Conflitto Palestinese-Israeliano

No all'ipotesi esilio. Prosciugare il conto di Arafat
 

 
di Vittorio E. Parsi


Desta perplessità l'annuncio israeliano circa la decisione di esiliare Arafat dai Territori; non solo perché offre un'oggettiva sponda politica interna e internazionale a un personaggio che decisamente non la merita proprio più, ma anche perché rischia di cumulare problema a problema. Se infatti è vero che Arafat rappresenta un ostacolo sulla strada per la pace, è altrettanto evidente che un Arafat in esilio costituirebbe un ostacolo doppio. La Ramallah di oggi non è la Beirut degli anni Ottanta, e questa volta Sharon non può sperare di esiliare Arafat in Tunisia o altrove. Piaccia o non piaccia, Arafat resta l'unico leader rappresentativo del suo martoriato popolo: al punto che non è neppure concepibile un trattato di pace che non rechi la sua firma. Questo è un dato di fatto.


Però Arafat non è un interlocutore credibile per il processo di pace. E questo è un altro dato di fatto. L'insistenza con cui gli americani e gli israeliani (e in teoria anche gli europei, ma chi se ne è accorto?) hanno chiesto l'istituzione della figura di un primo ministro è dovuta proprio al tentativo di fare i conti con una simile realtà. E' stato il tentativo di forzare i palestinesi alla realizzazione di un tandem, in cui a un leader rappresentativo si affiancasse un interlocutore affidabile. Yasser Arafat non si è accontentato però di un ruolo di "padre della patria" e ha fatto fuori il suo premier Abu Mazen, reo di aver cercato di fornire un minimo di plausibilità alla collaborazione palestinese nella guerra contro il terrorismo.


Non è certo casuale che la lotta tra Abu Mazen e il suo presidente si sia fin dall'inizio concentrata sulla figura del responsabile della sicurezza. E su tale questione è di fatto continuata, con l'appoggio concreto fornito dal presidente palestinese agli attentatori delle scorse settimane, allo scopo di provocare la reazione di Gerusalemme e così costringere lo stesso primo ministro alle dimissioni. Il controllo delle forze di sicurezza - dalla polizia alle varie milizie riconducibili a Fatah - è uno dei due pilastri del potere personale di Arafat. La comunità internazionale ha provato a sottrarglielo attraverso il plateale, corale appoggio fornito ad Abu Mazen, ma ha fallito. È giunto il momento di attaccare il secondo decisivo pilastro, quello finanziario. Arafat conta su un'enorme massa di denaro che a vario titolo gli arriva non solo dal mondo arabo, ma anche dall'Occidente. L'Unione Europea è uno dei maggiori "donors", oltretutto assai poco attenta al concreto utilizzo del fiume di denaro che così munificamente elargisce. Nell'interesse della pace, si sospendano subito i finanziamenti all'Autorità palestinese, tutti e a qualsiasi titolo concessi, almeno fino a quando Arafat non darà prove concrete di voler tener fede agli impegni presi con l'accettazione della Road map. Si prepari pure un generoso piano di aiuti e lo si illustri con tutta la dovizia necessaria, ma se ne congeli l'attivazione fino a quando non si avranno garanzie sulla buona volontà del leader palestinese. Nessuna pace può essere credibilmente stipulata senza Arafat, nessuna trattativa può essere seriamente intavolata con lui. Accanto al leader più rappresentativo deve tornare a stagliarsi la figura di un interlocutore affidabile. Arafat ora gonfia il petto e si atteggia a martire, ma sa perfettamente che senza i soldi dell'Occidente la sua popolarità (comunque non così alta) inizierebbe assai presto a liquefarsi, sotto il torrido sole di Ramallah.
 
 

Conflitto Palestinese-Israeliano: «No all'ipotesi esilio. Prosciugare il conto di Arafat» , di Vittorio E. Parsi, Avvenire 13.9.2003

 

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