Pace

La presenza del Cristianesimo cambia anche  il modo di fare la guerra

La crociata che non c'è
 

 
di Ernesto Galli della Loggia,



Nei giorni scorsi, con 346 sì e 49 no la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato una mozione con la quale è stata indetta «una giornata nazionale di contrizione, di preghiera e di digiuno» per «impetrare l'aiuto e la guida di Dio al fine di comprendere meglio i nostri errori e imparare sia a comportarci meglio nella vita di ogni giorno sia a rafforzare la determinazione di ognuno di noi di fronte alle prove che attendono la nostra nazione». Sostenere come qualcuno ha fatto che queste parole rappresentano «un appello alla provvidenza per la vittoria sul male» e che esse «non tradiscono il minimo dubbio che la causa del conflitto con l'Iraq sia giusta, se non anche santa» mi sembra che contrasti clamorosamente sia con il testo letterale sia con l'intento ravvisabile delle parole. Un tale fraintendimento esprime quanto sia diventato arduo per noi europei accogliere un qualunque discorso pubblico di tipo religioso senza sospettarlo di un immediato e strumentale uso politico. Avendo ormai relegato quasi per intero la religione nella sfera del privato, non riusciamo a concepirla come fatto collettivo altrimenti che alla stregua di una bieca risorsa del potere.

Proprio qui si manifesta una di quelle profonde diversità culturali tra americani ed europei che oggi più che mai (ma certamente non da oggi) rendono così difficile il dialogo - e a maggior ragione un'intesa - tra i due. A differenza degli europei, gli americani, lungi dall'aver espulso Dio dal loro discorso pubblico, lo ritengono anzi una fonte ispiratrice e un centro essenziale della loro dimensione sociale. Protagonisti primi e tuttora ineguagliati di un'effettiva e rigida separazione tra Chiesa e Stato, privi di un qualunque passato clericale, fruitori da sempre della massima libertà di manifestazione del pensiero, proprio grazie a tutto ciò, gli americani possono ridersela della pudibonda ritrosia degli europei quando si tratta di notificare (per esempio in un'eventuale Costituzione) che la loro civiltà, guarda un po', ha qualcosa a che fare con il retaggio religioso giudaico-cristiano. Diversamente da noi, i cittadini degli Usa possono evocare la propria fede in un principio primo trascendente senza che ciò susciti allarme in alcun apostolo del libero pensiero o dei valori «repubblicani».

Ha un qualche rapporto tutto questo con il fatto che la maggioranza dell'opinione pubblica americana crede ancora nella dimensione dello Stato nazionale (innanzitutto del proprio, come si capisce), della sua sovranità e alla necessità di affrontare con le armi in pugno il nemico che metta in pericolo l'uno e l'altra? Ovviamente sì, direi. Dispiacerà a più d'uno sentirlo dire, ma poche cose sono più certe da un punto di vista storico e antropologico-culturale del rapporto strettissimo che è sempre intercorso tra guerra e religione.
Non tutte le religioni sono eguali, però; e anche di questo, forse soprattutto di questo, mi pare, ci parla la dichiarazione dei deputati degli Stati Uniti: della diversità che oggi esiste tra Cristianesimo e Islam riguardo il modo di intendere la dimensione collettiva della religione. Altro che sicurezza degli Usa di avere Dio dalla propria parte, di cui abbiamo letto, in obbedienza all'immagine caricaturale di un Bush «crociato». È vero l'opposto.

Nelle parole della Camera americana si sente risuonare con accento tutto particolare vuoi il dubbioso interrogarsi della coscienza vuoi la consapevolezza della natura umana come qualcosa di inevitabilmente portato all'errore e al male, secondo il nucleo più intimo della visione cristiana. È solo sulla base di questa premessa che la sfera del potere e della politica osa rivolgersi alla divinità. Essa sa di essere cosa non solo distinta dalla sfera religiosa ma è altresì consapevole della propria essenziale inadeguatezza rispetto ai criteri che valgono in quella sfera. Nell'ambito cristiano attuale, insomma, la politica sa che solo i giusti possono sperare di trovare ascolto, e dunque aiuto, presso Dio; non già i fedeli perché tali, e tanto meno gli appartenenti a questo o a quel popolo, a questa o quella nazione. 

Proprio perciò oggi mi sembra virtualmente impossibile, da parte cristiana, un qualunque appello alla guerra santa. Viceversa, come anche le ultime circostanze dimostrano, la guerra suscita dappertutto interrogativi infiniti e l'immediata questione della sua ammissibilità etica. Ma è impossibile allora non chiedersi: un tale svolgimento di fatti e di princìpi ha un corrispettivo nel mondo islamico? Il rapporto religione-guerra alimenta in quel mondo i medesimi dilemmi, interroga la coscienza individuale allo stesso modo che nel nostro? Produce la medesima tensione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio? Lascio a chi è più competente di me di dare una risposta, ma non senza farmi un'ultima domanda: se le cose fin qui dette non riguardano ciò che usiamo abitualmente designare con la parola «cultura» o «civiltà», si può sapere di che cosa mai parliamo allora quando ci capita di usare questi termini?
 

 

Pace: «La crociata che non c'è», di Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera 6.4.2003

 

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