Pace

Si può militare senza rinnegare l’amore per quella che è sempre stata e resta la terra delle libertà civili e religiose

Quelli che dicono “Nossì”
 

 
di Riccardo Chiaberge,


Il giornalismo-cabaret, che avevamo dato troppo presto per morto, tiene gagliardamente testa all’offensiva dei marines. Ma nelle retrovie di questa brutta guerra prospera anche il giornalismo sofistico di quelli che, non potendo raccontare le bombe, ci radono al suolo a forza di chiacchiere. Mentre gli inviati in prima linea – come il nostro Maisano e gli altri sei catturati dagli iracheni – rischiano la pelle, i sofisti adagiati nelle loro dormeuse trasformano il teatro di guerra nel solito teatrino italiota, dove vince chi ha la battuta più pronta. In queste ore infuria, ad esempio, la diatriba sul “Nénéismo”, che sarebbe l’atteggiamento di chi non sta né con Bush né con Saddam. Posizione ipocrita e indifendibile, senza dubbio. Ma sono tutti “Nénéisti”, quelli che provano sgomento e disgusto di fronte al mattatoio mesopotamico? Giorni fa, all’ingresso dell’Università Cattolica a Milano, ho visto un cartello: “No alla guerra, Sì all’America”. Era firmato dai giovani di Comunione e Liberazione, e distingueva con grande nettezza tra opposizione all’uso della forza in Irak e ostilità verso gli Stati Uniti. Si può dunque militare senza rinnegare l’amore per quella che è sempre stata e resta la più aperta delle società, la terra delle libertà civili e religiose. E non c’è bisogno di essere soldati del Papa per riconoscersi in questa visione, che stando ai sondaggi accomuna la stragrande maggioranza degli italiani, credenti e miscredenti.

Assai più numerosi dei “Nénéisti”, insomma, sono i “Nossìsti”, che dicono sì all’America pur dicendo no alla guerra. Ed è bene che escano finalmente allo scoperto, per spezzare la mortifera tenaglia tra pacifismo intollerante e interventismo totalitario, una spirale di imbarbarimento nella quali ci si scambiano soltanto insolenze: “Servi del Pentagono!” “Antiamericani!” “Guerrafondai!” “Manutengoli di Saddam!”.

Non so voi, ma io non conosco nessuno (neppure tra i miei amici americani, democratici e non) che sia entusiasta di questo bagno di sangue: fa eccezione uno sparuto manipolo di neodannunziani ex-sessantottini che si avviluppano nella bandiera a stelle e strisce e impartiscono lezioni di correttezza atlantica con la stessa burbanzosità con cui a suo tempo predicavano la rivoluzione bolscevica. All’altro estremo, pur non conoscendoli personalmente, sospetto che alcuni tifino in segreto per Saddam. Ma per fortuna sono pochi. Ora che l’attacco è partito, tutti ci auguriamo che si concluda rapidamente e nel modo meno cruento possibile con la vittoria degli alleati. Un’America sconfitta o umiliata, un Saddam ringalluzzito e saldo in sella renderebbe il pianeta meno sicuro.

E allora, per favore, smettiamola di bollare come antiamericano chiunque sollevi la più ragionevole delle obiezioni a questa guerra. L’antiamericanismo come abito mentale, come sindrome culturale, è quello descritto dallo storico Tony Judt nell’articolo che pubblichiamo in questa pagina. Un’ossessione che ha radici antiche – già agli inizi dell’Ottocento il poeta austriaco Lenau inveiva contro gli “Stati Uniti d’America” –, che ha toccato il suo apice negli anni più cupi della guerra fredda e che oggi trova nuovo alimento nella politica imperiale della Casa Bianca. Il miglior modo di fomentarla è proprio arroccarsi in un filoamericanismo granitico, senza se e senza ma, che non si incrina neppure davanti ai missili nei mercati.

Smettiamola, però, anche di dipingere gli americani (di cui solo il 50% ha votato per Bush) come un popolo di rudi cowboy assetati di vendetta. L’America non è una realtà monolitica che ci minaccia. L’America ha tanti volti, incluso quello di Rachel, la giovane pacifista morta sotto le truppe israeliane in un villaggio palestinese. Quanto all’Italia, rimane per ora – fino a prova contraria – un paese non belligerante. Evitiamo perciò di trasformare le nostre case, le nostre strade, le nostre aule parlamentari in una periferia di Bassora, dove il solo linguaggio ammesso è quello delle armi e dell’annientamento reciproco. La politica non si fa con i buoni sentimenti, ma i sentimenti cattivi non fanno una buona politica. Non vorremmo che sotto le bombe di Baghdad finisse in cenere, assieme a una feroce dittatura, anche la nostra civiltà liberale.
 

 

Pace: «Quelli che dicono “Nossì”», di Riccardo Chiaberge, Sole 24 Ore, 30 marzo 2003

 

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