Il piccolo mondo di Galatro

 

La “Inaedificatio”

e i "Capitoli matrimoniali"

 

da

'U ventu sparti

di Umberto Di Stilo

 

Com’è noto, la Calabria  è sempre stata meta di popoli giunti fino a noi con i più diversi scopi. Nella nostra regione giunsero i greci, i bizantini, -e poi, via via-  i normanni, gli spagnoli, i francesi.

Nella comunità calabrese ognuno di questi popoli ha lasciato testimonianze della sua civiltà e della sua cultura  non soltanto in campo linguistico, (molti termini, ancora in uso nel nostro dialetto, sono di origine greca, latina, araba, spagnola, francese) ma soprattutto negli usi, nelle tradizioni,  nel folklore e nelle funzioni religiose. Si pensi, per esempio,  ai riti della settimana santa che ricordano molto da vicino, anzi, per certi versi sono completamente identici,  quelli che si svolgono ogni Venerdì Santo a Siviglia o in altre città grandi e piccole della Spagna.

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In questa sede,  comunque,  vogliamo prendere in esame un proverbio che, traendo ispirazione da una norma contenuta nella legislazione bizantina, stabilisce che “chi fabbrica su suolo altrui, perde la calce, le pietre e la sabbia”, giacché il proprietario del suolo diviene automaticamente anche proprietario della costruzione. Certo, oggi, vanno fatte le opportune distinzioni; recita, comunque, il vecchio proverbio che

cu’ fabbrica ‘n terra d’atri
perdi  ‘a fatiga, i petri  e ‘a caci

                                                                             (Galatro)

con le varianti:

chine fravica a robba d’autri
perdi fatiga, petri e caucia

                                                                     (Catanzaro)

cu’ fabbrica ‘nta terra strana
perdi a carci, a petra e a rina

                                                               (Giojosa Jonica)

cu fabbrica ‘n casa d’autri
perdi ‘a petra, a rina e ‘a cauci.

 La norma del proverbio trae origine, come già detto, dalla legislazione bizantina ma trova un preciso riscontro giuridico anche nella disposizione pregiustinianea di Gaio il quale, nelle sue Institutiones, scriveva: “Praeterea id quod in solo nostro ab aliquo aedificatum est, quamvis ille suo nomine aedificaverit, iure naturali nostrum fit, quia superficies solo cedit” (II § 73).

In tempi a noi molto più vicini, il principio è stato codificato dall’art. 934 del Codice civile.

La casa è stata al centro anche di altre norme. Assai diffuso in Calabria è ancora il proverbio secondo il quale

quattru mura havi ‘a casa:
ddui du’ maritu e ddui da’ mugghieri

 o, come nella variante:

‘a casa havi quattru cantuneri
ddui du’  maritu e ddui da’ mugghieri.

                                                                        (Galatro)

E’ evidente che all’epoca in cui i nostri nonni hanno coniato la massima sopra riportata, nessuno prevedeva che un giorno il delicato problema della comunione (e separazione) dei beni sarebbe stato affrontato e chiarito dal nuovo diritto di famiglia.

Anticamente, però, quando le varie norme non erano state ancora “codificate”, si andava avanti osservando le usanze locali, così come esse erano state oralmente tramandate dagli anziani.

E secondo gli usi antichi il semplice vincolo matrimoniale rendeva comuni i beni dotali dei coniugi per cui della casa che la sposa aveva avuto in dote, ben presto diventava proprietario anche lo sposo e, viceversa, delle terre o degli animali che hanno costituito i “beni dotali” dello sposo, sin dai giorni successivi al matrimonio, si sentiva proprietaria anche la sposa. Il principio della “comunione”, d’altra parte, lo rinveniamo espresso in maniera chiara in molti “capitoli matrimoniali” (o “arbarani” [1]) che in forma analitica venivano fatti compilare dai genitori degli sposi e nei quali venivano elencati gli elementi che costituivano la “dote” insieme a ben determinati vincoli che variavano non solo da paese a paese ma spesso anche da rione a rione dello  stesso paese e, soprattutto, da matrimonio a matrimonio, in base alla condizione sociale delle famiglie di appartenenza dei due coniugi.

Fermo restando che per sposare una figlia era necessario garantirle la “dote”, ci sembra utile ricordare che, com’è comprensibile, non tutti i genitori erano in grado di “dotare” in maniera soddisfacente ed abbondante le loro figlie. Ne consegue che ognuno era disposto ad affrontare grandi sacrifici pur di assicurare alla propria figlia (e, più spesso, alle figlie) in età di matrimonio il minimo indispensabile che richiedeva la sua condizione sociale.

Sicchè

‘a figghia du’ massaru
ddui vôi e lu vôaru;
‘a figghia du’ garzuni
‘na vesta e ddui casciuni.

                                                                         (Galatro)

La massima è chiara. Per ognuna delle due categorie sociali che prende in esame mette in risalto le rispettive possibilità economiche e, quindi, ciò che  veniva dato in dote alle ragazze appartenenti a quel tipo di famiglia.

Il ricco “massaro”,  persona che dal punto di vista economico occupava un posto di rilievo nella scala sociale del tempo, era in grado di dare in dote alla figlia la stalla con due buoi  (‘nu paricchiu) che da soli costituivano una grande fonte di benessere ove si consideri che aggiogati insieme, oltre a trainare il carro, erano impiegati ad arare i campi ed a trasportare i grossi tronchi di legno dalle impervie zone della montagna fino alle segherie dei paesi.

Il  “paricchiu”, insomma, era una buona fonte di reddito ed esso stesso costituiva una grande ricchezza.

A tutto ciò c’era da aggiungere la biancheria (il classico “corredo”) e la casa.

Dalla stessa massima, apprendiamo,  poi  che la figlia del povero garzone avrebbe avuto una dote molto ridotta: una veste e due casse.

Ovviamente siamo di fronte all’iperbole sia nell’uno che nell’altro caso.

Comunque la massima è chiara e precisa e ci fa capire in maniera efficace come la differenza sociale (ieri come oggi, perché in merito nulla è cambiato sotto il sole!..)  si ripercuotesse sulla consistenza dotale delle nubende.

E non mancava chi, quasi a voler sottolineare la povertà della futura sposa, affermava che a lei  sarebbe andata in dote soltanto

‘na cascia, ‘na fressura e ‘nu mortaru

                                                                     (Catanzaro)

cioè una cassa, una padella ed un mortaio, umili arnesi di poco valore e spesso anche usati, come si rileva da molti dei   “capitoli matrimoniali” che abbiamo avuto modo di consultare nei vari archivi notarili calabresi.

Poter assicurare la ”dote” alla figlia costituiva l’assillo dei genitori  sin dai primi giorni di vita della bambina.

Si sosteneva, infatti:

figghia fimmana ‘m fasci
doti ntre casci. [2]

                                                                        (Galatro)

Proprio per soddisfare la necessità di garantire il corredo nuziale alle figlie, tutte le mamme, operando grandi risparmi nel già magro bilancio familiare, riuscivano a comprare il necessario per procedere alla confezione di un adeguato numero di paia di lenzuola, di coperte, di federe, di servizi da tavola, di indumenti personali e di tutto ciò che, in fatto di biancheria, serve ad una famiglia che si va a costituire.

E per i genitori era un orgoglio far sapere che alla giovane figlia che contraeva matrimonio era stata assicurata una dote di “ventiquattro”, “diciotto” o di “dodici”  esemplari per ogni capo di biancheria. In questo caso si diceva che aveva “una dote intera”.  Si diceva, invece, che una ragazza aveva “mezza dote” quando  dalla famiglia riceveva  sei esemplari (o ancora di meno) per ogni capo di biancheria.

La dote era considerata un “accessorio” indispensabile per aspirare al matrimonio.

Pur essendo proporzionata alle condizioni economiche della famiglia, infatti, nessuna ragazza  poteva illudersi di sposarsi se i genitori non erano in grado di assicurarle un minimo di beni dotali.

Quanto veniva promesso, poco o molto che fosse, doveva essere corrisposto. Venir meno agli impegni dotali  -sia che la promessa fosse stata fatta a voce, sia che fosse stata concordata e sottoscritta in un arbaranu- significava compromettere il fidanzamento e, quindi, rompere la promessa di matrimonio.

Tutto ciò, spesso, avveniva proprio nella immediata vigilia delle nozze, giacchè la “dote” intesa come “corredo”, doveva essere portata in casa dei futuri sposi una settimana prima del giorno stabilito per la cerimonia. Le cassepanche della biancheria si lasciavano aperte perché i parenti e gli amici dello sposo (ma spesso anche della sposa) potessero vedere la quantità e la qualità dei vari capi di corredo.

I capi più fini venivano sistemati sul letto nuziale, come in mostra, ed erano  l’orgoglio della mamma della sposa che accettava i complimenti sottolineando i grandi sacrifici che a tutta la famiglia era costato quel corredo. I fidanzamenti, comunque, si rompevano non tanto quando dal corredo mancava qualche capo, ma  quando con sotterfugi e scuse varie, prima della cerimonia nuziale, il genitore della futura sposa non provvedeva a dotarla dei beni immobili pattuiti mediante atto notarile o con la scrittura dei necessari “capitoli matrimoniali”.

Abbiamo già visto che nella civiltà contadina l’impegno equivaleva ad un vero contratto. Venir meno ai patti dotali, pertanto, poteva significare mandare a monte un matrimonio e veder fallire la sistemazione di una figlia.

In proposito, comunque, sentenziavano i nostri saggi progenitori che

cu’ promentiri e no’ dari
restanu i figghi ‘i maritari.

                                                                            (Galatro)  

E, per bella che fosse, dunque,  la ragazza, senza dote avrebbe rischiato di rimanere zitella. A tal  proposito il proverbio è chiaro:

‘a zita è bella e costante
ma a dota hava e caminara avante.

                                                                         (Catanzaro)

Invero una buona dote -casa e terreni, in particolare- facilitava il matrimonio di ogni ragazza; anche di quella le cui fattezze fisiche lasciavano tanto a desiderare da farla paragonare più ad una scimmia che ad un essere umano. Secondo il vecchio detto, infatti,

p’a casa e p’a vigna
si marita puru ‘a signa.
[3]

                                                       (Catanzaro, Cittanova)           

Quali, invece, gli “obblighi dotali” dell’uomo?  Intanto doveva comprare l’oro che nel giorno del “fidanzamento ufficiale” (la tradizionale “cerimonia del singo”) alla presenza di tutti i parenti appositamente riuniti, offriva alla futura sposa (un anello, una collana e gli orecchini “a pendente” e, se le condizioni economiche glielo consentivano, anche una spilla).  Comunque, al giovane che andava a nozze solitamente i genitori davano in dote qualche capo di bestiame e qualche appezzamento di terra. Se apparteneva a famiglia estremamente povera doveva avere almeno gli arnesi da lavoro: una zappa, la roncola e la falce. Secondo tradizioni che variavano da paese in paese, doveva, inoltre, provvedere all’acquisto del letto matrimoniale (l’optimum del lusso era costituito dal letto in ferro completo di spalliera:  ‘a travarca), del tavolo su cui consumare i pasti ( ‘a buffetta), delle terraglie per cucinare (‘a pignata, ‘u testu, ‘a cassalora ed almeno ddui piatti fundi e ddui chiani). Inoltre doveva comprare alcune posate e la immancabile “ruota”  del  braciere.

I beni dotali  solitamente venivano gravati dalla clausola di inalienabilità. Questa precauzione rassicurava i genitori degli sposi. Così facendo, infatti, erano sicuri che, in caso di disavventure economiche della famiglia che andava a costituirsi con il matrimonio, i beni immobili che davano in dote potessero rimanere integri e salvi.

Da qui l’origine del detto che ancora oggi è spesso citato per ricordare come

‘a dota passa supr’ ’o focu
e no’ si vruscia.

Passa sul fuoco e non si brucia. Immagine assai suggestiva usata per ricordare che la dote supera qualsiasi pericolo, giacché, grazie ad una clausola di salvaguardia suggerita dall’esperienza, tutti i beni dotali  non possono essere venduti per nessun motivo. Neppure per tamponare possibili falle determinate da una eventuale poco accorta amministrazione familiare. Inoltre, secondo un principio che affonda le radici nelle consuetudini antiche, la dote assegnata al momento del matrimonio (casa, corredo e qualche appezzamento di terreno)  escludeva la figlia femmina da ogni ulteriore diritto di compartecipazione alla divisione dell’asse ereditario.

Sapendo questo, però, chi aveva beni immobili da dividere ai figli maschi, quasi sempre, per non dare origine a diversità di  trattamento all’interno della sua stessa famiglia e per non generare possibili  “invidie”  tra fratelli  e sorelle, al momento del matrimonio dotava le figlie femmine assegnando loro anche  estensioni di proprietà che, non di rado,  andavano  oltre la  cosiddetta  “legittima”.

Comunque, in Calabria, per giustificare l’esclusione di una figlia maritata dall’eredità paterna (o materna, era lo stesso), veniva ricordato che

‘a dota
è ‘na vota

volendo con ciò significare che la dote si poteva reclamare e ricevere una sola volta nella vita e che il matrimonio  estingueva il diritto di partecipare alla successione ereditaria.  Va anche sottolineato che i beni dotali - intesi soprattutto come biancheria- non  duravano tutta la vita,  e che, sovente, la massima veniva ricordata per sottolineare che la migliore dote che una donna potesse vantare era costituita dalle sue qualità morali; qualità  che duravano,  così come durano, tutta la vita.

Un’altra massima ci ricorda che

‘a dota
si vota

principio che, come si evince chiaramente, imponeva la restituzione dell’ intera dote alla famiglia dotante nel caso che -come si legge in molti “capitoli matrimoniali”  dei primi anni del 1700-  “la futura sposa morisse senza figli o con figli e quelli morissero in pupillar età.”

 In tal caso il  “futuro sposo s’obbliga e promette di restituire tutta la dote al detto dotante...” [4].

In tempi molto vicino a noi il codice civile ed il nuovo diritto di famiglia hanno  regolamentato la restituzione dei beni dotali.

Uno dei punti fermi dei “capitoli” era la nascita dell’erede o, in mancanza, la durata del matrimonio per un numero stabilito di anni. Solo quando ricorreva almeno uno dei due casi, infatti, di diritto (perchè pattuito in contratto)  oltre che di fatto, si realizzava la comunione dei beni, sicchè il marito diventava proprietario dei beni dotali della moglie e quest’ultima, a sua volta, diveniva proprietaria  dei beni dotali del marito. Si realizzava, cioè, quella comunione di beni di cui il proverbio già esaminato (‘a casa havi quattru cantuneri: ddui du’ maritu e ddui da’ mugghieri) enuncia il principio: casa e proprietà appartenevano metà al marito e metà alla moglie.  Ma le consuetudini potevano differire da paese a paese e, a volte, nell’ambito dello stesso paese, anche dal ceto sociale a cui appartenevano le famiglie degli sposi.

Non mancano, infatti, paesi in cui la comunione dei beni dotali si realizzava con il pronunciamento del “si”  davanti ai testimoni e con la conseguente benedizione delle nozze sia da  parte del celebrante che dei genitori dei giovani sposi. Di fatto, però,  si concretizzava solo quando entravano nel letto nuziale e, quindi, con la consumazione del matrimonio.

Da qui la convinzione, un po' troppo materialistica, in verità, secondo la quale

tavula e lettu
mentinu affettu.

Riteniamo, comunque, che il proverbio non voglia riferirsi alla concreta introduzione  nel letto nuziale come condizione indispensabile per entrare in possesso dei beni dotali della moglie (o del marito). Il letto, infatti, è sempre stato considerato il “luogo canonico” per consumare il matrimonio e per praticare quella  attività sessuale che, insieme alla buona cucina, (la “tavula” del proverbio) concretizza e rafforza il sentimento dell’amore.

Pensiamo, allora, che la massima voglia sottolineare il ruolo determinante che svolge il letto per cementare sempre più  l’affetto e l’intesa ideale già esistente tra i giovani coniugi. Al di là dell’ interpretazione del proverbio, comunque, è fuor di dubbio che in materia di “comunione” dei beni dotali, molti aspetti delle leggi tradizionali in uso in Calabria nei tempi passati, sono contenuti nei “capitoli matrimoniali” (o negli “arbarani”), veri e propri “contratti” scritti, a cui ricorrevano i genitori degli sposi per pattuire la dote che intendevano dare ai loro figli e le clausole di cui gravavano il matrimonio.

In tema di fabbricati gli antichi, con la convinzione che è frutto dall’esperienza, ripetevano ai loro figli:

accatta casa di cu’ no’ fabbricau
e vigna di cu’ no’ ndi chiantau

                                                                        (Galatro)

giacché solo nell’uno e nell’altro caso si possono realizzare buoni affari, acquistando, a prezzi  sicuramente  convenienti. Ciò perché solo chi non ha vissuto sulla propria pelle i sacrifici fisici e le preoccupazioni legati alla costruzione di una casa può disfarsene a buon prezzo; con la stessa leggerezza vende il proprio vigneto a prezzo conveniente chi non ha mai personalmente provveduto a coltivarlo e, quindi, oltre a non conoscere il suo reale valore disconosce le fatiche di una coltivazione che inizia con la messa a dimora dei vitigni   (con  la  “scirpa[5]) e che annualmente esige estenuanti lavori per far crescere bene le viti e per farle fruttare in maniera abbondante.

Certo, non si può dire che al diritto consuetudinario della nostra civiltà contadina sia sfuggito uno solo degli aspetti che erano alla base  della vita quotidiana e che regolavano i rapporti tra le persone. Sicché hanno anche previsto che, in caso di acquisto di un fabbricato, pur modesto che fosse,   la pergola che cresceva davanti alla casa o, comunque, nelle immediate pertinenze della costruzione, appartenesse a chi acquistava il fabbricato.

E’ il caso di ricordare che le comunità, a quei tempi, erano tutte a spiccata vocazione agricola e che, anzi, i piccoli nuclei abitati sorgevano sì attorno ad una chiesa e ad una piazza, ma soprattutto attorno ad un’aia, vera anima di tutte le piccole comunità rurali. Erano i tempi della famiglia patriarcale quando era assai difficile che chi aveva la casa prospiciente in  quell’aia, modesto ma vivo ed animato piazzale in terra battuta, fosse un estraneo alla grande famiglia. Nell’aia  ogni sera venivano “parcheggiati” i carri agricoli  e la vita seguiva  il ritmo delle ore che all’alba erano scandite dal canto del gallo ed a sera erano segnate dal suono dei campanacci delle mucche che rientravano dal pascolo, dai belati degli agnelli che, affamati,  chiamavano le mamme e dall’abbaiare sordo dei cani che inseguivano le galline fin nel pollaio.

Nonostante nell’aia si vivesse tutti insieme e si respirasse una sana e bucolica atmosfera, era,  però, possibile che, per motivi di estrema e contingente necessità qualcuno fosse costretto a vendere la sua modesta casa. In questa evenienza chi acquistava  il fabbricato diveniva automaticamente proprietario della pergola che, piantata nei pressi del muro perimetrale (e, quasi sempre, vicino alla porta d’ingresso dell’abitazione)  cresceva davanti casa garantendo ai  proprietari  ombra nelle giornate estive, un poco di vino per l’inverno e, non meno importante, un poco di dolce frutta da far consumare ai più piccoli della famiglia.

Ebbene, secondo il diritto consuetudinario, chi acquistava il fabbricato diventava  anche proprietario della pergola adiacente, in forza a quanto stabilito dalla norma secondo la quale, appunto,

‘a pergula vaci c’ ‘a casa.

                                                                            (Galatro)

 

***

 

N O T E

*

<<La “Inaedificatio” e i "Capitoli matrimoniali" >> è parte della relazione <<'U ventu sparti - NORME GIURIDICHE NEI DETTI E NEI PROVERBI CALABRESI>>, tenutasi il 25 aprile 1994 a Mongiana, durante il IX Convegno su "LA NOSTRA LINGUA", ed è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "'U ventu sparti", Edizioni ACRE - Associazione Culturale Ritorno Emigrati - Mongiana (Vibo Valentia) 1995

[1]

Il termine deriva dallo spagnolo “albaran” e significa “documento”. In realtà nel nostro caso si trattava di una semplice scrittura privata in cui  si elencavano i capi di corredo promessi in dote alla sposa. L’ “arbaranu”  veniva firmato dai genitori dei promessi sposi e controfirmato dai testimoni.

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[2]

Vedi: U.  Di Stilo: Le stagioni della vita,  Mongiana, 1994 ;  pag.  19  e  seguenti.

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[3]

Signa  (o scigna):  scimmia.

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[4]

Dai  “Capitoli matrimoniali” sottoscritti in Galatro il 13 maggio 1716 dal  “Magnifico Giuseppe Barone della terra di Galatro dell’una parte e dal Magnifico Gilonardo Rocca di Palmi, habitante qui in Galatro da molt’anni, per il felice matrimonio (Deo dante, contrahendo) tra il detto di Rocca e la Magnifica Catherina Barone, figlia legittima e naturale di detto Giuseppe, dotante...”.

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[5]

Scirpa:  Era così definito il profondo dissodamento del terreno che si faceva in  preparazione dell’impianto  dei filari di vigna.

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