Avvocati

 

da

'U ventu sparti

di Umberto Di Stilo

 

A dar retta a quanto i nostri antenati ci hanno tramandato con le loro massime, c’è da dedurre che gli avvocati, nella società contadina,   non godessero di grande stima e, quindi, di fiducia.

Vero è che gli studi legali erano frequentati soltanto quando bisognava affrontare e risolvere casi gravissimi, ma è anche vero che i nostri antenati avevano poca fiducia di quelle persone a cui bisognava confidare tutti i segreti, che parlavano citando continuamente leggi e che spesso, pur sapendo di essere di fronte a persone analfabete, non disdegnavano di ricorrere  all’uso di intere frasi latine.

A tal proposito è ancora ricordata la massima secondo cui

quandu i ciucci parlanu latinu
        è signu ‘i mal’annata.

                                    (Galatro)

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Da questi avvocati i nostri antenati  cercavano di stare il più possibile lontani. E non solo per scaramanzia.

E’ il caso di ricordare, però, che nelle piccole comunità contadine difficilmente viveva un avvocato giacché per trovarlo era necessario andare nei centri più grandi. In quelli dove operava il Tribunale e l’Assise, ma anche nei paesi che, essendo sede di circondario, operavano le Preture. Gli avvocati, insomma, erano immaginati come persone molto lontane dalla quotidiana realtà sociale dei paesini e delle piccole comunità contadine; erano persone “istruite” che vivevano in grandi palazzi, e con le quali era costoso parlare o rivolgersi per un consiglio. Da qui l’alone di sfiducia che, spesso, presso i nostri antenati, accompagnava l’immagine dell’avvocato.

A discreditare ancor di più la figura dell’avvocato hanno contribuito notevolmente gli “avvocatucoli”, i tantissimi “azzeccagarbugli”, tutti quegli operatori di giustizia, cioè, che, dotati di buona eloquenza e grazie alla loro  approssimata e molto superficiale conoscenza delle più elementari norme di diritto (soprattutto di quello consuetudinario), riuscivano a lavorare ed avevano una buona clientela che, pagando quasi sempre in “natura”, consentiva loro di portare avanti in maniera decorosa la spesso numerosa famiglia.

Erano persone che  -pur non avendo una laurea né un titolo di studio superiore- si occupavano di tutte quelle piccole vertenze civili  pendenti davanti al  “giudice conciliatore” che, fino ad alcuni lustri addietro,  operava in tutti i piccoli centri.

Si trattava, quasi sempre, di piccole vertenze per patti non mantenuti, per debiti non onorati o per qualche  sconfinamento di gregge nei pascoli o nelle proprietà altrui.

L’opera assai approssimata e poco professionale di quei volenterosi operatori legali di periferia, ha contribuito  in maniera determinante a generare quella poca fiducia che, in passato, i nostri antenati hanno sempre dimostrato di nutrire nei confronti degli avvocati.

Comunque, quale che sia la genesi del loro convincimento, nella civiltà contadina si è sempre sostenuto che gli avvocati sono animali famelici, affamati di soldi e, come tali, sempre pronti a spremere il malcapitato cliente.

Convincimento che dura nel tempo se, ancora oggi, quasi come avvertimento ed al fine di evitare sgradite sorprese, è possibile incontrare chi con convinzione  ripete:

abbocati
surici affamati.

 Alla “insaziabilità” di questi professionisti che pretendono compensi così onerosi da dissanguare completamente il malcapitato cliente, si riferisce anche la massima

cu’ vaci  all’abbocatu
perdi  l’urtimu ducatu.

                                                                          (Galatro)

E non è finita. Non manca, infatti, chi, in modo assai più esplicito, asserisce che

l’abbocati sugnu latri di tavulinu

                                                                         (Candidoni)

e chi, volendo quasi  giustificare il loro operato, sostiene che

l’abbocati su’ latri voluti d’a leggi

                                                            (Galatro, Candidoni)

il che, nel ritenere “legalizzata” la sete di denaro dell’avvocato, sia pure in maniera indiretta, di fatto accusa le istituzioni che consentono simili comportamenti.

Al di là delle loro esose “parcelle”, comunque, agli avvocati  veniva riconosciuta la grande abilità di  “imbrogliare” così bene le carte e le vicende processuali  da far vincere la vertenza a chi, di fatto, avrebbe dovuto perderla.

Forse i nostri antenati definendo “imbroglioni” gli avvocati intendevano sottolineare la loro poca affidabilità; in verità essi,  inconsapevolmente, hanno formulato il più bel riconoscimento professionale sostenendo che

l’abbocati su’ tutti ‘mbrogghiuni
a cu’ hava tortu ‘nci dannu raggiuni.

Non è forse vero che le capacità di un avvocato emergono proprio dall’abilità che dimostra ogniqualvolta è necessario confondere ed imbrogliare la vicenda al fine di riuscire a tutelare gli interessi del suo assistito?

Non sempre, però, è sufficiente avere abilità oratoria per concludere vittoriosamente un processo. Anche per i più bravi avvocati c’è la giornata nera o il processo sbagliato. Sicchè                  

ogni abbocatu perdi a causa sua

                                                          (Galatro, Candidoni)

o, come nella variante registrata da G.B. Marzano: [1]

ogni avvocatu ‘ncausa sua si perdi

che, riteniamo, sarebbe troppo restrittivo pensare che si voglia riferire solo agli “abbagli” in cui l’avvocato può incorrere allorché, lasciandosi “trascinare dagli interessi e dai sentimenti”,  gli capita di discutere una sua  “causa personale” [2].

Secondo l’interpretazione popolare, infatti, quel  “ ‘ncausa sua” non è da intendere come sua personale, ma come una delle tante che a lui sono state affidate e che, da serio professionista, ha considerato sua e come tale l’ha affrontata in dibattimento, davanti ai giudici. Ogni uomo può sbagliare. Anche l’avvocato, in momenti poco fortunati o in procedimenti complessi,  può  vedersi sopraffare dalle argomentazioni altrui. Questa, a nostro giudizio, la morale della massima .

Ciononostante, la fiducia che riponevano nelle capacità oratorie del bravo avvocato, non conosceva limiti se c’era chi, in maniera convinta, affermava che

a manu d’abbocatu
non si perdi causa

                                                                          (Galatro)

quasi che l’andamento e l’esito processuale dipendesse esclusivamente dalla  presenza fisica del difensore e non piuttosto dalla sua bravura e dalla serietà professionale con la quale affrontava il processo.

Certo è, comunque, che ad ogni processo,  ieri come oggi, era l’avvocato a dare  una precisa connotazione; connotazione che cambiava in base alla preparazione ed alla personale interpretazione del difensore.

Anche per questo si sosteneva che

ogni testa fa’ codici,

                                                                                 (Galatro)

massima con la quale veniva sottolineata la libertà interpretativa dei fatti e la diversa capacità difensiva degli avvocati. Concetto che viene rafforzato dalla variante:

ogni testa fa’ codici
e tanti codici ‘nu tribunali.

                                                                                 (Galatro)

Quale che fosse la preparazione e la capacità professionale di un avvocato, perché tutto si concludesse bene era necessario aprirsi con il professionista scelto come difensore e raccontargli tutto. Per questo si è sempre detto che quando si parla al proprio difensore bisogna usare la stessa sincerità che bisogna avere  quando si è inginocchiati davanti al proprio confessore  o, ancor meglio, del delicato momento che si vive quando si indicano al medico curante tutti i sintomi del proprio malessere.

Così come col confessore e col medico, dunque, anche con l’avvocato non dovevano esserci segreti.

Infatti, suggeriva l’antico saggio:

a medicu, cumpessuri e abbocatu
no’ teniri nenti ammucciatu. [3]

                                                                             (Galatro) 

***

N O T E

*

<<Avvocati>> è parte della relazione <<'U ventu sparti - NORME GIURIDICHE NEI DETTI E NEI PROVERBI CALABRESI>>, tenutasi il 25 aprile 1994 a Mongiana, durante il IX Convegno su "LA NOSTRA LINGUA", ed è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "'U ventu sparti", Edizioni ACRE - Associazione Culturale Ritorno Emigrati - Mongiana (Vibo Valentia) 1995

[1]

Vedi: G.B. Marzano: Proverbi in uso nel Mandamento di Laureana di Borrello,  in SCRITTI, vol. III,  Laureana,1931, pag. 272.

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[2]

Vedi:  E. Zimatore:  Proverbi giuridici calabresi, Catanzaro 1983,   pag. 48.

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[3]

Vedi:  U. Di Stilo: Aforismi, massime , proverbi, modi di dire relativi a Fiere, Mercati, arti, mestieri e professioni, Mongiana, 1991, pag. 71/72.

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