Pace

... e se la coalizione avesse bisogno del nostro supporto?

L'ormeggio del buon senso
 

 
di Adriano Sofri,



L’unica previsione confermata era che la guerra sarebbe comunque scoppiata. E’ scoppiata. Tutto il resto è spiazzato. Soprattutto, l’andamento di pochi giorni è bastato a disegnare scenari impensabili alla vigilia, fino all’eventualità di una sconfitta americana: se non davvero pensata, almeno immaginata e, come succede, desiderata. Allegria dei naufragi e delle disfatte delle iperpotenze: qualcuno, invece di ricacciare indietro quel pensiero con qualche turbamento, ha deciso di sventolarlo, come una buona idea. 

Per il momento, è raro chi ammetta di augurarsi la sconfitta secca degli angloamericani, per l’imbarazzo dell’augurio complementare: che vincano Saddam Hussein e i suoi. L’idea è invece inalberata nella versione affabile: vinca pure la coalizione –dopotutto, come potrebbe non vincere?- ma paghi il prezzo più caro, in durata della guerra e costo umano. Così imparerà la lezione. 

Non riesco a vedere come la lezione possa essere diversa dalla moltiplicazione di morte e sofferenze di tutte le parti, gente irachena e combattenti di ogni fronte; e dall’infiammazione jihadista nell’intera regione. Prima di questa sortita ulteriore, gran parte della sinistra intenzionata a dare coerenza, dopo lo scoppio della guerra, alla propria mobilitazione per sventarla, si era attestata sullo slogan: “Fermiamo la guerra”. Comprese correnti e uomini –D’Alema, per esempio- fra i cui difetti non spicca di norma la demagogia e la concessione all’aria che tira, e hanno anzi un qualche gusto per la navigazione controcorrente. 

Lo slogan “Fermiamo la guerra” non ha solo la debolezza di essere pressochè del tutto irrealizzabile: senz’altro più irrealizzabile che non fosse il tentativo di prevenire lo scoppio della guerra. Non si può credere che l’amministrazione Bush interrompa l’azione militare intrapresa. Piuttosto, si dovrà temere un rincaro terribile di potenza d’armi. Naturalmente, un proposito politico, e anche uno slogan, può essere rivendicato come giusto e benefico anche quando si sappia irrealizzabile. Ma “fermare la guerra” adesso vuol dire rassegnarsi alla vittoria di Saddam Hussein, e con essa a una galvanizzazione micidiale della combattività islamista, e precisamente anche a una minaccia tragica su Israele.

Chi abbia ritenuto con angoscia e convinzione che la guerra all’Iraq (senza ma anche con la ratifica dell’Onu) fosse un gravissimo errore morale e politico, è messo di fronte, ora che la guerra c’è, e che si svolge in modo così impervio, alla questione di fondo del rapporto con gli Stati Uniti. Non so se la salmodia sull’antiamericanismo la metta a fuoco, o al contrario la offuschi. Se gli Stati Uniti sono il nemico principale dell’umanità (uso non a caso questo lessico già famigliare, e le sue appendici, la distinzione fra popolo e classe dirigente, Cia, multinazionali, complesso militareindustriale ecc.), la guerra all’Iraq apparirà, anche a chi ammetta volentieri che il regime iracheno è una tirannia feroce, come una insperata occasione per l’indebolimento o addirittura la sconfitta dell’imperialismo americano. Temo che una visione del genere, o in subordine una sensazione, si vada rivelando assai più diffusa e golosa di quanto si potesse figurarsi, sia pure con svelte correzioni lessicali –impero al posto di imperialismo, è la prima. Se all’opposto prevalga una convinzione di appartenenza comune all’occidente (spiegherò subito che cosa intendo con questa paroletta minuscola), una solidarietà con gli Stati Uniti, e tanto più con l’Inghilterra (isola, dunque ponte), sarà lo sfondo dell’aspettativa sulla guerra malauguratamente intrapresa. Solidarietà, dico, nel senso della corresponsabilità in solido che lega degli associati nel bene e nel male, nei crediti e nei debiti.

La ragione sociale è l’occidente. Uno chiese: “Mr Gandhi, che cosa pensa dell’Occidente?” “E’ una buona idea”, rispose Gandhi. Lo penso anch’io. So che le buone idee, e questa specialmente, si trascinano dentro una quantità di pessimi fatti. Ma sto con le società in cui oggi ciascuna donna è libera di decidere della propria capigliatura, e vorrei che si estendessero, e che si riducessero i territori in cui la capigliatura delle donne è confiscata da un potere. 

Gli Stati Uniti hanno la leadership economica e militare, e non sono alla sua altezza –così pensiamo in molti, davanti alla teoria e alla pratica della guerra preventiva- dal punto di vista culturale, morale e politico. Bisogna opporsi alla loro guerra, proponendo un’alternativa efficace alla fondata questione cui essa crede di rispondere. Con qualunque ragionevole criterio le si guardi (l’incolumità delle persone, l’entità delle distruzioni materiali, l’umiliazione e l’esaltazione del mondo arabo e islamico, la frustrazione della speranza militante di tanta gente amante della pace), la protrazione e la difficoltà crescente della guerra sono per questa posizione il peggio. 

Il rifiuto di sostenere materialmente la vittoria angloamericana (leggi: il più breve e incruento andamento militare e la caduta di Saddam) ha ragioni forti e tutt’altro che ideologiche: la più forte è, per chi la senta, nell’obiezione di coscienza a una decisione che renda corresponsabili della vita e della morte anche di una sola vittima della guerra. Forte è anche la premura (così dominante in Giovanni Paolo II) a tenersi fuori da una dichiarazione di inimicizia religiosa o culturale o nazionale che peserà sul futuro. Altrimenti, è solo una testimonianza narcisistica.

 Bisognerebbe immaginare una domanda impossibile (sperando che lo resti): che cosa faremmo se l’esercito angloamericano si trovasse in un pericolo estremo e incombente, e avesse bisogno del nostro soccorso? Se la risposta vi viene facile, fate bene a preoccuparvi. A me viene così difficile che, per ora, rinuncio. Dall’obiezione che gli americani se la sono andata a cercare, con un oltranzismo tracotante e accecato, non deriverebbe, mi pare, la decisione di lasciarli alla loro sorte. Alla grande occasione del crollo dell’impero americano non tengo affatto: non certo in assenza di un sistema di governo mondiale che argini l’ubiqua bellicosità contemporanea, travolgente almeno quanto la nuova era di pace che le nostre piazze e il Papa annunciano. La speranza e l’illusione, o almeno l’auspicio, sul mondo convertito alla pace, cui si oppone il contrario. 

E l’islamismo, cioè un sentimento politico vestito di un’ambizione religiosa, è oggi la bandiera convocante di un’internazionale antioccidentale (meglio che anticapitalistica) che ha preso provvisoriamente il posto del realcomunismo sovietico e del terzomondismo cinese. E’ l’avanguardia del risentimento e della rivalsa del mondo povero e giovane e umiliato. Questo fa dell’Iraq altra questione dalle innumerevoli guerre in corso.

Lasciamo stare intanto le domande dell’impossibilità. (Tuttavia, si prova davanti all’assurdità odierna una nostalgia della casistica di una volta. Per esempio: è morale rassegnarsi a una guerra presso che mondiale che ha per posta un tiranno? Dei bravi gesuiti secenteschi avrebbero dato una benedizione e un revolver da tasca al cardinale Echegaray). La più preziosa efficacia pratica della mobilitazione per la pace non è stata, come stranamente si rivendica, di aver “ritardato” la guerra –forse vale il contrario- bensì di influenzare fortemente la cura per le vite dei civili e degli stessi soldati nella conduzione militare. Questo, che a qualche generale può apparire un vincolo da femminucce, e a qualche politico un’opzione elegante ma solo fino a che il gioco non si faccia duro, dovrà essere invece un passaggio cruciale dal ricorso alla guerra a quello a una polizia internazionale. E resta, a guerra in corso, un compito quotidiano. Ma l’impegno più ambizioso dovrebbe contrastare l’inerzia che fa congelare e indurire la spaccatura aperta prima della guerra, e invece spingere a ritrovare una corresponsabilità fra americani ed Europa. Ciò che può avvenire solo attraverso un confronto che, senza complicità ipocrite o rassegnazioni da fatto compiuto, investa la conduzione della guerra e del dopoguerra.

Si può pensare che gli obiettivi dichiarati della guerra –specialmente da parte di Blair, che rischia di essere da noi meno disprezzato di Bush ma più odiato, perchè si odia appassionatamente il vicino di stanza- siano solo la copertura di altri e inconfessabili, il petrolio, la venerazione del dominio, l’affarismo... Sia: ma perchè non ritorcere contro i fini reali e mascherati quelli dichiarati, se appaiano giusti e sensati, salvo che il mezzo della guerra li tradisce e corrompe? La restituzione agli iracheni delle loro risorse, a cominciare dal petrolio; il trapasso internazionalmente garantito –dall’Onu, e con personalità civili di prestigio e indipendenza riconosciute- dell’Iraq a un sistema democratico e federato; la trattativa di pace diritto e sicurezza fra Israele e Palestina; non sono forse obiettivi cruciali da auspicare e perseguire? E, al punto in cui siamo, quale condizione, che non sia l’arginamento della guerra e la caduta di Saddam, renderebbe più possibile perseguire quei fini? “Fermare la guerra”? Al contrario, confermerebbe Saddam e la sua tribù nella trionfale satrapia irachena e ne farebbe il califfo delle folle arabe; e lascerebbe Israele, nella condizione più debole, alla mera logica dell’assalto terrorista e della ritorsione militare.

Posso sbagliare, naturalmente. C’è nelle cose, una volta che le si tocchi –figurarsi quando si affondi il bisturi della guerra- un grado terribile di imprevedibilità e di follia. Che siano evocate plausibilmente armi chimiche e bombe atomiche ne dà la misura. Un ordine (un disordine) della terra è andato al diavolo, e un altro deve risultarne. Non corrisponderà al disegno di nessuno. Ma c’è, misto a quella conservazione cui ci si aggrappa nelle cadute, un buon senso, quello che fa affiancare nei nostri sondaggi alla percentuale enorme di contrari alla guerra una percentuale, se non equivalente, comunque alta –il 63 per cento, si diceva qui l’altro giorno- di favorevoli a una vittoria rapida degli angloamericani. Temo che se, alla vigilia dell’aprile, una sinistra che si vuole nuova ha davvero deciso di prendere il largo chiedendo di “fermare la guerra senza occuparsi del regime di Saddam”, l’ormeggio da cui si va staccando sia quello stesso del buon senso.
 

 

Pace: «L'ormeggio del buon senso» di Adriano Sofri, Repubblica, 3 aprile 2003

 

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