Galatro ed i suoi Poeti

 

Tra sacro e profano 

Ancora l'Abate Martino


di Michele Scozzarra

Perché negarlo.... la simpatia e l'attenzione con cui sono stati accolti, dai lettori di Proposte, i miei precedenti articoli sull'Abate Antonio Martino, mi hanno sollevato, e rallegrato, per diversi motivi: un primo ed importante motivo è quello della valorizzazione della "cultura" dei nostri paesi, certamente non "subalterna" a quella, da molti, presentata come "ufficiale".

Più di una volta mi sono chiesto dell'importanza dello scrivere dei "luoghi e delle persone", punti di riferimento della mia "educazione culturale", presentati al di fuori dei loro confini territoriali.

Avere nel cuore la cultura della terra natia, non in termini semplicemente sentimentalistici, ma in termini culturali precisi e decisivi, significa ritrovare la capacità di valorizzare "in toto" la propria cultura... e solo uno che è in grado di valorizzare la propria cultura è capace di accettare, capire e valorizzare le altre.

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Questo strano prete, che sto presentando ai lettori di Proposte, ha avuto la capacità di "calarsi" talmente dentro la realtà dei nostri paesi, da riuscire quasi a trasfigurare la realtà, rendendo eccezionale quello che, altro non è, se non il normale quotidiano scorrere della vita dei nostri paesi.

Non ha trascurato in gioventù, di punzecchiare le donne, non si è tirato indietro nell'impegno politico e, quando, come si suol dire, ha capito che ormai “si cogghìu 'i carti 'o pettu”, si è rivolto a Dio e, ne è venuta fuori la sua produzione più matura, oltre che più intima e più personale.

L’Abate Martino orientò la sua attività in diverse direzioni, non esclusa quella strettamente politica  della Carboneria di cui era un affiliato (impegnato a combattere, tra l'altro, anche la politica vaticana).

Accusato di avere cospirato contro il regime borbonico, viene più volte arrestato e più volte evade: si dice che si travestiva e si nascondeva alla stregua dei più spericolati banditi, al punto che i suoi avversari avevano accreditato la leggenda chi egli fosse la reincarnazione del diavolo (Maghammetta).

Incredibile, ma vero, è l'episodio relativo alla prolungata anticamera a cui è stato costretto, in attesa di essere ricevuto in udienza dal Vescovo, il quale si intratteneva con l'Arciprete di Capizzi. Martino scocciato per la lunga attesa, pregò il segretario di consegnare un biglietto al Vescovo, e se ne andò. Nel biglietto c'era scritto:

 

L'Accipreviti di Capizzi...

caccia “ca” ca resta pizzi,

caccia "pi” ca resta cazzi!...

E’ previti di pizzi e cazzi!

 

Non si può immaginare un Martino capace di moderare i termini... Martino è stato grande, soprattutto, per questo: il suo grande bisogno di libertà, non ammetteva certamente alcuna limitazione di sorta. Forse questo era un modo di sfogarsi: può darsi che, in questa grande libertà dì espressione cercava di distrarsi dai mali che vedeva intorno: "lu mundu prima t'alletta e poi si mustra 'ngratu!...", così soleva ripetere il Martino. Forse anche per questo cercava di distrarsi con composizioni "pungenti", talvolta oltre ogni accettabile misura.

L'abate Martino è stato precettore nella casa del Marchese Nunziante di San Ferdinando. Qui si è reso conto che l'autorità non era del Marchese, ma della moglie che, come si suol dire, aveva messo sotto il marito e, da questo, ne trae lo spunto per scrivere "La gonnella", cioè una “pesante” satira sui mariti che si lasciano comandare dalle mogli:

Viju 'na nova moda, assai avanzata,

e nuju mi sa diri la raggiuni.

La saja ‘a tempi nostri è assai prezzata:

si cangia cu rifusu a lu cazuni.

 

La donna, chi da Ddeu fu destinata

serva di Adamu, diventau patruni,

e ll'omu, diventatu na patata,

‘nci sta di sutta comu nu cugghiuni.

L'anticu si sustinni cu riguri

cercandu la mugghieri servicedha,

mo' v'ju ca la donna fa d'atturi:

la mugghieri mu pista lu martedhu.

 

E' veru ca ragazzu, lu Signuri,

a Cana si la misi la gunnedha,

ma grandi cchiù non fici sti figuri:

perciò risuscitau, di poi, in pannedha.

Mo' oji nudhu leji la Scrittura,

mu sapi quantu Cristu seppi fari.

La Genesi, o cazzuni, vi assicura

ca notti e jornu supra aviti a stari.

 

Mo’ l’omu è donna, è vili servitura,

E oe’ cchiù pena sua non po’ parlari:

Si parla abbaja, e poi jestima l’ura,

Quandu li cauzi soi vozzi cangiari.

 

Fu la cazzuni sempri valutatu

ma mo’ no vali cchiù di na cinquina:

tandu era nettu, e mo' chi fu pisciatu,

puzza di stoccu vecchiu e di tonnina.

 

E l'omu chi si misi, sciaguratu,

la saja, la suttana e suttanina

di la mugghieri veni dominatu,

stenduta comu viscu o ciavurrina.

E' chistu l'omu odiernu ‘ncivilutu,

chi vanta libertà e filantropia?

Oh cauzi! Oh saja! Oh tempu! 

Omu avvilutu!…

 

Suggettu ‘a  na pisciazza... Uh porcaria!..

 

Solamente in età avanzata il Martino confessa che tutte le speranze e le illusioni inseguite in giovinezza, spesso si erano trasformate in delusioni.

Il suo bisogno interiore non è stato appagato né dalle satire, tanto meno dalle poesie politiche; anzi proprio mentre il Martino afferma di essere pentito di tutto quello che aveva scritto, compone una delle sue poesie più belle, "la Confessione del Poeta pentito"

Venni, vidi, e non vinsi, anzi fui vinto

da tre nemici, e prigionier fui fatto,

quindi al collo, ne’ lombi, ai pie' fui cinto

da triplice catena a duro patto.

 

Mille e più volte dal mio cor fui spinto

a frangerla; ma che? quand'era atto

or da lusinghe, or da minacce avvinto

fui da quegli empi, e me da me distratto.

 

Ma se l'ardir, la forza, il pentimento,

Dio, che può tutto, quando vuol m'appresta,

trionferò di mille inferni, e cento.

 

Gli ultimi versi dell'Abate Martino sono dedicati alla Madonna. Passando morente, nel marzo del 1884, sui piani di Castellace di Galatro, dettò dei versi da incidere all'interno della “Cona”, una piccola cappella, costruita dai pastori, dedicata alla Madonna della Montagna.

Tu dei monti sei la Diva

che proteggi il pio pastor,

il villano, il passeggero, il paziente cacciator.

 

Viator che passi,

all'inclita Mariana Maestà,

piega il ginocchio ed offri

amore e fedeltà.

Giunto a Galatro, l'Abate Martino muore il 17 marzo, deluso da quella patria per la quale aveva provato anche l'amarezza del carcere, ma confortato da una fede che gli ha fatto dimenticare tutte le sofferenze della vita

 

* Da Proposte, Anno 5° n. 8, 16-30 aprile 1991

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