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“Pace più che mai possibile in MO. A patto che Colin Powell…”. La posizione (cattolica) di un osservatore vaticano


Intervista a David Jaeger (*)
a cura di Luigi Amicone



Il nostro interlocutore ci raccomanda di spiegare ai lettori che ha accettato di parlare con Tempi sulla guerra in corso tra Israele e Palestina solo a titolo personale e, detto in termini cari agli atti giudiziari, come "persona informata dei fatti". Quello che sappiamo di lui, lo riferiamo nell'
editoriale. Quello che invece sappiamo del negoziato che ha mirato a salvaguardare uno dei luoghi più cari alla cristianità (la chiesa della Natività di Betlemme) e, al tempo stesso, ad evitare uno spargimento di sangue, dobbiamo, per il momento, aver cura di tenerlo per noi.



Chiesa della Natività di Betlemme

Padre Jaeger, il caso di Betlemme ha fatto apparire sulla scena del conflitto quella sparuta minoranza che sono i cristiani (30mila, tra cattolici, protestanti e ortodossi su una popolazione di 9 milioni di ebrei e musulmani tra Israele e Palestina). Lei, in una recente apparizione televisiva ha voluto smentire l'opinione di chi parla dei suoi confratelli come di una minoranza stretta tra due fondamentalismi. E dunque, che valore e che giudizio esprime questa presenza cristiana in Palestina e Israele?
I cristiani in Terrasanta non sono una nazione a parte, accanto ad ebrei e musulmani. I cristiani secondo la corretta concezione dell'essere cristiano, insegnata già dall'antico apologeta San Giustino, proprio della Terrasanta,
i cristiani sono membri ciascuno della propria nazione, di cui condividono la cultura, le abitudini e anche le sorti. Allora, nella situazione drammatica della Terrasanta, i cristiani palestinesi condividono la sorte della loro nazione, così come i cristiani israeliani condividono la sorte d'Israele. Certamente, in un certo senso, sono uniti tra loro dalla fede soprannaturale che relativizza ogni altra appartenenza. Separato resta il discorso dei Luoghi Santi, del personale religioso e sacerdotale addetto al loro servizio. I Luoghi Santi anche in mezzo alla guerra e allo spargimento di sangue, rimangono e devono rimanere isole di pace e serenità, proprio per essere nel mezzo della tempesta un segno della possibilità di pace. Un segno che la tranquillità dell'ordine, come chiamerebbe la pace San Tommaso d'Aquino, è possibile, perché almeno qui c'è e almeno qui rimane indisturbata. Purtroppo, nel corso di questo conflitto, questo principio che ha un valore religioso, umano e di civiltà, non è stato sempre rispettato. Soprattutto gli incidenti gravi che hanno coinvolto luoghi sacri rafforzano la domanda costante della Chiesa cattolica di una tutela internazionale costante ed efficace per i luoghi sacri.


Lei dice che i cristiani condividono il destino del popolo a cui appartengono. Lei, da cittadino israeliano, come giudica l'iniziativa militare messa in atto dal suo governo per contrastare il terrorismo?
La situazione attuale o recente venutasi a creare in Terrasanta tra israeliani e palestinesi, fa parte di una serie d'avvenimenti e sviluppi che bisogna valutare nel loro insieme. Io personalmente sono ebreo e israeliano, però come credente cristiano mi sento ugualmente vicino ai miei fratelli nella fede dalla parte palestinese e, attraverso di loro, anche ai loro connazionali palestinesi. Per cui l'angoscia, la tristezza e la preoccupazione del mio animo abbracciano entrambi i popoli, tutti gli uomini, le donne e i bambini di questa nostra terra così travagliata. Non è una posizione facile, è molto più facile ed emotivamente molto più soddisfacente, per dire così, schierarsi semplicemente con gli uni o con gli altri. È chiaro che per una valutazione giusta della situazione nel suo insieme bisogna capire le ragioni di entrambi i popoli. Bisogna capire che i palestinesi hanno una voglia di libertà enorme, alimentata dal fatto di trovarsi da ormai 35 anni sotto un regime di occupazione militare e di vedere lo stesso assetto fisico del proprio territorio consumato sempre più dagli insediamenti e dalle risorse naturali ed altre utilizzate per l'opera degli insediamenti. Per cui, soprattutto con il passare degli anni mentre la situazione non migliorava sostanzialmente, la disperazione da parte palestinese è quasi indescrivibile. D'altra parte è certo che in Israele il ripetersi frequente di atti di terrorismo atroce e totalmente disumano hanno esacerbato gli animi e scatenato una voglia non solo di rappresaglia ma di un riassetto totale della situazione che impedisca in futuro gli attacchi terroristici. Io credo che lo spartiacque è stato proprio il massacro della notte santissima della Pasqua ebraica, a Netanya. Il numero dei morti è ormai salito a 27, oltre alla carica simbolica della violazione della sacralità di quella notte che per gli ebrei significa proprio il passaggio dalla schiavitù alla libertà, dall'insicurezza alla serenità. Quindi
abbiamo assistito allo scontro tra due disperazioni. Alle disperazioni bisogna sostituire la speranza. La speranza dal punto di vista naturale e umano paradossalmente ci sarebbe più che mai. Gli elementi di una pace onorevole ed equa tra i due popoli ormai ci sono tutti. Voglio sottolineare l'epocale iniziativa di pace varata dalla Lega Araba proprio poche ore prima del massacro della Pasqua. Per la prima volta nella storia, rovesciando posizioni tenaci che sembravano perpetue, l'insieme del mondo arabo si è dichiarato pronto a riconoscere Israele, a legittimare la presenza in Medio oriente dello Stato ebraico e a mantenere con quello normali relazioni di pace, chiedendo in cambio o meglio come condizione di possibilità di questa pace che sembrerebbe quasi escatologica, il ritiro di Israele dai territori tenuti sotto occupazione belligerante. E tenuti sotto occupazione belligerante proprio in attesa della possibilità di fare precisamente questa pace. Per cui è proprio allucinante che nel momento della più grande speranza che ci sia mai stata per una pace israelo-araba si sia scatenato questo scontro feroce e sanguinoso.


Sulla scena del conflitto è in arrivo il segretario di Stato americano Colin Powell. Da "persona informata dei fatti" a quali obbiettivi negoziali gli consiglierebbe di puntare?
Nel corso dell'anno e mezzo trascorso fin dall'inizio della fase attuale del conflitto israelo-palestinese, come pure nei decenni precedenti, non è mancato mai il movimento, talvolta frenetico, di politici e diplomatici tra America, Europa, Israele e Paesi arabi. Ministri, primi ministri, Presidenti, incaricati speciali, sono arrivati e se ne sono tornati a casa. Le chiacchiere si sono moltiplicate quasi all'infinito. L'arrivo o la partenza di questo o di quel personaggio non è di per sé significativo. La questione è se tutto questo "da fare" è finalizzato a qualche progetto concreto e preciso, e se gli attori sono decisi a proseguire fino alla sua conclusione. In questo caso è chiaro, almeno a me, che la pace richiede una conferenza di pace, che più utilmente potrebbe essere una riedizione, o meglio una riconvocazione della Conferenza di Madrid, mai sciolta, per arrivare alla pace non soltanto tra israeliani e palestinesi ma anche tra Israele, Siria e Libano. Perché, come l'esperienza degli accordi di pace tra Israele e Giordania e ancora prima tra Israele ed Egitto ha dimostrato, la pace puramente bilaterale con questo o quel paese arabo, pur non essendo priva di valore, non giova più di tanto. Le basi ci sono oggi e non ci sono state in questa misura in passato per realizzare questa pace globale. Oggi c'è l'occasione per farlo. Se l'opera del mediatore americano fosse indirizzata a proseguire su questa linea, potrebbe cambiare la situazione in meglio. Se invece si trattasse soltanto di qualche aggiustamento, forse di qualche tregua necessariamente temporanea, si deve temere che il ciclo della violenza non possa che riprendere in un futuro non tanto remoto. Tutto dipende dal progetto. Ma un simile progetto di pace richiederebbe il coordinamento ad un livello che non c'è mai stato tra Usa, Europa, Russia, con la legittimazione e gli strumenti giuridici dell'Onu. Sono capaci soprattutto gli Usa e l'Ue di superare rivalità spicciole, questioni di prestigio, per collaborare sinceramente in questo senso? E' la grande sfida che si pone.


"Con" Arafat o "senza" Arafat?
Io depreco abitualmente l'eccessiva personalizzazione della politica. Anzi la sostituzione della politica con la personalizzazione spettacolarizzante che serve soltanto ai fini mediatici.
La politica si svolge non tra persone, ma tra nazioni, schieramenti, programmi e idee. Questo come principio generale, se mi è consentito. Quindi il negoziato si deve svolgere tra israeliani e palestinesi, tra due nazioni. Ciascuna nazione certamente sceglie chi la rappresenta, chi la guida. Inutile soffermarsi sulle persone da una parte o dall'altra.


Ovunque in Europa è altissima l'attenzione a contrastare ogni rigurgito di antisemitismo. E purtroppo anche in Italia non siamo immuni dal rischio di manifestazioni che confondono la critica ad un governo con l'accusa ad un popolo...
Io separerei queste due questioni. L'antisemitismo, in tutte le sue manifestazioni, verbali o violente che siano, è un male assoluto. Ricordo che la Chiesa cattolica si è assolutamente impegnata nell'avversare l'antisemitismo. Tra l'altro, dall'articolo II dell'Accordo Fondamentale tra Israele e Santa Sede, firmato nel 1993, nonché dai numerosi discorsi e dalle numerose dichiarazioni del Santo Padre in tantissime occasioni, emerge che contro l'antisemitismo cattolici ed ebrei sono assolutamente uniti e nessuno mai più li potrà separare. Tuttavia
non bisogna confondere l'antisemitismo con posizioni politiche riguardanti il Medio Oriente, posizioni giuste o ingiuste che siano. Confondendo le cose, si accresce il pericolo di antisemitismo perché si schierano gli ebrei in quanto ebrei con determinate politiche o posizioni dello Stato d'Israele. Gli ebrei sono cittadini come gli altri in Europa, possono avere le posizioni politiche più varie sulle vicende del Medio Oriente. E quando hanno posizioni politiche le hanno necessariamente come uomini, come cittadini. Quanto all'unilateralità di certe posizioni politiche, da una parte o dall'altra, bisogna capire che nella politica, interna come esterna, è difficile essere sottili. Questo lo può fare il filosofo o il saggista. Ma la politica è finalizzata all'azione. Ciascun partito, ciascuna corrente sceglie il proprio obiettivo e fa di tutto per farlo accettare, per avversare le posizioni diverse. Nel farlo la verità, molto più sottile e sfumata, è spesso vittima. Da tutte le parti. È il prezzo che si paga per il protagonismo. Un prezzo che ad un certo momento a mio avviso è anche inevitabile. Spetta a coloro che non sono interamente assorbiti dalla quotidianità delle lotte politiche svelare anche altri elementi, aspetti e prospettive.

(*) Padre David Jaeger, sacerdote cattolico francescano, è attualmente portavoce della Custodia di Terra Santa.

L. Amicone
Tempi, Numero: 15 - 11 Aprile 2002