Lavoro

«FIAT: La fine dell’avventura?»

10 ottobre 2002. Il giorno più nero dell’unica grande casa automobilistica italiana. Un “partito trasversale”
per cinquant’anni al centro della vita economica e politica del Paese. In pericolo migliaia di posti di lavoro
 

 

di Gianluigi Da Rold


Quando si parlava della Fiat, dei suoi fasti e delle sue cadute, in Italia si restava sempre approssimativi. Ed è cosa veramente strana, perché la più grande azienda di questo Paese avrebbe meritato un’attenzione costante, se non altro perché negli ultimi cinquant’anni lo sviluppo, o meglio l’espansione economica del Paese, è stata strettamente intrecciata alle necessità di produzione della Fiat. L’unico fatto non misterioso è che si sapeva (fin dal 1946, quando in Italia circolavano 500mila automobili) dell’esistenza di un “partito torinese”, eufemismo per dire più discrezionalmente un “partito Fiat”. Con più precisione, si poteva parlare di un “potere forte” della grande azienda automobilistica, che poteva essere noto ai ministri più importanti, ai grandi commis d’ètat, ai giornalisti parlamentari o a quelli “iniziati” che stanno tutti nei grandi media nazionali. Questo potere, diffuso e palpabile, tutelava l’azienda dalle indiscrezioni e dalle inchieste giornalistiche fastidiose, pilotando poi direttamente le grandi svolte che nell’azienda ci sono state e che non potevano essere trascurate dai grandi giornali e dalle televisioni.


“Acquisti promozionali”
Capitò così che, negli anni Novanta, l’americano Alan Friedmann e l’italiano Marco Borsa scrivessero due libri “fastidiosi” per i proprietari della Fiat e che quei due libri andassero paradossalmente esauriti per gli “acquisti promozionali” dello stesso ufficio pubbliche comunicazioni della Fiat: quei libri erano quasi accatastati in corso Marconi a Torino. Capitò così che la svolta del 1980, con Enrico Berlinguer in un famoso comizio d’autunno davanti ai cancelli Fiat che prometteva l’aiuto del Pci a un’ eventuale occupazione, diventasse il propellente per la famosa “marcia dei quarantamila” in un gioco mediatico ben orchestrato; così come lo scontro fatale interno alla fabbrica tra Romiti (uomo della finanza) e Ghidella (uomo degli ingegneri); così come l’entrata e l’uscita del capitale libico, con interessanti conseguenze borsistiche non proprio favorevoli ai risparmiatori; così come il ruolo Fiat nell’intricata vicenda di Tangentopoli.
Insomma, il “grande potere” torinese si è tutelato mediaticamente (probabilmente anche a fin di bene), ma ha creato una sorta di doppio monopolio: la Fiat è l’unica azienda italiana a produrre automobili; la Fiat è l’unica azienda italiana che i grandi media trattano con il “dovuto rispetto”. Alla fine, però,
di “monopolio si può anche morire”. Perché non sempre uno “splendido isolamento” permette di comprendere appieno innovazioni tecnologiche, nuovi sviluppi del mercato, realtà politiche e sociali in pieno cambiamento.


Buco nero
Può succedere quindi che per l’italiano medio, fino al 10 ottobre 2002, la Fiat, con il suo aristocratico “padrone” ammalato appartato, resti una gemma in un grande capitalismo agli sgoccioli. E poi, dopo l’uscita dei giornali del 10 ottobre, la Fiat diventi l’emblema del triste e inevitabile declino di un certo tipo di capitalismo, della grande impresa e di tutta l’Italia. In realtà, l’amara scoperta dell’italiano medio è come quella “dell’acqua calda”. Da almeno un anno si parla del “buco nero” della Fiat. All’inizio del 2000, un giornale “politicamente non corretto”(MF - Milano Finanza) calcolava il debito della Fiat a 80mila miliardi di vecchie lire, ma alcuni sofisticati operatori di rating tedeschi “sparavano” la cifra di 150mila miliardi. Difficile orientarsi tra queste cifre, sapere se sono esatte o meno, ma le percentuali di flessione del mercato automobilistico in tutto il mondo stavano davanti agli occhi di tutti: se i grandi marchi europei o americani perdevano il 7 per cento, la Fiat perdeva il doppio esatto. E tutti gli “iniziati” parlavano di quando General Motors avrebbe messo la sua unica bandiera sulla gloriosa
“Fabbrica italiana automobili Torino”. Soprattutto, a quale prezzo.
È difficile indicare le ragioni di questa parabola centenaria. Si può partire dalla frase impietosa di Enrico Cuccia negli anni Novanta:
«Ho consigliato all’avvocato Agnelli di comprare azioni Mercedes e poi di non fabbricare più automobili», oppure guardare la decadenza di una fascia di utilitarie che il mercato attuale rifiuta. Oppure si può pensare agli errori per alcuni modelli, o ancora per non aver portato a termine ricerche su alcuni settori trainanti (il fuoristrada, ad esempio, dopo che fu varata tanti anni fa la “Campagnola”).


Dopo il crollo del Muro di Berlino
Più concretamente, a nostro parere, con il passare degli anni, il management Fiat non ha creduto più nel suo “core business”, come si dice, per abbracciare altri settori di investimento, trascurando così quello dell’automobile. Forse la spiegazione reale dello scontro tra Romiti e Ghidella sta proprio in questo punto. La svolta, poi, del dopo “Muro di Berlino” è, a conti fatti, per la Fiat come il passaggio dalla prima alla cosiddetta seconda repubblica italiana. Se per la prima repubblica c’era un salvagente geostrategico che era scoppiato,
per la Fiat, la caduta del Muro si traduce, nel giro di poco tempo, in mercato globale, competizione aperta, fine della protezione statale, impossibilità di difendere il monopolio nazionale, anche dopo l’assorbimento di marchi italiani prestigiosi come “Lancia” (acquistata per una lira), “Alfa Romeo” (acquisto rateale complicato e mai ben chiarito), una grande casa automobilistica di cui Henry Ford parlava in questo modo: «Quando vedo passare un’Alfa mi tolgo il cappello». In più, ci permettiamo di azzardare solo un’ipotesi: nella complessiva ristrutturazione del mercato mondiale, all’Italia è forse stata assegnata una parte industriale marginale, senza cioè la possibilità di avere una grande industria nazionale in alcuni settori strategici della produzione.


Rassegnazione
È possibile che agli errori (anche quelli di valutazione politica generale) si sia aggiunta una rassegnazione della dirigenza Fiat, fino ad accettare la buona uscita della rendita, dolce e morbida, rispetto alla battaglia quotidiana e cruenta del profitto nella complicatissima società mondiale e postindustriale.
Realisticamente, noi non crediamo a un salvataggio italiano della Fiat. Una classe politica più avveduta e un management industriale più combattivo avrebbe dovuto pensare molto prima alla crisi Fiat. Resta, al momento, il dolore per chi ci lavora, per quello che dovrà sopportare, per il futuro. Resta ancora il dolore per quella massa di immigrati italiani che si spostarono dal Sud al Nord per fare grande la Fiat con il loro lavoro.
Resta il dolore di ogni italiano che ama il suo Paese, anche attraverso il marchio di una grande industria in declino.
 

 

Lavoro: «FIAT: La fine dell’avventura?», di Gianluigi Da Rold, Tracce Novembre 2002