Pace

Si può essere buoni americani e buoni cattolici?

Lorenzo Albacete
Sì all’America, no alla guerra

 

Il punto di vista di Cristo è più grande del dualismo pacifismo-interventismo. L’America coltiva l’ideale della libertà, ma presume troppo di sé. Parola di Lorenzo Albacete, teologo ispano-yankee
 

 
di Casadei Rodolfo,


Si può essere buoni americani e buoni cattolici in un momento come questo? Si può affermare con convinzione «No alla guerra, sì all’America»? Si possono misurare la grandezza e le ambiguità dell’amore degli americani per la libertà senza cerchiobottismi? Si può esaminare il connubio tutto Usa fra ardente religiosità e spirito guerriero senza strapparsi farisaicamente le vesti o sospirare di invidia? «Se non ce la fa lui a rispondere a queste domande, non può farcela nessuno», devono essersi detti coloro che hanno organizzato il ciclo di incontri che nella seconda metà di marzo ha portato in una mezza dozzina di città italiane mons. Lorenzo Albacete, teologo, giornalista e collaboratore newyorkese di Tempi.

Dai missili per il Vietnam al collare romano
E Albacete ce l’ha fatta, o almeno questa è l’opinione della maggior parte di coloro che l’hanno ascoltato. Certo, per farcela è dovuto andare al di là dello schema sperimentato in centinaia di lezioni e conferenze della sua carriera di stimato professore e conferenziere, cioè lista previa di domande e risposte preparate in anticipo. Si è messo in gioco come persona, si è lasciato interrogare dagli avvenimenti imprevisti che gli accadevano man mano che il filo del programma si dipanava. Perciò la chiave di lettura della mission impossible del monsignore americano in Italia la troviamo tutta nella testimonianza personale con cui ha aperto il suo incontro con gli studenti universitari di Cl di Milano: «Voglio raccontarvi - ha esordito - dell’esperienza che vissi al tempo della guerra del Vietnam. Allora fui quasi lacerato tra due posizioni: da una parte la necessità, per me evidente, di garantire la sicurezza nazionale, di combattere la battaglia per prevenire l’avanzata del comunismo e mantenere la credibilità dell’America. Avevo inoltre degli interessi legati alla mia professione: lavoravo infatti come ricercatore presso il Pentagono ed in particolare portavo avanti i progetti per la realizzazione di nuovi missili. Dulcis in fundo, la mia fidanzata era un’agente della Cia... Ma dall’altra parte, la maggior parte dei miei amici era contro la guerra. Inoltre, sia dai reportages televisivi che grazie all’accesso a documenti segreti, sapevo che le armi che producevo non solo non liberavano coloro che volevamo liberare, ma addirittura li uccidevano. Così mi sentivo paralizzato, incapace di trovare un’altra posizione. Cercai di elaborare una sintesi, ma mi accorsi presto che era pura teoria. Alla fine, grazie a Dio, la guerra finì ed io riconobbi la mia vocazione al sacerdozio. Essa non arrivò certo come la sintesi di questa battaglia interiore, ma mi liberò dal peso di dover scegliere tra le due alternative».

Quando un americano incontra un’irakena
«Oggi, invece, nonostante la drammaticità della congiuntura, non sono lacerato dallo stesso dilemma; non perché io abbia finalmente trovato una sintesi tra le due posizioni, ma perché ho trovato un nuovo criterio di giudizio che mi ha permesso di uscire dall’inutile dialettica tra pacifismo e sostegno alla guerra. Ho scoperto infatti che entrambe queste posizioni muovono da un identico punto di partenza: una reazione ideologica o semplicemente emozionale a quanto avviene. Mentre la domanda più importante a cui va data risposta è: da quale punto di vista dobbiamo partire per giudicare quanto sta avvenendo? Ad esempio quando una coppia in crisi viene da me (Albacete è stato per molto tempo un esperto dell’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sulla famiglia e il matrimonio - ndr) i due esprimono ostilità, amarezza, astio e sembra che niente possa esserci che salvi il loro matrimonio; sembra che l’unica soluzione sia il divorzio, magari attuato in modo tale da distruggere l’altra persona. Esaminando un tale conflitto non vedi nulla che renda possibile la riconciliazione tra le due parti. Ma io sono un prete, e devo poter dire: “aspetta un attimo: Cristo rende possibile la riconciliazione”. Ma questa convinzione deve poter essere fondata su un’esperienza, altrimenti sarebbe una ulteriore teoria, un’ulteriore posizione astratta». «Al tempo del Vietnam io già credevo che Cristo poteva rendere possibile un’unità impossibile, poteva risolvere il conflitto in atto. Ora io non lo credo più soltanto, ma lo so perché ne ho fatto esperienza personale. Un piccolo esempio di ciò l’ho avuto proprio due giorni fa. Mi trovavo al ritiro spirituale dei Memores Domini (laici consacrati di Cl - ndr) e mi fu presentata una donna che sorridendo mi disse: “buongiorno, volevo conoscerla: io sono irakena”. La mia reazione fu: “Oh my God, shit! Cosa posso dire a questa donna? Dovrei dirle: Mi dispiace! Oppure: la mia gente non ti odia, o: Bush non è il diavolo. Dovrei chiedere scusa come americano per le decisioni del mio presidente? Come cittadino americano io infatti sono responsabile di quello che il mio governo fa”. Così abbiamo cominciato a parlare ed effettivamente io le ho detto tutto questo. Le ho detto: “probabilmente la settimana prossima noi saremo nemici, ma questo non è vero, noi siamo uniti da un’amicizia che è più forte di qualunque amicizia che ci possa essere nel mondo”. Citando san Paolo le ho detto: “Cristo ha distrutto l’inimicizia, ci ha uniti in un’amicizia basata sull’esperienza concreta di quello che Cristo rende possibile in questo mondo”. Alla fine ci siamo abbracciati a lungo, fraternamente. Questa è la realtà, non una dottrina astratta. Questa è un’esperienza che io devo mettere come punto di partenza per giudicare tutto quello che accade nel mondo, sia che si tratti della guerra o dell’ostilità tra un marito e una moglie. La possibilità di giudicare è uno degli effetti della presenza di Cristo nel mondo».

Libertà made in Usa: concorrenza fra proposte
Per quel che riguarda la questione della “libertà americana”, Albacete si è rifatto a La Storia della Libertà Americana di Eric Foner. «Nessuna idea è più fondamentale della libertà per l'autocoscienza degli americani come individui e come nazione. La Dichiarazione di Indipendenza elenca la libertà tra i diritti inalienabili dell'uomo; la Costituzione proclama come suo obiettivo quello di garantire i benefici della libertà. La Guerra Civile fu combattuta per produrre una “rinascita di libertà”, la Seconda guerra mondiale per le “quattro libertà” e la Guerra fredda per difendere il mondo libero. Se chiedessi ai miei concittadini di giustificare le proprie azioni, pubbliche o private, probabilmente risponderebbero: “È un paese libero”. Ma se chiediamo di definire cosa significhi libertà troveremo altrettante definizioni quanto i diversi desideri e paure. La maggior parte direbbe: “La libertà è la capacità di fare ciò che desidero, e anche la protezione da ciò che altri individui possono desiderare e che potrebbe minacciare la mia libertà”. Il che sottolinea un punto importante: la storia americana non segue una particolare definizione di libertà. Al contrario, essa andrebbe vista come una tensione, un compromesso, come pure una competizione, o una lotta spesso anche violenta tra diverse concezioni di libertà».
«Ciò che è comune a tutte è l’attrazione radicale dell'ideale stesso: tutti concepiscono la libertà come l'ideale o il valore con il quale giudicare la corrispondenza con l'identità nazionale e tutte le correnti di azione politica proposte. Foner scrive della libertà negli Stati Uniti come un “concetto essenzialmente contestato”, che presuppone un dialogo fra raggruppamenti in competizione. Ciò che unisce il paese politicamente, allora, è un accordo nel seguire le regole per la competizione tra le differenti forme di libertà, come pure un accordo sul modo di cambiare le regole quando è necessario. Vedere la libertà come un concetto o un valore essenzialmente contestato non esclude la possibilità di una promozione politica dell'individuo e del bene comune basata su una scelta filosofica o religiosa. Si riconosce semplicemente che in una società pluralista nessuna posizione politica o religiosa particolare corrisponderà mai pienamente all'esperienza di tutto il popolo riguardo a quanto è buono e vero. In questo caso le “regole del gioco” permetteranno la competizione tra le diverse concezioni della libertà, mentre lo Stato garantirà che tutti i cittadini possano partecipare al gioco stesso. L’antropologia che sta dietro a questa visione corrisponde ad un’esperienza comune a tutti, vale a dire, il conflitto o la tensione tra valori contrastanti nel cuore stesso dell’uomo. Di fatto questa tensione è un fattore costitutivo della persona umana. Che l’essere umano sia contemporaneamente limitato e illimitato, temporale ed eterno, può essere scoperto mediante un'analisi razionale dei desideri più fondamentali del cuore umano, e questa è la base di ciò che definiamo il senso religioso, cioè l’esperienza di dipendenza da un Mistero trascendente, nell’origine e nel destino dell'esperienza umana. Infatti, come ha sottolineato don Giussani, la libertà è il nesso dell'uomo con l’infinito, e ciò si esprime precisamente nell’esperienza di queste polarità. Poiché la libertà è il nesso con un Mistero trascendente, nessuna definizione di essa ne potrà mai cogliere totalmente il pieno significato, né potrà esservi associata un'unica espressione politica».

La Bibbia in una mano, la spada nell’altra
L’intransigenza politico-religiosa del presidente Bush ha a che fare con questa antropologia e con la particolare storia degli Stati Uniti. «A quei leader religiosi che simpatizzano con la sua causa, Bush ha confidato che egli vede il conflitto attuale con l'islam radicale come una difesa del diritto di adorare Dio come ogni individuo preferisce, anche se non crede che l’islam sia intrinsecamente in opposizione alla tolleranza religiosa. Considera la sfida dell’Irak in termini biblici e si ritiene obbligato per fede a combattere contro il Male che Saddam Hussein incarna. Concepisce la sua presidenza come un’impresa fondata, sostenuta e guidata dalla fiducia nel potere temporale e spirituale di Dio, con la missione di difendere dovunque nel mondo il diritto di tutti di cercare Dio.
La base di sostegno del Presidente è il movimento evangelico fondato sulla Bibbia, aggressivamente impegnato in politica e radicato nel Sud, che ha preso il controllo del Partito Repubblicano nei primi anni ‘80. Egli entrò in confidenza con questo mondo mentre cercava di riordinare la sua vita personale, per salvare il proprio matrimonio e crescere i suoi figli. Il suo maggior problema era che beveva troppo, anche se non considerava se stesso un alcolizzato. Fu la partecipazione ad un programma di studio della Bibbia che cambiò la sua vita e lo aiutò ad avere un incontro personale con Cristo. Da quel momento in poi, il suo problema con l'alcool fu superato. Da allora, ha scelto di servire il Signore attraverso la politica e ha modellato le sue scelte politiche in base alle vedute della fede caratteristiche del mondo evangelico». «Tutto ciò va compreso nel contesto di quel che la religione ha rappresentato nella storia americana. Gli Stati Uniti, ha scritto Chesterton, sono “una nazione con l’anima di una chiesa”».
Sin dai primi tempi, il dibattito sulla libertà ha avuto luogo nel contesto di una visione protestante del mondo. La visione “morale” o “cristiana” della libertà era dominante nel mondo anglo-americano prima della rivoluzione: libertà come autonomia, autocontrollo, capacità personale di rispettare gli standard etici della Bibbia. Il mondo protestante anglo-americano era visto come la casa scelta da Dio per la libertà entro un mondo sprofondato nella barbarie o tenuto in schiavitù dalla tirannia. Un altro termine usato per indicare la tirannia era “papismo”. Protestantesimo significava libertà, cattolicesimo equivaleva a tirannia. Questo contesto rimase vivo anche quando una nozione secolarizzata di libertà si sostituì a quella teologica protestante. Questa è l’origine di quell’“eccezionalità” americana che, comprensibilmente, irrita così tanto i non americani, e che può chiaramente essere riconosciuta nella visione che il presidente Bush ha della guerra contro l’Irak».
 
 

Pace: «Lorenzo Albacete: Sì all’America, no alla guerra», di Casadei Rodolfo, Numero: 12 - 20 Marzo 2003

 

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