Il piccolo mondo di Galatro

 

Giustizia

 

da

'U ventu sparti

di Umberto Di Stilo

 

           Nei confronti della giustizia, intesa come apparato preposto alla concreta applicazione dei precetti di legge e, quindi, della individuazione da parte degli operatori di giustizia di ciò che è obiettivamente giusto, i nostri antenati non hanno mai dimostrato di nutrire grande fiducia.

           Lo testimonia la gran mole di massime, di detti e di proverbi che ci hanno tramandato e che, ancora oggi, è possibile sentir ripetere dai più anziani o da chi ad essi ricorre per colorire ed arricchire di significati i suoi discorsi.
 
          Ed è proprio dallo studio di  questi proverbi che vien fuori il  profondo pessimismo delle passate generazioni le quali ritenevano davvero estremamente infelice chi, dimostrando una immeritata grande fiducia, sperava in una giustizia “giusta”.
 

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           A tal proposito, non avevano dubbi nell’affermare che

                                            justizzia e sanità
                                            amaru cu’ ndi cerca

oppure

                                            amaru cu’ cerca medicu o justizia

perché non sarebbe riuscito né a curare i suoi malanni fisici né  ad avere soddisfazione nelle controversie.

           Sfiducia nella giustizia degli uomini, ma tantissima fiducia nella equità celeste.  Nelle classi subalterne calabresi, infatti, molto radicato era il principio della giustizia divina.

           Proprio per questo uno dei suggerimenti che in maniera convinta veniva ripetuto ai giovani della famiglia era:

                                            fa’  beni e scordati
                                            fa’  mali e pensaci
                                                     (Galatro)

o, come nella variante:

                                            fa bena e scordati
                                            fa mala e pentiti
                                                     (Catanzaro)

giacché mentre chi fa del bene, anche se lo dimentica, un giorno sarà ricompensato da Dio, chi col suo operato procura il male altrui  deve riflettere e pentirsi finché è in tempo, perché quando si troverà davanti al Gran Giudice, possa sperare nel perdono celeste.

La mancanza di fiducia nella giustizia amministrata dagli uomini, vien fuori anche dalla massima secondo cui

cu’ mbenta a leggi
mbenta a frodi

volendo con ciò significare che lo stesso legislatore trova il modo per organizzare anche l’inganno. Ai nostri antenati non bastava, pertanto, pensare che “fatta la legge, trovato l’inganno”. Essi ritenevano, infatti, che la stessa norma di legge è un inganno.

Tutto ciò, in effetti, era frutto  della sfiducia della classe  subalterna verso quella classe egemone ai cui rappresentanti era demandato legiferare. Questa circostanza faceva nascere sospetti (in verità non del tutto infondati). Infatti la classe egemone (ieri come oggi)  ha sempre emanato leggi finalizzate a tutelare principalmente i propri diritti senza tener conto di quelli delle classi più povere giacché a queste, con assoluta mancanza di equità, è stato sempre demandato soltanto il dovere di osservarle.

Il concetto di giustizia, poi, come principio di equità, a parere dei nostri antenati,  era completamente sconosciuto dai giudici quando un povero apriva una controversia contro un ricco o, comunque, contro un potente. Qualunque fosse il motivo del contendere destinato a soccombere era il più povero,  il debole, giacché, secondo un vecchio proverbio serbo:  “il diritto del potente mangia tutti gli altri diritti” .

Anche per questo non è stato mai  considerato prudente aprire controversie contro i potenti e contro i ricchi.

Ed il proverbio, a tal proposito, ricorda

cui cu potenta lutta
o pera o va di sutta

                                                         (Catanzaro)

o, in maniera più esplicita:

cu’ patri e cu’ patruni
sempri tortu e mai raggiuni

                                                          (Galatro)

in cui le liti con il padre sono state poste allo stesso livello di quelle che spesso si affrontavano con i padroni,  vessatori e despoti.

Per i poveri e per i deboli, dunque, secondo quanto ci hanno tramandato i nostri antenati, non c’era speranza di giustizia.

I poveri , oltre ad essere condannati dalla sorte ad una vita grama e piena di umiliazioni, dovevano subire anche le angherie di una legge che li mortificava quasi che, per il solo fatto di essere poveri, non potessero godere di  alcun diritto [1].

Tutte le controversie, insomma, erano palesemente “segnate” dal dubbio della irregolarità dal momento che i potenti  potevano intervenire sui giudici perché avevano in mano l’amministrazione della giustizia (basti pensare ai vecchi feudatari) e i ricchi riuscivano a corromperli perché disponevano dei necessari soldi per “ungere  le ruote della giustizia”.

A dar retta a quanto ci è stato tramandato dai nostri progenitori, dunque, soltanto i ricchi ed i potenti signori non avevano da temere dalla giustizia. Non perché fossero immuni da colpe, ma perché avevano i mezzi per “ammansire” quella “giustizia” per niente obiettiva nelle sentenze.

Quanto mai vero, pertanto, il detto secondo il quale

cu’ ha è;
cu’ non ha, non è

che, esaltando il valore dell’ “avere”  e facendo dipendere l’ “essere” persona di stima e di rispetto dal “possedere”, sembrerebbe  creato in epoca molto più recente e dalla moderna società capitalistica.

L’uomo in tanto “è”, in quanto “ha”, dunque. E chi non “ha”?

In merito gli antichi non avevano dubbi e, facendo proprio il detto latino secondo il quale “homo sine pecunia est imago mortis”, senza mezzi termini affermavano  che l’

omu senza dinari
è corpu mortu

con la variante:

chini ‘on ha casa e uortu
è corpu mortu.

E doveva essere cosa assai triste considerare un uomo socialmente morto soltanto perché,  non disponendo di soldi e di proprietà terriere (anche se di limitatissima estensione, trattandosi di un “uortu”), non aveva alcun peso nella società del tempo. Anzi: era considerato “corpo morto”, cioè cadavere.

Diversa la considerazione che avevano dei “benestanti”.

I ricchi, infatti, erano stimati ed ossequiati come persone di grande prestigio. Molto  probabilmente perché nelle piccole comunità rurali a loro è stata data sempre la possibilità di interferire nelle decisioni giudiziali, condizionando le sentenze.

A dar credito alle massime, ai proverbi e ai detti che ci sono stati tramandati, a quei tempi,  per spuntarla in una controversia giudiziaria, bisognava disporre della somma necessaria per corrompere i giudici e gli avvocati o una consolidata amicizia con qualche notabile “galantuomo” del paese attraverso il quale era possibile intervenire per cambiare il corso della causa.

Dobbiamo ritenere, comunque, che dall’ esperienza diretta, è scaturita la massima secondo la quale

cu i sordi e l’amicizia
nci vai ‘nculu a la giustizia [2]

con la leggera variante:

cu’ dinari ed’amicizzia
si teni ‘nculu ‘a giustizzia

                                                               (Galatro)

che, di fatto, conferma come l’amministrazione della giustizia fosse nelle mani di pochi ricchi e come la vittoria di una controversia sovente dipendesse dalle interessate valutazioni di pochi  privilegiati signorotti o benestanti.

Da questo diffuso convincimento sono nate molte altre massime; tra  queste:

aundi nc’è forza e dinari
‘a raggiuni no’ mbali

                                                             (Galatro)

dal momento che, come abbiamo fin qui evidenziato, non c’è ragione che possa spuntarla contro la  prepotenza o, peggio, contro la forza del denaro.

Il concetto è ripreso anche dal  proverbio secondo il quale

‘a leggi è uguali pe’ tutti
ma s’hai sordi ti ndi futti!

                                                                 (Galatro)

Insomma il  “Dio denaro”,  secondo i nostri antenati, riusciva ad operare tutti i miracoli. Anche quelli apparentemente “impossibili” quale, appunto, il sovvertimento del risultato di un processo.

Da qui la mancanza di credibilità nella “legge uguale per tutti” e, quindi, nella giustizia in genere.

Certo, se è vero che i proverbi, le massime ed i detti dei nostri progenitori sono lo specchio della società che li ha generati, allora dobbiamo dedurre che l’amministrazione della giustizia, in passato, non è stata esemplare e che sovente la bilancia è stata fatta pendere in maniera troppo evidente da una parte anziché dall’altra e, comunque, dalla parte sbagliata.

Si trattava di una giustizia che lasciava a desiderare, che non rispondeva alle esigenze della collettività, che non ispirava fiducia e che era delegittimata dai comportamenti di giudici attratti dal giallo dell’oro o che si dimostravano troppo deboli di fronte alle pressanti richieste dei “notabili”  paesani.

Simile comportamento non è sfuggito ai nostri progenitori i quali in maniera lapidaria hanno sentenziato che:

aundi ‘u giudici pendi
‘a giustizzia  mori

                      (Galatro)

o, come nella variante:

quannu vilanza penna
justizia è morta.

                    
(Catanzaro)

Insomma l’imparzialità (e la credibilità) della giustizia è stata fatta derivare sempre dall’equilibrio del giudice del quale, a conferma di quanto è stato detto prima,  si diceva

‘u giudici faci ‘a leggi comu voli.

 La sfiducia nel giudice era anche sfiducia nelle istituzioni e, soprattutto, sfiducia nello Stato,  spesso rappresentato nei piccoli agglomerati rurali da corrotti  signorotti sempre pronti a barattare la sentenza di un processo e ad applicare pesanti gabelle ai cittadini.

Tale senso di sfiducia, insieme al convincimento che con una indovinata, decisa ed autorevole spinta si potesse cambiare il corso di un processo, era assai diffuso nella nostra civiltà contadina.

Nelle vecchie comunità, infatti,  era comune la persuasione che la legge è elastica come la pelle, per cui dalla parte che si tira essa viene.

Sicché, con immagine assai bella, i nostri antichi progenitori ammonivano che

‘a leggi è ‘na pellicchia:
cchiù ‘a tiri, cchiù veni

 o, in modo più specifico:

‘a leggi è comu ‘a peji d’i cugghiuna,
cchiù ‘a tiri e cchiù veni.

                         
(Galatro)

Conseguenza logica: bisognava affrontare i problemi di giustizia con buona  determinazione ricorrendo sempre all’aiuto di quanti più amici influenti fosse stato possibile.

Non suoni sacrilego, comunque, l’accostamento alla preghiera, ma la massima, coniata da persone religiosissime e rispettosissime,  evidenzia che così come l’esito di una invocazione di grazia è ascoltata ed esaudita dai santi  se viene posta con vera e profonda fede, allo stesso modo per ottenere successi davanti alla corte bisogna sapersi aiutare e, magari, trovare le giuste intercessioni.

Ed allora :

ai santi comu l’aduri
e a la curti comu t’aiuti

                    
(Galatro)

con la variante

cu’ i santi comu ‘i preghi
e  c’ ‘a leggi comu t’ajuti.

                     (Campo Calabro)

Comunque durante lo svolgimento di un processo, gli interessati dovevano attenersi ad alcune norme dettate dall’esperienza. Intanto dovevano avere la capacità di muoversi e di camminare per cercare appoggi; dovevano parlare il meno possibile per non rivelare anzitempo la linea processuale che  intendevano  portare avanti e mantenere il segreto per evitare di mettere sull’avviso l’avversario; infine, cosa più importante, dovevano avere a disposizione molti soldi da spendere.

Secondo il proverbio, infatti:

ntra li causi ‘nci voli gamba leggia,
mussu chiusu e ‘nu zurruni [3] mû s’alleggia.

                          (Laureana, Galatro)

L’ideale sarebbe riuscire ad evitare le liti e ogni tipo di  controversia davanti al giudice, giacché qualunque possa essere l’esito suggellato da una sentenza, essa provocherà incolmabili solchi di inimicizie ed incomprensioni tra le parti e comporterà la spesa di capitali che potevano essere impiegati in modo redditizio e più proficuo per la famiglia. Qualunque sia l’esito della vertenza, essa sarà costata tante preoccupazioni e tantissimo tempo. Sarà costata, soprattutto, tantissime apprensioni e tanto nervosismo.

Proprio per questo i nostri antenati suggerivano di preferire anche una svantaggiosa transazione ad un continuo litigio. Anche quando si era convinti di avere la ragione dalla propria parte.

Sostenevano, infatti, gli antichi saggi:

Megghiu ‘nu tristu accordu
ca n’amaru liticàri

           
(Galatro)

o, come nella variante:

Megghiu ‘nu tristu aggiustamentu
ca ‘nu giustu liticàri

che, in sostanza, ribadisce il convincimento secondo cui è da preferire un insoddisfacente  “aggiustamento” piuttosto che un giusto litigio che comporti preoccupazioni, inimicizie e ingenti spese.

E sembra sentire ancora la voce del vecchio saggio che si alza e dall’alto della sua esperienza suggerisce:

genti, sentiti a mia, ca sugnu vecchiu:
cu’ litiga no’ fa’ ‘na bona ‘mprisa:
si perdi, resta comu ‘nu finocchiu,
si vinci, resta sulu cu ‘a cammisa. [4]


                                         (Galatro, Laureana)

Quanta verità è contenuta in questa massima! Verità che è il frutto dell’esperienza. Non per niente il saggio faceva appello alla sua avanzata età, ai suoi capelli bianchi. Il litigio non conviene a nessuno dei contendenti. Chi perde resta rammaricato, deluso, amareggiato. Chi vince, in pratica, spesso, si trova a stringere un pugno di mosche.

Ha la soddisfazione della vittoria, si, ma essa gli è costata così tanto da costringerlo a rimanere proprietario della sola camicia che indossa. Magra soddisfazione, non c’è che dire!

Lo stesso concetto, in fondo,  sia pure in forma diversa, è espresso nel detto:

causa decisa:
unu a’ nuda
e l’autru ‘n cammisa.

                          (Galatro)

Qui, ricorrendo alla solita iperbole, l’anonimo autore del detto riesce a dar chiara l’idea della situazione economica dei due contendenti reduci da una vertenza legale davanti ai giudici:  il perdente, che ha investito  il suo patrimonio per imbastire una difesa sicura, oltre a sconfitto si ritrova in miseria, e, quindi, letteralmente  " ‘a nuda";  il vincitore non è proprio in miseria, ma si rende conto che la soddisfazione della vittoria è ben poca cosa, rispetto a quello che ha speso ed a quello che, forse, sperava.

Insomma i nostri antenati, in maniera convinta,  sconsigliavano le liti  e se proprio non se ne poteva fare a meno, - in considerazione dello spirito litigioso che è caratteristica di tutti i meridionali -  suggerivano di cercare di evitare ogni conflitto coi poveri, giacché con loro,  si sapeva in partenza, che non ci sarebbe stato nulla da guadagnare, e coi potenti perché, soprattutto grazie ai mezzi ed alle amicizie di cui potevano disporre, sarebbe equivalso a  cozzare contro un muro.

Per questo suggerivano:

no’ liticàri cu’ i pezzenti
e mancu  cu’ i potenti!

                           (Galatro)

Insomma contro i potenti non c’era proprio nulla da fare.

Anche per via delle interferenze dei notabili e ricchi, spesso, i risultati dei procedimenti giudiziari si concludevano con sentenze che davano risultati completamente opposti a quelli che, secondo la “logica” popolare, sarebbero stati più giusti e più equi.

E poiché, ogni processo, spesso riservava sorprese, sulle labbra dei nostri antenati circolava un detto che, nella sua brevità e con la sua sottile ironia, bollava il provvedimento della corte.

Per sottolineare il macroscopico errore giudiziario frutto di spinte e di pressioni e, quindi, per ribadire la sfiducia nella giustizia, si soleva dire, infatti, che:

‘u latru è boia
e l’arrobbatu è ‘mpisu

volendo con ciò evidenziare che i soldi avevano determinato l’inversione dei ruoli  al punto che chi aveva ragione aveva subito la condanna e, nella fattispecie, il ladro, paradossalmente, era diventato boia del  derubato,  condannato  alla forca.

Ed ancora, sempre per sottolineare  questa inversione dei ruoli, c’era anche chi ricorreva alla massima secondo la quale, stranamente:

‘u latru assecuta ‘u sbirru

                                                     (Catanzaro, Melicuccà)

cioè che il ladro insegue il carabiniere (per catturarlo, ovviamente!).

A discreditare la giustizia, oltre alla temuta imparzialità  dei giudici, contribuivano, non poco, le lungaggini che, purtroppo, anche nei secoli scorsi hanno caratterizzato i procedimenti giudiziari.

Ed allora, molto genericamente, si diceva che                         

                            ‘a Curti [5]  è longa.

 E poiché davanti al collegio giudicante si doveva tornare più volte, prima di giungere ad una conclusione, si diceva pure che

‘a Curti pigghia e lassa
‘u focu pigghia e passa.

 Come spesso abbiamo avuto modo di riscontrare, nei loro proverbi i nostri antenati sono riusciti ad esprimere in maniera chiara il loro concetto accostando due immagini in contrasto tra loro. Qui, alla lentezza della Corte che esamina e rinvia (“pigghia e lassa”) viene contrapposta la rapidità del fuoco che accende, brucia e va avanti (“pigghia e passa”).

Alla lentezza dell’iter giuridico, oltre che alle difficoltà ad esso collegate, fa riferimento la massima che ha il sapore di una vera e propria sfida:

fabbrica e liti
provati ca vidit
i

                (Galatro, Laureana)

con la variante:

fabbrica e liti
no’ su’ mai finiti. [6]

In effetti solo l’esperienza può insegnare quanto tempo, quanti sacrifici, rinunce e denaro costa realizzare una casa o portare avanti un procedimento giudiziario. Non è semplice ne l’una ne l’altra cosa;  per convincersene è necessario provare. Già, provare per credere.

La seconda “versione” del proverbio pone l’accento sui lunghi tempi del processo e su quelli necessari per ultimare una costruzione. Sia nel caso del processo che in quello della costruzione d’una casa, l’antico saggio, forte della sua esperienza,  ha centrato il bersaglio ed ha messo sull’avviso gli sprovveduti.

Perché un procedimento si protraesse sempre più e ad esso fossero destinate diverse udienze, era interesse dell’avvocato.

Secondo l’opinione comune, infatti, il professionista sapeva che

cchiù pendi
e cchiù rendi

                   (Galatro)

per cui operava in maniera tale da portare alle lunghe la vertenza giudiziaria sapendo che, così facendo, avrebbe guadagnato sicuramente molto di più sia in soldi che in prodotti della terra. Anticamente, (e sicuramente fino ai primi anni sessanta)  infatti, i nostri contadini ogni qualvolta andavano dall’avvocato, per antica consuetudine e per accattivare le sue simpatie e le sue attenzioni, dovevano “bussare coi piedi”, giacché  le mani erano quasi sempre impegnate a reggere un pollo ruspante o un capretto o, nella peggiore delle ipotesi, una forma di formaggio avvolta in un tovagliolo di bucato e un paniere di frutta fresca; oltre all’immancabile “tafareja” con le uova per i bambini e ad ogni altro  ben di Dio.

Ognuna delle parti in causa, è evidente, sperava di avere la ragione dalla sua parte e, quindi,  di poter vincere la lite.

Quando le cose cominciavano a mettersi male e l’esito della controversia appariva incerto, c’era chi -quasi per incoraggiare l’amico od il parente in giudizio- gli suggeriva:

si vincìri no’ poi,
vidi m’appatti

                     (Reggio Calabria e provincia)

quasi che dipendesse solo dalla sua volontà riuscire a strappare almeno  un “pari” alla Corte. Sarebbe stato meno mortificante ed il “prestigio” non sarebbe stato intaccato.

Non tutti, però,  erano condizionati dall’idea che il prestigio  dovesse  essere salvato ad ogni costo. C’era chi, infatti, guardando più alla sostanza che all’apparenza, metteva da parte i vuoti principi e, mirando più ai contenuti pratici, diceva:

dammi tortu
ma pagami.

Nessuno, in un procedimento giudiziario, ha mai ammesso le proprie colpe. E’ compito precipuo della corte giudicare e stabilire a quale, tra le parti contendenti, deve essere addebitata la responsabilità dei fatti che hanno dato origine alla controversia.

Il principio della certezza del diritto, i nostri antenati lo hanno espresso nel lapidario detto:

 cu’ perdi havi tortu

 che in alcune zone diventa

cu’ perdi havi sempi tortu

 quasi che con quel “sempre” si voglia escludere ogni possibilità di errore giudiziario.

Questa categorica affermazione, in verità, è in netta contraddizione con quanto i nostri progenitori hanno affermato con altri proverbi e con altre massime. Ma, non è certo una novità che nel vasto campo della paremiologia spesso si incontrano massime,  proverbi e detti in chiara contraddizione tra loro.

Abbiamo già visto come e perché tra le classi subalterne calabresi fosse assai diffuso il senso di sfiducia nella giustizia. Nella massima appena esaminata, invece, siamo su posizioni completamente opposte: c’è la certezza nel diritto e, per conseguenza, c’è fiducia anche in chi applica il diritto, cioè nei giudici.

Meno certezza, invece, ci sembra di cogliere nella massima secondo cui

‘u tortu è sempi d’u mortu.

Si è sempre pensato, infatti, che l’attribuzione della responsabilità a chi non è più in grado di “fornire la sua versione dei fatti” in concreto costituisca il modo con il quale  si può  “aiutare” il “vivo”.

Attenzione, però, perché  proprio in questi casi

‘u mortu grida minditta.

                             (Galatro)

Questa massima, da sempre, è alla base di quelle faide [7] che in Calabria (ma anche in altre regioni del Sud), come in un lento stillicidio che si protrae nel tempo, hanno sterminato intere famiglie ed hanno insanguinato le strade di moltissimi paesi.

Il principio della  “legge del taglione”, da cui hanno origine le faide, nelle nostre classi subalterne trova riscontro  nel proverbio

fa comu t’ha fattu
ca non è peccatu

mediante il quale (anche indirettamente) i giovani venivano educati alla vendetta. In verità già Cicerone aveva sostenuto che  “ vim vi repellere licet ” (è lecito respingere la violenza con la violenza), ma non per questo il principio era da accettare e da diffondere come sacrosanto diritto-dovere di ogni persona offesa.



***

 

Tra le più diffuse consuetudini calabresi, in molti centri è ancora in uso il principio del risarcimento dei danni materiali, anche se involontariamente causati.

Recita il proverbio:

cu’ ruppi paga,
cu’ guasta acconza

                     (Galatro)

con la variante:

chine fa lu dannu
s’u ripiglia.

E’ chiaro che il proverbio si riferisce a danni di natura patrimoniale e, in modo particolare, ai danni che involontariamente (o volontariamente) venivano arrecati a cose ed oggetti altrui.

Non si spiegherebbe diversamente quel  “cu’ ruppi paga” (chi rompe paga) cioè indennizza per l’esatto valore del danno, ma, soprattutto, non sapremmo come intendere in maniera diversa quel “cu’ guasta acconza” cioè chi rompe è tenuto a riparare.

E’ chiaro che tutti i riferimenti vadano in direzione dei numerosi  oggetti ed utensili in uso nella civiltà contadina che, spesso, venivano prestati ad amici e parenti che ne erano sprovvisti. Un impegno morale imponeva che venissero restituiti funzionanti come erano stati presi in prestito. Dunque: in caso di eventuale danno esso doveva essere risarcito.

Il principio del  “cu’ ruppi paga e cu’ guasta acconza” è stato esteso a tutto il mondo contadino e le classi subalterne lo hanno sempre applicato come norma di vita comunitaria.

Ma non è mancato il caso in cui, per un errore involontario,

paga ‘u giustu p’ 'o peccaturi

                                 (Galatro)

Questo proverbio, in verità, ancora oggi viene usato ogniqualvolta si vuol sottolineare una ingiustizia determinata da un errore madornale o da una condanna  o pena inflitta ingiustamente.

 

***
 

Nella zona di Campo Calabro e Fiumara di Muro, ai giovani litigiosi che erano sempre pronti a menare le mani o, per un nonnulla, a sporgere querele, gli anziani del loro stesso nucleo familiare o gli amici intimi, forti dell’esperienza fatta nel corso degli anni e ricordando alcuni precisi episodi paesani, suggerivano:

megghiu m'hai a cchi ffari
cu' 'nu briganti
ca cu' 'nu gnuranti
 

 Con il “brigante”, infatti, era possibile giungere ad una pacifica transazione, ma la presunzione e l’arroganza che, spesso, caratterizzavano l’ignorante, erano ostacoli difficili da superare.

Nella  stessa zona,  poi, per sottolineare la tensione e la paura che si impadroniva dei cittadini, allorché per le vie del paese si vedeva gironzolare qualche personaggio prepotente, con immagine assai bella, si  diceva che

quandu passa ‘u malandrinu,
puru l’aria si ritira. [8]

Per non dover patire guai,  da sempre l’uomo ha ceduto alla forza ed alla prepotenza del suo simile che non avendo nulla da perdere vive di espedienti cercando di sottomettere gli altri al suo strapotere. Ciò perché i “malandrini”, i  prepotenti “‘ndranghitisti”, ci sono sempre stati a seminar paura tra la gente laboriosa e buona e tra le persone oneste delle classi subalterne.

Ed allora, non certo per eccesso di viltà ma esclusivamente per amore di tranquillità e serenità, i nostri progenitori erano soliti suggerire:

quandu tira ventu
...fatti canna

oppure:

abbasciati juncu
c’ ‘a  ciumara passa

                                (Galatro)

con la variante:

calati, juncu,
ca passa ‘a china

                                (Galatro)

 che è sempre un esplicito invito a sottomettersi al più forte.

Sia nella prima che nella secondo massima, (così come nella variante di quest’ultima) come spesso accade nei proverbi coniati dai contadini calabresi, troviamo immagini che ci riportano all’umile ambiente ed ai semplici interessi del mondo rurale ed arcaico dei nostri antenati.

Sicché troviamo la modesta canna che si piega al minimo alitar del vento ma troviamo, soprattutto, la presenza del giunco,  particolare e molto diffusa pianta acquatica che, grazie al suo stelo pieghevolissimo, è, essa stessa, simbolo di umiltà, di arrendevolezza e di ubbidienza cieca. Sia la canna, docile al soffiar del vento, che  il giunco, pronto a piegarsi al passaggio dell’acqua, sono usati come simboli della sottomissione, della disponibilità a  “sopportare”  pazientemente le altrui prepotenze.

In questi due proverbi, così come in moltissimi altri, è assai evidente la funzione didascalica sottintesa dalle poche parole che li compongono e dalle immagini rurali che esse evocano.

L’umiltà, comunque, non doveva essere scambiata per totale arrendevolezza e per passiva sottomissione. Pertanto bisognava ricordarsi che

a muru vasciu
ognunu appoja

 e che, pertanto, ad essere troppo umili si correva il rischio di rimanere schiacciati dall’altrui prepotenza e sopraffazione.

Vero è, però, che il proverbio, nella sua sinteticità, racchiude una precisa norma che, come moltissime altre, è stata successivamente fatta propria dal Codice Civile.

Recita, infatti, il secondo comma dell’art. 878 del c.c.  che il muro di cinta “quando è posto sul confine può essere reso comune (secondo quanto previsto dall’art. 874) anche a scopo d’appoggio, purché non preesista al di là un edificio a distanza inferiore a tre metri”.

Ancora un proverbio ambivalente, dunque, giacché oltre a dettare precise regole comportamentali  esso veniva usato per incitare le persone a non essere deboli per evitare di essere sfruttate e mortificate dai più forti e dai soliti, immancabili, prepotenti.

 ***

 

N O T E

*

<<Giustizia>> è parte della relazione <<'U ventu sparti - NORME GIURIDICHE NEI DETTI E NEI PROVERBI CALABRESI>>, tenutasi il 25 aprile 1994 a Mongiana, durante il IX Convegno su "LA NOSTRA LINGUA", ed è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "'U ventu sparti", Edizioni ACRE - Associazione Culturale Ritorno Emigrati - Mongiana (Vibo Valentia) 1995

[1]

A tal proposito recita un proverbio slavo che: il diritto dei poveri è solo il pianto, che, in verità, la dice abbastanza lunga  su come la pensassero in quella terra  sulla uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini. Vedi:  Piano, Enciclopedia dei proverbi,  Milano, 1962.

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[2]

Lo stesso proverbio è presente un po' in tutte le regioni italiane. In Toscana: chi ha denari ed amicizia si beffa della giustizia;  in Veneto: coi bezzi e la malizia se orba la justizia;  in Campania: denare e amicizia fanno cecà a giustizia; in Sicilia:  cu’ havi denari e amicizia pocu stima la giustizia;  ecc..

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[3]

Zurruni:  sacchetto di pelle (solitamente di gatto) fatto apposta per conservare il denaro. Il termine deriva dallo spagnolo “zurrón” nel significato di “tascapane”.

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[4]

La massima è riportata dal Marzano (vedi Opera . Citata, pag. 271,) con la variante che all’ultimo verso  ha riportato “si vinci, resta cu a sula cammisa”  mentre  a Galatro, dalla voce della signora Gorina Pilè,  alcuni anni addietro, abbiamo registrato “si vinci, resta sulu cu ‘a cammisa”. Abbiamo optato per questa versione anche perché poeticamente è molto più bella e più scorrevole.

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[5]

Col termine “Curti “, molto genericamente si indicava il collegio giudicante. In molti paesi della Calabria, pertanto, l’espressione  “chiamari ‘a curti “ significava  “convenire in giudizio”. Col  termine "curti  randi" si indicava la Pretura, col termine  "curti picciula" si indicava, invece, la Conciliazione. C’erano poi il Tribunale e l’Assise che venivano chiamati col loro nome.
Secondo G.B. Marzano (vedi : Dizionario etimologico del dialetto calabrese, Laureana, 1928, ad vocem)  nel nostro dialetto il termine “curti” deriva dal fatto che anticamente nelle corti dei principi (e dei feudatari),  presenti in quasi tutti i paesi, si amministrava la giustizia. Per questo motivo la parola “corte” ha preso anche il significato di foro, di consesso giudicante.

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[6]

Il proverbio, nelle due versioni, è stato registrato da G.B. Marzano per il circondario di Laureana. (Vedi: Opera Citata,  pag. 171 e 172)

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La faida è la vendetta privata che, secondo il diritto germanico antico, l’offeso aveva il dovere di compiere contro l’offensore. E’ stata riconosciuta e regolata nella legislazione barbarica  dalla legge detta “del taglione” basata sul  principio “occhio per occhio, dente per dente ”. La faida come “legge del taglione” fu mandata in disuso grazie all’influsso esercitato sui barbari dalla civiltà romano-cristiana.
Pietro Calà Ulloa (Vedi: Della sollevazione delle Calabrie contro i francesi, Roma, 1875, pag. 36) racconta che in alcuni paesi della Calabria c’era la “malvagia usanza” di conservare la camicia insanguinata dell’ucciso per poi mostrarla al figlio e, raggiunta la maggiore età, spingerlo a vendicare il genitore. L. Lombardi Satriani  (Vedi : Il ponte di San Giacomo, Milano 1982, pag. 336)  sostiene che “il fatto che la comunità crede che la voce dello spirito e la memoria del sangue reclamino vendetta, può essere visto come strumento culturale attraverso cui si obbliga l’individuo a comportarsi in modo conforme alla tradizione”. In Calabria le faide più cruenti (e più recenti) sono quelle che hanno insanguinato  Palmi, Guardavalle, Ciminà, Seminara, Taurianova,  Crotone ed Archi di Reggio.

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Il  vocabolo “malandrinu” non è registrato  dal Rohlfs nel suo “Nuovo dizionario dialettale della Calabria” ma  è riportato in altri vocabolari (vedi: Marzano,  Misitano, ecc.). Qui è usato nel significato di malvivente. In sostanza  col termine “malandrinu “  inizialmente fu  definito il semplice e povero ladruncolo di paese  e, in qualche caso, ma solo in senso traslato,  l’uomo furbo e il donnaiolo (vedi Marzano, ad vocem). Successivamente si volle indicare il giovane “di rispetto” e, quindi,  chi, successivamente, sarà definito  “ ‘ndrànghitista”. Per l’ origine del termine  “ ‘ndrànghita” rimando all’interessante e completo studio storico-glottologico di Paolo Martino. (vedi : P. Martino: Per la storia della ‘ndrànghita, Roma, Biblioteca di ricerche linguistiche e filologiche del Dipartimento di studi glottoantropologici dell’Università “La Sapienza”, 1988).

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