ma da lì esce meno acqua» racconta Rahimullah, che non conosce neppure la sua età esatta. «Ho circa sessant'anni», dice il custode del cimitero più triste del mondo. Non un filo d'erba né un fiore. Alberi stecchiti, lapidi spezzate, tombe senza nome. «C'erano statue e targhe di bronzo: hanno portato via tutto». Ma alcune date restano. Gli anni di nascita e morte incisi sulla pietra raccontano storie di ragazzi dimenticati, quasi tutti tra i venti e i trenta, arrivati chissà come fin qui e chissà come scomparsi dal mondo. Tra i solchi riarsi dal sole, un'altra tomba italiana: solo un nome, Ottavio, e un pezzo di data: 1968. Il resto è stato rubato. Nell'altro lato del camposanto, in tutto 168 tombe, c'è una lapide dove si legge: Ennio Bonaveglio, 2/11/1949. La furia dei ladri di Allah ha risparmiato il disegno di un angelo con una piccola palma. Tra Ennio e Ottavio, il quarto italiano sepolto qui. Si chiamava Vincenzo Gliubich, e almeno lui
non morì ragazzo: 1899-1950.


Tra le tombe dimenticate sono venuti anche i soldati italiani, gli uomini del genio guidati dal capitano Giuseppe Boffa e un gruppo di incursori del Col Moschin. «Vedremo di mettere a posto quell'orribile conduttura, e scaricheremo l'acqua all'esterno» dice il capitano. I suoi militari camminano tra le lapidi e leggono le date. Nessuno ha voglia di parlare. Solo Rahimullah continua il suo racconto. «Ora dormo in una baracca appena fuori dal cimitero e mi piacerebbe avere un tetto più solido sulla testa. Tanti vengono a fare promesse, poi nessuno ritorna». Dicendolo mostra un quaderno nero su cui ha scritto nomi e cognomi dei visitatori europei, quelli dei 5 dollari e via.


«Ho anche scavato un pozzo sperando di trovare un po' d'acqua: un giorno vorrei vedere l'erba tra queste tombe. Però mi sono fermato al sesto gradino, sono vecchio, da solo non ce la faccio». Lapidi spezzate riflettono la luce della sera che scivola morbida dalla coliina di Kalai Fatullah. Sulla pietra, altri nomi e altre storie. Eberard Butow che morì nel '74 a soli sette mesi. Ritchie Dwight, «auto accident in Kandahar». Charles e Wendy, vent'anni, morti insieme il 4 settembre 1971. Andrew Flahant, meccanico della delegazione archeologica francese, ucciso nel 1936. Dormono sulla collina, baciati dal sole e dall'acqua di fogna.

di Maurizio Corsetti, 
La Repubblica, 10 febbraio 2002

Commento:

 

Dopo l’11 settembre si ha come l’idea che si stia mettendo a posto il mondo. Il mondo, invece, non è per nulla a posto: l’odio ribolle e si prepara a scoppiare. Sebbene non sia del tutto giusto paragonarle, due posizioni sono emblematiche.


La prima è esemplificata da Sgarbi: «Per vivere la vita bisogna dimenticarla», cioè «… se per un attimo ci arrestiamo e vediamo la vita scorrere davanti a noi che stiamo fermi, tutto ci appare diverso, insensato, folle. La vita per viverla bisogna dimenticarla. Nei momenti di pausa ci sentiamo come sull’orlo di un abisso» 


(V. Sgarbi, «Per vivere la vita bisogna dimenticarla», Il Giornale, 12 febbraio 2002).


La seconda posizione è quella del Papa, in occasione dell’inizio della Quaresima: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date (…). Amare i fratelli, dedicarsi a loro è un’esigenza che scaturisce da questa consapevolezza. Più essi hanno bisogno, più urgente diventa per il credente il compito di servirli (…). Sia così per ogni cristiano, nelle diverse situazioni in cui egli si trova»


(Giovanni Paolo II, «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date», L’Osservatore Romano, 6 feb.).


In effetti, se la volontà dell’uomo si impone di non guardare e di dimenticare, il suo cuore, posto di fronte alla drammaticità, non resiste a commuoversi e a sentire l’impeto del compito che il Papa descrive. Quanto si può e come si può: il minimo, per i cristiani, è una preghiera appassionata. Compito è anche tener desta la coscienza che l’11 settembre è sempre in agguato.


   
  • Maurizio Corsetti
    Nel cimitero cristiano di Kabul l’ultimo scempio dei Taliban
    La Repubblica, 10 febbraio 2002
    Quattro anni fa, il custode del cimitero cristiano di Kabul è stato fucilato dai talebani. L’attuale custode vive di elemosina, convive con la paura e racconta che lo scarico di una fogna è stato deviato in modo da riversarsi sul camposanto.

  • L’infanzia amputata una ferita indelebile
    Avvenire, 13 febbraio 2002
    Il dramma dei bambini costretti a combattere (che noi conosciamo attraverso Tracce) è denunciato da un ambasciatore dell’Onu, un sudanese, che a undici anni era stato costretto ad uccidere; e da un ragazzino della Sierra Leone, che racconta la sua storia al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

  • Dilemma territoriale (più che teologico) per gli ortodossi russi
    Il Foglio, 14 febbraio 2002
    L’articolo commenta l’indignazione del Patriarcato di Mosca per l’istituzione di diocesi cattoliche, e ricorda alcuni dati: oggi ci sono poco più di 112.000 cristiani tra le parrocchie della Russia europea e quelle della Russia asiatica; nel 1915, erano 220.000 in quella europea e 140.000 in quella asiatica.

  • Maurizio Molinari
    Linciato a Kabul il ministro dei Trasporti
    La Stampa, 15 febbraio 2002
    Dopo essergli stato assegnato l’unico aereo disponibile, il ministro dei Trasporti afghano è stato linciato all’aeroporto di Kabul da pellegrini in attesa di un volo per andare in pellegrinaggio alla Mecca.

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