'U ventu sparti

La famiglia

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di  Umberto Di Stilo

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La famiglia è una  “società naturale” i cui componenti sono legati tra loro da vincoli di parentela.

Già nel III secolo, Erennio Modestino, giureconsulto romano, definisce la famiglia “consortium omnis vitae”[1]  (letteralm.: comunanza di tutta la vita) mentre Cicerone, nella sua orazione Dei doveri sostiene che dalla famiglia,  -“principium urbis et quasi seminarium reipublicae” (letteralm.: è origine della città e vivaio della repubblica)-  ha origine lo Stato.  Sicché mentre la famiglia ha come suo fondamento il matrimonio, lo Stato si fonda sulla cellula famiglia.

Nella società contadina la famiglia tendeva ad organizzarsi come una unità produttiva, sia esterna  -quando i suoi componenti provvedevano a portare i prodotti della campagna al mercato-  sia interna -quando i suoi componenti si dedicavano alla preparazione dei cibi, alla tessitura ed alla preparazione della “dote” da dare alle figlie, ai lavori domestici-.

Questa era la famiglia patriarcale nella quale i poteri, in maniera gerarchica, erano accentrati dal vecchio paterfamilias che sovraintendeva a tutte le attività e curava la distribuzione dei ruoli e dei compiti.

Condizione indispensabile perché una famiglia prendesse forma e consistenza, oltre ai due coniugi, era il domicilio. Cioè la casa, il “loco”.[2]

E, soprattutto nella società contadina,  il termine “loco”, nella parlata popolare calabrese, per parecchio tempo,  è stato sinonimo di famiglia.

Infatti, quando veniva affermato che

                       cu’ non’avi focu
                               non’avi locu

 si voleva intendere che non può assaporare i piaceri della casa e dell’affetto chi non ha famiglia.

Il significato del proverbio non cambia se, come in diversi paesi avviene sovente, vengono invertiti i termini “focu” e “locu”.

Infatti c’è pure  chi ricorda che

                       cu’ non’avi locu
                               non’avi focu.

In questo caso è il termine “focu”, cioè il “fuoco”,  che assume il significato di famiglia.

A tal proposito è il caso di ricordare  che per molti secoli proprio il termine “fuoco” fu sinonimo di famiglia tanto che nei censimenti  si contavano i “fuochi” (dai quali, volendo, si risaliva al numero degli abitanti) e non, come adesso, le singole persone. L’imposta più diffusa fu proprio quella del “focatico”. [3]

In questa seconda versione il proverbio sostiene (e non senza fondamenti di verità) che non ha stabilità  e tranquillità la persona che non ha provveduto a crearsi una famiglia.

Ovviamente il riferimento è agli uomini giacché in una società maschilista come quella contadina, la donna viveva una condizione di totale subalternità e non ha mai avuto potere decisionale, né prima né dopo il matrimonio che, quasi sempre, non costituiva una sua libera scelta, ma le era imposto dai genitori [4] che, non di rado, sceglievano il “marito” da dare alla figlia quando questa era ancora in fasce o, comunque, ancora bambina. Il matrimonio non era, pertanto, l’espressione di una libera scelta, ma una imposizione paterna, frutto di calcoli di opportunità finalizzati  più che all’ampliamento della parentela al consolidamento ed all’accrescimento dei beni immobili familiari, del patrimonio, o della “robba”.

Forse anche per questo il proverbio sottolineava che

                        maritu e figghi
                               comu Ddiu ti manda
                               ti li pigghi.
                                                    (Galatro)

Sicché ogni giovane donna, anche se in cuor suo era contraria al matrimonio, non poteva opporsi alla volontà dei genitori.  E andava a nozze perché sin da bambina le avevano ripetuto che

                        ‘a fimmana senza statu
                                è com’ ‘u pani senza levatu
 
                                                       (Galatro)

assai discutibile preconcetto che aveva, come esatto contrario,  un altro proverbio col quale, nella spicciola cultura popolare, faceva il paio:

                         ‘a fimmana maritata
                                 è di tutti rispettata.
                                                          (Galatro)

E, quasi a completare quello che era un vero e proprio lavaggio del cervello, contribuiva anche il proverbio col quale si affermava che

                           ‘a fimmana maritata
                                   è misa all’onuri d
u’ mundu
                                                           (Galatro)

dal momento che col matrimonio la donna si integrava nella collettività ed acquistava quella dignità e quella indipendenza che non le erano riconosciute da nubile, quando il solo fatto di essere signorina (e, quindi, “figlia di famiglia”) la abbassava al rango di parassita.

Da sposata una donna faceva conoscere le proprie capacità e, collaborando col marito nella conduzione amministrativa della famiglia, non di rado, riusciva a mettere in luce quelle qualità che le facevano guadagnare stima ed ammirazione da parte della famiglia e, soprattutto, anche da parte della comunità.

Ciononostante, la moglie, per un atavico principio che attribuiva all’uomo ogni  autorità ed ogni potere decisionale, era destinata a vivere appartata, all’ombra del marito,  intenta solo ad allevare i figli, e solo raramente le veniva consentito di  presenziare alle discussioni che, per motivi di affari o di lavoro, gli uomini della famiglia avevano con amici e conoscenti.

Soltanto alle donne appartenenti a famiglie delle classi meno abbienti  era consentito sedere a tavola insieme al marito, quando in casa erano presenti ospiti forestieri.[5]  

La contadina calabrese aveva solo doveri. I diritti erano concessi tutti all’uomo. Era costretta, dunque, a vivere sottomessa ed oppressa dal marito che, menando vanto dell’obbedienza totale della moglie, per incapace che fosse,  con un malcelato pizzico d’orgoglio sosteneva

                            cu’ nuju pozzu
                                    cu’ mugghierima pozzu

oppure:

                            a nuju pozzu
                                    a mugghierima’a pozzu.
                                                              (Galatro)

E la massima, nell’uno e nell’altro caso, testimonia e documenta l’esagerato  concetto di obbedienza che gli uomini della civiltà contadina pretendevano dalle loro mogli.

Nella famiglia rurale, pertanto,  dettava legge  l’uomo, il capofamiglia, per cui era considerata sfortunata la casa in cui anche la donna avesse diritto di parola ed esprimesse liberamente il suo pensiero. Si diceva, infatti.

                            amara chija casa
                                    aundi canta ‘a gajina.

 E la donna quando aveva diritto di parola? Praticamente mai, a dar credito alla massima secondo cui

                             ‘a fimmana avi a parlari
                                     quandu piscia ‘u gaju.
                                                         
  (Galatro)

Ma, come in tutte le cose, siamo all’iperbole giacché nei momenti più delicati della vita familiare, proprio i suggerimenti delle donne, quasi sempre, risultavano i più saggi ed i più ponderati e consentivano di giungere alla sospirata soluzione dei problemi.

Certo è, comunque, che il capofamiglia dei proverbi è burbero, è duro, è  “padrone” e, come tale, pretende la cieca obbedienza da parte di tutti i figli, anche quando questi hanno raggiunto la maggiore età e, magari, hanno già aperto una famiglia propria. Ma, nella famiglia patriarcale, nessuno si sognava di discutere e di mettere in dubbio l’autorità paterna. Dunque nella sua stringatezza è assai chiaro il proverbio che ci ricorda che ai quei tempi il genitore era un vero

                              padre padrone

 e che, come tale, doveva essere riverito e ossequiato.

La presenza dell’uomo-capo famiglia dava sicurezza e tranquillità alla casa e la nobilitava, più di qualsiasi blasone.

Si diceva, infatti, che la

                              casa chi non avi omu
                                      non avi nomu

oppure:

                              casa senza omu
                                      casa senza nomu.

 Il casato prendeva il nome  dell’uomo. Per questo c’era chi ricordava che

                            l’omu avi ‘u nomi.

 All’uomo, però, venivano riconosciute anche altre doti. In effetti oltre a provvedere al necessario per assicurare la tranquillità economica alla famiglia ed a tramandare il nome del casato  mediante gli eredi,  l’uomo conferiva  dignità alla famiglia dimostrando dedizione al lavoro e tenendo un  esemplare comportamento sia  in casa che in seno alla comunità.
 

 ***

*

<<La famiglia>> è parte della relazione <<'U ventu sparti - NORME GIURIDICHE NEI DETTI E NEI PROVERBI CALABRESI>>, tenutasi il 25 aprile 1994 a Mongiana, durante il IX Convegno su "LA NOSTRA LINGUA", ed è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "'U ventu sparti", Edizioni ACRE - Associazione Culturale Ritorno Emigrati - Mongiana (Vibo Valentia) 1995

[1]

Vedi: De ritu nuptiarum, libro 1°.

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[2]

Nell’antichità classica  il “lucus “ (come domicilio domestico) era considerato sacro. Non manca chi, estensivamente, per loco  intende anche “paese”. Il detto  “cui muta locu, muta ventura ”, infatti, a Galatro è ancora usato nel significato di  “chi cambia paese cambia condizione”.

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[3]

Per moltissimi anni, l’imposta famiglia si chiamò “focatico”  (dal latino medievale  “focàticum “). Mediamente, ogni fuoco corrispondeva ad una famiglia composta da cinque persone.

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[4]

Volendo approfondire questi aspetti, Vedi: U.  Di Stilo: Le stagioni della vita , Mongiana, 1994, pag. 59 - 90.

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[5]

Vedi: Galanti: Della descrizione geografica e politica della Sicilia - vol.  2°- (a cura di Assante e De Marco), Napoli, 1969, pag 243.

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