Pace:

Pacifisti, pensate un po’ ai curdi
 

Nessuna illusione circa la politica di Francia e Ue. Ma la convinzione che l’Apocalisse non ci sarà. Parla K. Nezan, leader curdo in esilio
 
 
di Arrigoni Gianluca


Lei è favorevole o contrario ad una guerra in Irak?
Negli ultimi decenni i curdi e gli irakeni hanno subìto numerose guerre e desiderano la pace, ma una pace basata su libertà, democrazia e dignità e non una “pace-cimitero”. Il presupposto alla pace è la fine del regime di Saddam Hussein e per ottenere questo obiettivo è necessario un consenso nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, che dovrebbe imporre un ultimatum al dittatore irakeno, dichiarando che l’esilio è il solo mezzo per evitare la guerra. Sono sicuro che Saddam non potrebbe che accettare l’esilio, magari in Francia, dove ha molti sostenitori. è necessario fargli capire che l’esilio rimarrebbe per lui la sola possibilità di uscirne vivo. Se non accettasse, l’Onu dovrebbe intervenire militarmente.


In Francia prevale una posizione attendista...
La posizione francese porta in un vicolo cieco perché contribuisce a mantenere Saddam al potere.


Tra gli argomenti utilizzati da chi si oppone alla guerra c’è la preoccupazione per la reazione del “mondo musulmano”.
Ogni volta che ci si trova davanti ad una crisi viene annunciata l’apocalisse, l’esplosione del “mondo arabo”. Sarebbe ora di smetterla. I kosovari ed i bosniaci sono musulmani e sono stati liberati dalle dittature che li perseguitavano; oggi sono i curdi e gli irakeni ad aspirare alla libertà ed alla democrazia. Credo che il “mondo arabo” abbia oggi meno simpatia per il regime di Saddam di quanta ne avesse al tempo della prima Guerra del Golfo; guerra che non aveva scatenato “l’apocalisse” prevista da molti.


Perché i mass media sostengono l’ipotesi di questa possibile “apocalisse”?
E' propaganda. E' una manipolazione che serve a quei paesi che hanno interessi politici ed economici al mantenimento al potere del regime irakeno. E' il caso di Russia, Francia e Germania; i paesi che hanno contribuito ad assicurare la potenza militare dell’Irak e che oggi sono i principali “creditori” del regime.


A sostenere le scelte politiche di quei paesi non è la causa “umanitaria”?
Assolutamente no. Forse è “umanitaria” per le grandi società che fanno affari col regime, ma non certo per il popolo irakeno.


Cosa ne pensa delle preoccupazioni per un eventuale dopoguerra caotico?
Ad ottobre sono stato nel Kurdistan irakeno e a novembre abbiamo organizzato in parlamento, qui in Francia, una conferenza sul futuro dei curdi e dell’Irak, alla quale hanno partecipato non soltanto i due principali dirigenti curdi dell’opposizione ma i portavoce delle più importanti fazioni dell’opposizione al regime. Sono tornato lunedì da Erbil (nel Kurdistan irakeno, ndr), dove ho assistito alla riunione delle opposizioni. Siamo da tempo in contatto con numerose personalità dell’opposizione irakena. Posso dirle che non è “per miracolo” che dalla dittatura si arriva alla democrazia. Non si passa così, istantaneamente, dall’ombra alla luce, come se si girasse un interruttore. Un difficile periodo di transizione è inevitabile, ma la transizione sarà più semplice da realizzare se un’amministrazione civile avrà il sostegno dell’Onu per almeno due anni, come in Kosovo. Questo permetterebbe agli irakeni di smantellare i servizi di sicurezza, la “Gestapo” di Saddam, e di organizzarsi e preparare l’elezione di un’assemblea Costituente.


Quali sono gli errori che sia gli americani che le differenti fazioni dell’opposizione presenti in Irak dovrebbero evitare?
Se gli americani dovessero intervenire senza il sostegno dell’Onu saranno i soli a decidere del futuro dell’Irak, e questo potrebbe rivelarsi negativo per gli irakeni, per la regione e per gli stessi americani. Se un eventuale intervento militare avvenisse con un mandato dell’Onu sarebbe tutto più semplice. La presenza di una coalizione internazionale sarebbe opportuna per tenere sotto controllo il periodo di transizione e impedire il dominio delle fazioni che dispongono di milizie armate, che porterebbe a degli scontri.


La Turchia teme un Kurdistan irakeno autonomo. Sono preoccupazioni legittime?
Sono le pretese della Turchia a preoccupare i curdi irakeni, che non vogliono l’indipendenza ma un Irak democratico e federale. Se la democrazia irakena preoccupa qualche paese della regione, è un loro problema. Niente può giustificare un eventuale intervento militare in Irak di quei paesi che, in quel caso, dovrebbero affrontare un’immediata reazione armata da parte dei curdi.


Se i governi turco e Usa dovessero trovare un accordo, crede che l’Unione europea salvaguarderebbe l’autonomia dei curdi irakeni?
L'Europa oggi è a pezzi. Se ci fosse una volontà politica comune, l’Ue potrebbe accettare la Turchia in cambio di un’astensione in Irak ma, fino ad oggi, nelle crisi internazionali l’Ue è stata incapace di agire unita.


Viene rimproverato agli Usa di non aver cacciato Saddam dopo la Guerra del Golfo...
Il 27 febbraio 1991 l’Istituto curdo di Parigi chiese che la coalizione degli alleati andasse fino a Baghdad ed instaurasse la pace nella regione. Gli americani non lo fecero per le pressioni dell’Arabia Saudita, della Turchia e, forse, della Francia. L’Arabia Saudita non voleva un’eventuale democrazia in Irak dominata dagli Sciiti e la Turchia temeva che in un Irak democratico i curdi potessero ottenere l’autonomia, diventando un esempio per i 15 milioni di curdi che in Turchia non avevano nessun diritto.


Perché nel Kurdistan irakeno, nonostante l’embargo, la popolazione gode di una relativa prosperità a differenza di quella irakena?
Perché nel nord dell’Irak c’è la democrazia ed una relativa trasparenza, mentre nel resto del paese le risorse del programma internazionale “Oil for food” vengono sottratte alla popolazione a beneficio della “clientela” di Saddam. è opportuno precisare che non si tratta di un embargo ma di sanzioni, che prevedono che il 70% del prodotto della vendita del petrolio, e questo per la prima volta nella storia dell'Irak, dovrebbe essere utilizzato per soddisfare i bisogni della popolazione. I curdi, pur rappresentando il 27% della popolazione irakena, non hanno diritto che al 13% del programma “Oil for food”; nonostante questo, con quei soldi sono riusciti a ricostruire il paese e a sviluppare un’economia relativamente prospera. Nel resto del paese il regime di Saddam si appropria delle risorse del programma internazionale e vende gli aiuti alimentari sul mercato nero di paesi come la Giordania. Saddam ha preso in ostaggio gli irakeni per mostrare al mondo che le sanzioni uccidono il suo popolo, con l’obbiettivo di far togliere le sanzioni e così disporre di nuovo delle risorse petrolifere. Basterebbe andare in Irak per rendersi conto della realtà. Pensi a quei poveretti, quei pacifisti, che sono andati a Baghdad a spese del regime per fare da “scudi umani”. La popolazione irakena li disprezza e li considera come dei mercenari al servizio del regime. Queste persone dovrebbero decidere che cosa vogliono: o stanno con le vittime, cioè il popolo irakeno, e quindi non devono agevolare la propaganda del regime, o sono al fianco di tutti quelli che pretendono di opporsi agli americani, e tra questi Saddam. Negli anni ‘40 questa gente avrebbe avuto della simpatia per lo “zio” Adolfo.


Se Saddam si arrendesse e si abolissero le sanzioni i curdi irakeni sarebbero in pericolo?
Sarebbe una catastrofe. Se le sanzioni venissero abolite l’esercito irakeno potrebbe intervenire nel Kurdistan e il regime potrebbe utilizzare di nuovo le risorse petrolifere per riarmarsi. Forse questa situazione potrebbe soddisfare alcune imprese europee, ma non il popolo irakeno.


Come giudica il modo in cui, in Francia, i mezzi d’informazione presentano la crisi in Irak?
Oramai siamo abituati. Negli anni Ottanta c’era già un consenso nel sostegno al regime di Saddam Hussein e le poche voci discordanti facevano fatica a farsi sentire. In ogni caso non ci lasciamo impressionare. In questo momento, in Francia come negli Stati Uniti, c’è un'intensa propaganda che giustifica la tesi dei rispettivi Governi e serve a trovare il sostegno della propria opinione pubblica. Le faccio un esempio concreto: alcuni mattacchioni inglesi, in nome della Pace, decidono di andare con un autobus fino a Baghdad e i telegiornali per alcuni giorni dedicano ampio spazio all'episodio. Pochi giorni fa, nel kurdistan irakeno, 500.000 persone hanno manifestato contro il regime di Baghdad e un solo telegiornale ha dedicato qualche secondo all'avvenimento. Quando alla fine di novembre, come le ho detto, abbiamo organizzato in Senato una conferenza sul futuro dei curdi, i mezzi d'informazione francesi, che pur erano presenti, praticamente non ne hanno parlato, anche se l'informazione era importante ed è stata ampiamente diffusa in tutto il Medio Oriente. La ragione del silenzio è semplice: sono informazioni che non vanno nel senso dell’attuale politica del governo francese.


Cosa pensa dei milioni di persone che hanno sfilato nel mondo sventolando la bandiera della pace?
Credo che l’obbiettivo di quelle manifestazioni sia sbagliato. Il vero pericolo è Saddam Hussein, non Bush. Non è un caso che le manifestazioni siano state strumentalizzate dai media irakeni. Anche i curdi irakeni vogliono la pace, ma Saddam deve andarsene, con le buone o con le cattive.
 
 

Pace: «Pacifisti, pensate un po’ ai curdi», di Arrigoni Gianluca, Tempi, Numero: 11 - 13 Marzo 2003

 

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