Pace

«La pace possibile»
 

Shear-Yashuv Cohen, rabbino capo di Haifa, e Ali H. Qleibo, professore dell’Università di Gerusalemme. Il dialogo è ragionevolmente possibile. «Il cambiamento deve avvenire prima tra chi educa, solo dopo i politici, i diplomatici, i leader potranno iniziare a lavorare su quelli che sono gli aspetti pratici del conflitto


di Riccardo Piol



Il nome Meeting per l’Amicizia tra i popoli fa a pugni con la situazione in cui vive la Terra Santa dove ebrei e palestinesi sembrano disposti a qualsiasi violenza piuttosto che parlare di amicizia o intavolare un dialogo. Eppure proprio a Rimini si è parlato del futuro di questa terra, santa per cristiani, ebrei e musulmani. E lo si è fatto senza cancellare un invito umano e ragionevole alla speranza di veder compiersi il miracolo di una vittoria sull’inimicizia. Un invito già evidente nel titolo dell’incontro, “Palestina: una pace possibile”, - nessun punto di domanda a porre il dubbio su una soluzione che ponga fine alla tragedia di oggi -, che è stato raccolto e confermato nelle parole di Shear-Yashuv Cohen, rabbino capo di Haifa, e di Ali H. Qleibo, professore dell’Università Al-Quds di Gerusalemme.

Condizioni per il dialogo
A chi gli chiede se sia possibile la pace in Terra Santa, il rabbino Cohen dà una risposta che lui stesso definisce «chiara, univoca e assoluta. Nonostante l’attuale situazione di massacri, di odio spaventoso e di violenze che caratterizza il nostro Paese, la pace è possibile». Ma ci sono due condizioni fondamentali che devono essere soddisfatte. «La prima, la più importante, è che entrambe le parti coinvolte nell’attuale conflitto vogliano davvero la pace. La seconda, forse ancora più importante, è che entrambe le parti comprendano e si rendano conto di quelli che sono i motivi profondi e le radici storiche e religiose della presenza della controparte in Terra Santa. Occorre comprendere le ragioni, i sentimenti della controparte che ci sta davanti, occorre comprendere quello che è il loro amore per la Terra Santa e l’ammirazione per la città santa di Gerusalemme». Occorre un dialogo che non è ragionevole definire impossibile perché «il fatto che Gerusalemme sia la città santa per tutti noi e che questa terra sia la terra santa anche per i cristiani e per i musulmani non è comunque motivo che giustifichi un terribile massacro». La storia, spesso impugnata da alcuni leader musulmani ed ebrei per giustificare l’eliminazione delle cosiddette controparti come unica via di soluzione, dice anzi che non solo è possibile il dialogo, ma addirittura la convivenza.

«Dopo la conquista musulmana di Gerusalemme - questo è un fatto storico dimostrato, dice il rabbino Cohen - esisteva una sinagoga ebraica, sul monte del tempio, dove si recitavano preghiere ebraiche. E al contempo si evitava in ogni modo di sottrarre un solo centimetro di territorio alla moschea santa di Al Aqsa. Questo è durato per 400 anni». Perché oggi c’è chi vuole convincere il mondo che la convivenza non sia possibile?

Umanizzare Dio
«Quello che noi tutti ci auguriamo è poter sviluppare un modello a partire dall’esperienza cattolica-cristiana». Il professor Qleibo stupisce tutti con questa affermazione, ma buttato il sasso non ritira la mano e prosegue: «Mi riferisco al Rinascimento in cui si è stati in grado di umanizzare Dio: Dio, la Sua bellezza, un’idea presa a prestito dai classici greci. L’idea della forma ancora non c’è nella nostra tradizione, quello che noi abbiamo è una religione che è diventata una giurisprudenza, una religione moralizzante che predica, una sintassi di riti. Il cristianesimo ci ha offerto una forma di umanesimo che si applica appunto nel mondo cristiano». Questa forma di umanesimo può segnare la strada della riconciliazione, ma nel contempo - verrebbe da dire al professore - costringerebbe il mondo islamico ed ebraico a una rivoluzione. Eppure: «L’unica soluzione per la pace è vedere il divino e l’umano nell’altro perché accettando Dio e l’altro possiamo gettare le fondamenta per una soluzione politica: senza fede nell’altro, senza fiducia nell’altro è impossibile conseguire la pace».

Educare alla pace
«Qual è la parte che prevarrà alla fine - si chiede il rabbino Cohen -? Gli estremisti che non sono tolleranti, che credono in una guerra santa, oppure chi comprende che la violenza non è una soluzione e sostiene che si debba porre fine al massacro, alla rivendicazione e agli atti terroristici che colpiscono gli innocenti?». Dalla risposta a questi interrogativi dipende il futuro della Terra Santa. Ma immediatamente segna anche il presente di chi vuole porre fine alla violenza e «ritiene che si debba educare entrambe le parti in causa affinché i nostri figli cessino di odiarsi e comincino a comprendersi e ad amarsi». Educare alla pace è, infatti, il primo passo che si deve fare anche mentre tutto attorno urla violenza, è un flebile segno che nel dolore quotidiano può gettare le basi della riconciliazione perché «è importante comprendere che la pace si ottiene non fra leader, fra politici, ma fra due popoli». Perché questo avvenga ci vuole l’esempio di qualcuno e il rabbino Cohen non esita a darne uno chiaro e significativo per la storia più recente del suo popolo: «Nel cristianesimo c’è stato un cambiamento, sostenuto soprattutto da Giovanni Paolo II, che ha invitato alla comprensione fra ebraismo e cristianesimo. Io attendo la comparsa di un leader religioso dell’islam che inviti a un ritorno all’epoca aurea in cui i teologi della religione ebraica e della religione musulmana vivano in pace e insieme, operino per il beneficio e il vantaggio di tutta l’umanità». La pace è possibile, ma «il cambiamento deve avvenire prima tra chi educa, solo dopo i politici, i diplomatici, i leader potranno iniziare a lavorare su quelli che sono gli aspetti pratici del conflitto».


 

Pace: «La pace possibile», di Riccardo Piol, intervista a Shear-Yashuv Cohen, rabbino capo di Haifa, e Ali H. Qleibo, professore dell’Università di Gerusalemme, 1 settembre 2002