Comunismo

 

Compagni di paura...
 

 

di Antonio Socci

“Che volete fare: sono rimasti comunisti, debbono mettere loro il cappello su Prodi”. Questa lapidaria sentenza (di queste ore) non è di Silvio Berlusconi, ma di Arturo Parisi, leader della Margherita. Dunque non è solo Berlusconi a pensare (e dire) che “sono rimasti comunisti”. Ci sono anche i prodiani, che lo pensano, ma lo dicono solo in privato: agli italiani lo nascondono (eppure agli elettori interesserebbe sapere con chi vogliono governare).

Berlusconi ha scatenato furibonde reazioni per aver pronunciato queste parole: “Difendiamo la libertà. Non consentiremo che chi è o è stato comunista salga a prendere il potere”. Parole dure, risposte irate. Si è detto addirittura che l’esternazione del presidente Ciampi di mercoledì (“tutti i partiti legittimati a governare”) volesse essere una risposta al premier: “Ciampi corregge il premier”, titolava ieri Repubblica. Ma è proprio così?

Proprio la sortita di Fassino, che candida Prodi in caso di elezioni anticipate, sembra dar ragione a Berlusconi: perfino il segretario della Quercia ritiene impresentabili comunisti e postcomunisti per guidare una moderna democrazia? Se non la pensa così, perché uno schieramento dove la sinistra (proveniente dall’ex Pci) è magna pars deve di nuovo presentarsi al paese con il volto di un ex diccì come Prodi? I Ds sono il maggior partito della coalizione e avrebbero diritto a esprimere loro il candidato premier. Perché tornare a candidare Prodi per Palazzo Chigi?

Fassino potrebbe dare solo un’altra spiegazione alla sua proposta: nei Ds – potrebbe dire – non vi sono persone all’altezza di Prodi, come competenza, capacità, esperienza politica. Ma se così fosse vorrebbe dire che è un partito da rottamare. E poi D’Alema, è noto da sempre, si ritiene “er mejo”.

Sarà “er mejo”, ma sia alle elezioni del 1996 che a quelle del 2001 (quando fu inventato e “lanciato” dal nulla il candidato Rutelli) i Ds rinunciarono a esprimere la leadership. Certo, D’Alema a Palazzo Chigi c’è poi arrivato lo stesso, ma solo attraverso un ribaltone di Palazzo (quello che defenestrò Prodi). Ad arrivarci tramite il libero voto degli italiani i diessini sembrano aver del tutto rinunciato. Perché? Non è questa la procedura che si usa nei “paesi normali”? 

Forse perché quando provarono ufficiosamente a candidare lo stesso segretario della Quercia, nel 1994, con Occhetto, subirono una sconfitta traumatica. Per gli elettori – come per Parisi – “sono rimasti comunisti”.

Quando Berlusconi usa quell’argomento (meglio tenere i compagni lontani dal potere) sa di cogliere una convinzione profonda del Paese, una diffidenza così radicata che i diessini stessi ne sono consapevoli e perciò candidano i Prodi o i Rutelli.

Ma così, di fatto, confermando le parole di Berlusconi, continuano a delegittimare se stessi. Le parole di Ciampi (“tutti i partiti legittimati a governare”) dovrebbero essere ascoltate innanzitutto dallo stato maggiore della Quercia. Se Ciampi ha ragione, la Quercia non dovrebbe rinunciare a esprimere il premier. E’ vero che il dalemiano Caldarola ieri prospettava anche una candidatura di Veltroni, nel caso in cui Prodi non accettasse, ma questo sembra a molti un tentativo di “bruciare” l’attuale sindaco di Roma che si sta chiamando fuori dalla politica nazionale per rifarsi una verginità.

In modo curioso, peraltro. Il problema infatti non è l’essere stati comunisti. Pure Giuliano Ferrara è un ex. Ma Ferrara uscì dal Pci, dai vertici del Pci, cambiando mestiere e nel momento del massimo fulgore berlingueriano di quel partito, non quando il crollo del Muro e dei regimi dell’est di fatto ha costretto il Pci di Occhetto a cambiar nome con un’operazione di maquillage un po’ opportunista.

Ferrara (e prima di lui tanti altri) ha davvero fatto i conti col comunismo e li ha fatti in pubblico (tanto è vero che oggi è un anticomunista atlantico). Lo stato maggiore della Quercia no. Quando mai si è visto il loro strappo vero, lacerante, motivato dal passato di un partito che ancora negli anni Ottanta, quando Mosca ci puntava addosso i missili, stava dalla parte dell’impero sovietico? Quando riconosceranno che hanno sbagliato per decenni?

Si può svegliarsi un bel dì – la mattina dopo il crollo del Muro di Berlino - e informare furbamente il cortese pubblico di aver cambiato le generalità e quindi di non essere più la persona del giorno prima, pur mantenendo la stessa faccia, lo stesso temperamento, la stessa abitazione, gli stessi beni, lo stesso lavoro e poi le stesse pretese e le stesse intolleranze?

Al limite in politica si può perfino accettare una fuoruscita un po’ trasformista dal passato, se almeno i vizi di quel passato si perdono per sempre. Invece è tutto come prima: il “popolo di sinistra” continua a odiare e demonizzare il Nemiko (e lo si vede nelle piazze), vengono trattati come “traditori” e “servi” tutti coloro che non si fanno usare da loro (un esempio recente: il sindacato di Pezzotta), è più viscerale che mai l’ostilità preconcetta verso gli Usa, persiste l’attrazione fatale verso tutti i despoti, purché anti-occidentali, e poi resta l’inestirpabile diffidenza verso il libero mercato e il capitalismo (a meno che non sia capitalismo “di stato” o “di partito”).

E’ questa la vera, enorme anomalia italiana: non voler rompere con “la cosa” del passato, ma solo col nome. Hanno abolito i riferimenti verbali al comunismo e credono che il problema sia risolto. Non è questione di nomi, ma di comportamenti.  

Vittorio Foa, nel libro Il silenzio dei comunisti, scrive: “erano milioni in tutto il mondo, e anche in Italia, gli uomini e le donne che si dicevano comunisti: militanti, iscritti, elettori, simpatizzanti. In Italia pochi anni fa piú di un terzo dei cittadini si dicevano tali. Ora stanno in grande parte in silenzio, il loro passato è cancellato nella memoria. Sento acutamente, quasi come un'ossessione, questo silenzio”.

A dire il vero tutti quei comunisti non sono spariti, hanno semplicemente cambiato la sigla del partito, e non perché perseguitati, ma perché i regimi (quelli sì persecutori) dell’Est sono crollati nella vergogna. Pochi oggi si qualificano come comunisti perché si vuol far credere che in Italia non ce ne siano mai stati.

Ma le masse di ieri, rimpiante da Foa, sono le stesse che urlano oggi e parecchio sotto altre sigle. Dopo essersi autoassolti in un baleno per ciò che è stato il comunismo, i compagni sono subito saliti sul palco e arringando la piazza puntano il dito come Accusatori contro l’Occidente (che sarebbe colpevole di ogni nefandezza) e contro i propri avversari. Ancora una volta loro sono il Bene e gli altri il Male da sradicare.

Per questo gli italiani continuano a pensare che siano rimasti sempre gli stessi. Avessero rispetto per la loro stessa storia e avessero la cognizione del dolore che ha implicato, sarebbero diversi e si candiderebbero in prima persona come leader affidabili. Alcuni così ce ne sono, ma pochissimi e – questi sì – invisibili e muti.
 

 

Comunismo: «Compagni di paura», di Antonio Socci, Il Giornale, 16 Maggio 2003

 

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