Giorgio
Gaber

«Le domande del signor G»
 

A colloquio col cantante milanese. Sollecitati da una canzone che mette a tema l'appartenenza, il fattore fondamentale per la vita di un uomo, che la nostra epoca guarda con sospetto. Un'ora a parlare di libertà, Mistero, dimenticanza della tradizione e pericolo della barbarie
 

di Massimo Bernardini,


Alcuni amici, vedendo lo spettacolo «Un'idiozia conquistata a fatica - Gaber 98/99», che sta toccando con grande successo i teatri italiani, sono stati colpiti, tra l'altro dalla Canzone dell'appartenenza di Giorgio Gaber, scritta nel'96 e tuttora presente nel suo ultimo spettacolo. Un tema, una parola, l'appartenenza, che non poteva non incuriosirci; fino al punto di far conoscere la canzone a don Giussani, anch'egli colpito dall'insolita "scoperta" dell'artista milanese, che ha da poco compiuto sessant'anni. Ce n'era abbastanza per incontrarlo, indagare le sue ragioni e metterle a confronto con quanto suggeritoci da don Giussani in questi anni.


Innanzitutto perché scrivere una canzone su un tema così insolito?
Sarà insolito, ma io e Sandro Luporini, con cui scrivo da decenni i miei spettacoli, è già la seconda volta che lo affrontiamo. Tutto è cominciato con la Canzone della non appartenenza, in cui indicavamo in questa mancanza la radice della falsa solidarietà oggi tanto di moda («Quando non c'è nessuna appartenenza/ la mia normale, la mia sola verità/ è una parvenza di altruismo/ magari compiaciuto/ che noi chiamiamo solidarietà»; ndr). Ma non ci bastava, quindi ci siamo tornati su con un'altra canzone. Per la cultura dominante la parola appartenenza è una parola scomoda: appartenenza vuol dire essere intruppati, vuol dire...
Vuol dire semplicemente essere parte di qualcosa.

Forse è esattamente questo che alla cultura dominante fa paura.
Forse perché c'è ancora in giro un fastidioso residuo di collettivismo. Però per quanto ci riguarda, individualismo non è sinonimo di egoismo.


Si può dire che il lavoro suo e di Luporini in questi ultimi anni sia stato quello di tornare ad occuparsi dell'io?
Direi proprio di sì, a partire forse dalla scoperta di Max Stirner (filosofo tedesco dell'Ottocento, seguace di Hegel e precursore dell'anarchismoindividualistico; ndr), fatta in anni in cui era considerato un inascoltabile, un reazionario. Ci ha interessato, in Stirner, la coscienza della propria unicità come risposta alla massificazione e a qualsiasi processo di collettivizzazione.


Senta cosa scrive a questo proposito don Giussani: «Il supremo ostacolo al nostro cammino umano è la trascuratezza dell'io». E ancora: «Nulla è così affascinante come la scoperta delle reali dimensioni del proprio io».
Io credo di averli sempre fatti i conti con l'io, in fondo già dai tempi di "Chiedo scusa se parlo di Maria", canzone che riaffermava i diritti dell'io in anni in cui l'imperativo morale era occuparsi di tutt'altro: la rivoluzione, la politica...


Però da qui come si arriva all'appartenenza?
Per noi l'appartenenza è considerare che dentro agli altri c'è un pezzo anche di sé. È un concetto nobile di individuo, che va oltre i bisogni primari; anzi che fa del rapportarsi con gli altri un nuovo bisogno primario. Perché fin da quando uno nasce dipende dall'altro.


Torno a don Giussani: «Il bambino viene educato e cresce con una personalità ben forgiata per il puro fatto di appartenere a suo padre e a sua madre».
Assolutamente condivisibile. La prima appartenenza è la famiglia, non c'è dubbio. In qualche modo è il conforto di una prima appartenenza che poi si ripeterà chissà come nella vita.


Però don Giussani ne desume una legge più grande e decisiva. Scrive: «Diventare sempre più veri, autentici, significa cambiare la nostra falsa coscienza di essere padroni di noi stessi e arrivare alla consapevolezza di appartenere totalmente a un Altro».
Al mistero, come lo chiamo io, anche se magari con la m minuscola. Mi pare che nella natura umana sia presente una ferita che l'uomo cerca continuamente di rimarginare, pur sapendo che non ci riuscirà mai.


Perché la definisce una ferita?
Che la nostra vita sia dominata dal mistero è una ferita. La nostra ragione non basta a capire quello che ci succede.


E se invece la ragione fosse un'ultima porta, un'ultima possibilità verso il mistero?
Una ragione che non rispetta il mistero non è ragione, ma irrazionalità.


Quindi si può essere uomini ragionevoli, che usano fino in fondo la propria ragione, e contemporaneamente accettare la ferita del mistero?
È necessario essere così, uomini ragionevoli e proprio per questo coscienti della impossibilità di svelare il mistero. La ricerca continua, non esistono risposte, il mistero ne verrebbe svilito. È questa pretesa di soluzione del mistero che ci allontana da qualsiasi atteggiamento religioso.


E se invece il mistero avesse deciso lui di rivelarsi? Nessuno può comandare il mistero.
Non riesco a vedere nel mistero questa volontà di rivelarsi, non ne sono capace.


Torniamo alla Canzone dell'appartenenza. A un certo punto si riferisce agli uomini del passato che avevano «la misura del dovere e il senso collettivo dell'amore».
In effetti la nostra sopravvivenza si è affrancata da quello per cui i nostri avi hanno combattuto, hanno lottato, hanno faticato e fatto figli. Risolto il problema della sopravvivenza, anche la prosecuzione di sé nei figli ci sembra superflua. Però così l'uomo finisce per disgregarsi.


Ma non è che per un popolo come il nostro l'aggregazione, e dunque l'appartenenza, coincidevano con una radice cristiana? Pasolini diceva...
Ma questo lo dico io: se in qualche modo questi principi cristiani vengono a mancare, si disgrega il senso stesso della civiltà occidentale, che è sostanzialmente civiltà cristiana. Su questo ci siamo legati, su questo abbiamo costruito il nostro mondo. Tutte le opere d'arte che abbiamo davanti da secoli, queste grandi costruzioni, queste cattedrali, sono impossibili persino da pensare senza un luogo in cui tutti sentono che è importante farle. Quando uno parla di valori, di che valori parla? Sì, di valori civici, ma i valori civici da dove nascono?


Insomma lei, da laico, dice che i nostri fondamenti cristiani ce li dobbiamo tenere ancora stretti.
Io da laico ritengo che bisogna paragonare i propri principi a quelli di Cristo, perché i nostri valori nascono da lì. Non credo che la civiltà sia molto solida, credo sia un velo sottile che possa saltare da un momento all'altro, la barbarie è a portata di mano. Per questo mi vien quasi da dire che i Balcani sono abitati da gente che ha un diverso rapporto con la vita e la morte. Ma diverso da cosa, da chi? Diverso da una concezione cristiana che sentiamo ancora comune. Credo che quando auspichiamo con leggerezza l'avvento della cosiddetta società multietnica, non ci rendiamo bene conto di cosa comporti in termini di scontro culturale.

A chi appartiene Giorgio Gaber, con le sue canzoni, coi suoi spettacoli?
Esistono due modi di far spettacolo: o vai sul palcoscenico per farti vedere (e quindi affermi te stesso), o ci vai perché cerchi una comunicazione col pubblico. Non dico che con noi in teatro si formi un'appartenenza, ma certo nasce qualcosa che ne fa parte. Sa perché alla fine io grido, faccio queste smorfie, ho queste reazioni? Perché mi vergogno, e mi vergogno perché sono stupito di questo riconoscimento che avviene tutte le sere su cose che io e Luporini abbiamo in qualche modo scoperto per noi stessi. È questo che rende il mio mestiere uno dei più belli che si possano fare. Cosa volere di più, per 120 sere all'anno? Anche gratis
 

Giorgio Gaber: «Le domande del signor G», di Massimo Bernardini, Tracce Gennaio 2001