Aborto

Gli ospedali americani dove nascono anche i bambini terminali


«Sta a Minneapolis […] uno dei quaranta hospice perinatali ai quali ci si può rivolgere per essere accompagnati e sostenuti quando il figlio che si ha in pancia ha una malattia genetica “incompatibile con la vita”, un figlio che sicuramente morirà prima o poco dopo la nascita. […]  Gli hospice sono estranei alla logica pro choice contro pro life, e molti non sono neppure affiliati a movimenti antiabortisti: propongono solamente di sostenere le famiglie in circostanze così drammatiche, di aiutare a vincere l’isolamento che inevitabilmente arriva, quando amici e familiari non sanno più cosa dire per confortare, insegnano come spiegare a fratellini e sorelline che il nuovo arrivato non crescerà con loro, e soprattutto “ci hanno dato la possibilità di capire che questo non è qualcosa al di fuori dell’ordinario, che questa è la vita e che le persone perdono i propri figli”. […] Alaina Kilibardas ha la trisomia 18, e fa parte di quel 10 per cento di bambini con questo tipo di malattia che sopravvive oltre i due mesi. Adesso ne ha venti, e i suoi genitori sanno che difficilmente arriverà all’età prescolare. […]  “La sua vita sarà quel che sarà, se vive due settimane questa è la sua vita. È la nostra bambina”, dice il padre».

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Assuntina Morresi, Il Foglio, 16.03.2007
 

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Aborto:   «Gli ospedali americani dove nascono anche i bambini terminali», Assuntina Morresi, Il Foglio, 16.03.2007. «Sta a Minneapolis […] uno dei quaranta hospice perinatali ai quali ci si può rivolgere per essere accompagnati e sostenuti quando il figlio che si ha in pancia ha una malattia genetica “incompatibile con la vita”, un figlio che sicuramente morirà prima o poco dopo la nascita. […]  Gli hospice sono estranei alla logica pro choice contro pro life, e molti non sono neppure affiliati a movimenti antiabortisti: propongono solamente di sostenere le famiglie in circostanze così drammatiche, di aiutare a vincere l’isolamento che inevitabilmente arriva, quando amici e familiari non sanno più cosa dire per confortare, insegnano come spiegare a fratellini e sorelline che il nuovo arrivato non crescerà con loro, e soprattutto “ci hanno dato la possibilità di capire che questo non è qualcosa al di fuori dell’ordinario, che questa è la vita e che le persone perdono i propri figli”. […] Alaina Kilibardas ha la trisomia 18, e fa parte di quel 10 per cento di bambini con questo tipo di malattia che sopravvive oltre i due mesi. Adesso ne ha venti, e i suoi genitori sanno che difficilmente arriverà all’età prescolare. […]  “La sua vita sarà quel che sarà, se vive due settimane questa è la sua vita. È la nostra bambina”, dice il padre».


 
Rassegnina   INTERRUZIONE VOLONTARIA DELLA RAGIONE
 
  • «Veronesi: tempi minori per l’aborto terapeutico», Mario Pappagallo, Corriere della Sera, 14.03.2007
    «“Penso che sia ragionevole fissare come limite massimo per il cosiddetto aborto terapeutico la ventiduesima settimana di gravidanza, invece della ventiquattresima, soglia definita attualmente dall’abituale pratica clinica. Ed è auspicabile che la legge 194 si esprima in questo senso con correzioni ad hoc. […] Penso comunque che nel praticare l’aborto dopo la ventiduesima settimana di gestazione qualche rischio ci sia. Il bimbo, infatti, può sopravvivere e c’è l’obbligo medico di rianimarlo, nonostante l’altissima probabilità di malformazioni permanenti”».
     
  • «Inchiesta sulla firma contro le cure al feto», Francesco Di Frischia, Corriere della Sera, 10.03.2007
    «Daniele Scassellati, responsabile del centro per le interruzioni di gravidanza, ribadisce: “Anche se il feto nasce vivo, è sbagliato tentare di rianimarlo ad ogni costo. Va rispettata la volontà dei genitori: se loro chiedono l’aborto vuole dire che non vogliono portare avanti quella gravidanza. Rispetto le idee antiabortiste, ma io faccio quello che mi chiedono».
     
  • «Una sfida per i laici», Pierluigi Battista, Corriere della Sera, 10.03.2007
    «Beati i seguaci della dogmatica tecnoscientista, se non vengono scossi nelle loro incrollabili certezze nemmeno al cospetto del bimbo fiorentino. […] Ma se la laicità è dubbio e non dogma, spirito critico e non fideismo, attenzione alla realtà e non rigidità dottrinaria, come può un laico non capire che anche i più recenti fatti di cronaca pongono dilemmi etici schiaccianti cui (“laicamente”) non si può far fronte muniti arrogantemente di risposte preconfezionate, perfettamente allineate in una nuova, seppur profana forma di catechismo? È da tempo ormai che i laici sono sulla difensiva […]. Come se discutere della natura di un embrione, fino a negarne aprioristicamente ogni caratteristica di persona sia pure in nuce, costituisse un cedimento alle ragioni del nemico all’offensiva […]. Ma cosa deve fare un laico: ignorare che quel bambino non è più un feto ma un neonato e che la scienza e la tecnica non sono lontane dal traguardo di tenerlo in vita? Cancellare per decreto l’inquietudine che il riconoscimento di una “vita umana” in uno stadio sempre più precoce dell’esistenza biologica, persino nell’embrione, possa frenare il cammino della ricerca scientifica? Soprattutto non può arroccarsi in un negazionismo preconcetto, fare spallucce per neutralizzare gli attacchi dell’avversario, eliminare il problema per sguarnire le difese».
     
  • «Gli ospedali americani dove nascono anche i bambini terminali», Assuntina Morresi, Il Foglio, 16.03.2007
    «Sta a Minneapolis […] uno dei quaranta hospice perinatali ai quali ci si può rivolgere per essere accompagnati e sostenuti quando il figlio che si ha in pancia ha una malattia genetica “incompatibile con la vita”, un figlio che sicuramente morirà prima o poco dopo la nascita. […]  Gli hospice sono estranei alla logica pro choice contro pro life, e molti non sono neppure affiliati a movimenti antiabortisti: propongono solamente di sostenere le famiglie in circostanze così drammatiche, di aiutare a vincere l’isolamento che inevitabilmente arriva, quando amici e familiari non sanno più cosa dire per confortare, insegnano come spiegare a fratellini e sorelline che il nuovo arrivato non crescerà con loro, e soprattutto “ci hanno dato la possibilità di capire che questo non è qualcosa al di fuori dell’ordinario, che questa è la vita e che le persone perdono i propri figli”. […] Alaina Kilibardas ha la trisomia 18, e fa parte di quel 10 per cento di bambini con questo tipo di malattia che sopravvive oltre i due mesi. Adesso ne ha venti, e i suoi genitori sanno che difficilmente arriverà all’età prescolare. […]  “La sua vita sarà quel che sarà, se vive due settimane questa è la sua vita. È la nostra bambina”, dice il padre».

 

Commento:

 

Dopo l’ennesimo caso in cui i medici hanno mostrato la loro fallibilità, si è tornati a parlare di aborto e di legge 194. A Firenze, infatti, un errore nella diagnosi su un feto ha condotto i medici e la madre a praticare un’interruzione di gravidanza alla ventiduesima settimana. Il bimbo è sopravvissuto e non aveva alcuna malformazione. Provava dolore, piangeva e respirava autonomamente. Era perfettamente vivo e per questo forse ha dato così tanto fastidio e ha suscitato così tante domande. I dottori lo hanno rianimato, sebbene in ritardo. È riuscito a rimanere in vita per sei giorni.

Per evitare il “rischio” che altri feti resistano all’aborto, Veronesi propone di abbassare il limite massimo per l’interruzione volontaria di gravidanza da ventiquattro a ventidue settimane. Il San Camillo di Roma invece avanza l’ipotesi di far firmare alla donna un consenso informato, per rinunciare alle cure nel caso il piccolo sopravviva, in modo da raggiungere l’obiettivo: la soppressione del feto. L’approccio alla vita e alla morte è dunque ridotto a un mero tecnicismo legislativo o relegato alla decisione soggettiva della madre, che sollevi i medici da ogni responsabilità.

Soluzioni comode che non impegnano la ragione nella fatica di riconoscere l’evidenza: la vita di quel feto di ventidue settimane non è un’opinione, non appartiene all’esercizio della dialettica, ma è una realtà visibile a tutti. Negli hospice statunitensi questo è chiaro, addirittura nel caso di feti malformati. Le famiglie con bambini malati e destinati alla morte poco dopo la nascita sono accompagnate nel portare a termine la gravidanza e nel compiere così un’esperienza incomparabilmente più umana. Non si tratta di difendere l’ideologia del pro life, ma quell’uso ampio della ragione che non censura nessun aspetto della realtà. Anche se doloroso.

 

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