il mio Natale

di Umberto Di Stilo

U ‘ncantatu d’a stija
 

Vedi foto Presepe: U ‘ncantatu d’a stija

     S arvaturi..... Sarvaturi.....- Chiamò con voce decisa il Fiduciario[1] dall'interno dell'aula, dov'era seduto dietro la cattedra. 

- Sarvatureju.... - Gridò, dopo qualche minuto, scandendo bene il nome. Ma, vedendo che, contrariamente al solito, il bidello non si presentava con quel suo rispettoso “agli ordini!”, espressione che sapeva di una non sopita subordinazione militare, tenendo ben strette nella mano alcune carte che aveva appena finito di scrivere e con gli occhiali poggiati sulla punta del naso, si alzò e, raggiunta la porta che dall'aula dava nell'androne d'ingresso dell'edificio, chiamò altre due-tre volte, mentre i suoi alunni, tra i banchi, ne approfittavano per punzecchiarsi vicendevolmente.

A quell'ora, nelle varie classi, -anche se l'atmosfera festaiola che precede le vacanze natalizie si avvertiva in ogni aula e in tutti gli alunni - i ragazzi erano già impegnati nelle prime attività didattiche della giornata. Per questo in tutto il plesso regnava il massimo silenzio e nel corridoio non  era ancora iniziato il viavai  dei bambini che, spesso con la scusa di doversi recare al bagno, chiedevano di allontanarsi temporaneamente dalle aule più per sgranchirsi le gambe che per soddisfare reali ed impellenti necessità fisiologiche.

           Salvatore[2] era uscito. Il Fiduciario lo apprese dal collega dell'aula accanto che, sentendolo ripetutamente ed insistentemente chiamare, si premurò a farglielo sapere. In effetti, il bidello, da pochi minuti aveva lasciato l'edificio scolastico per raggiungere la vicina chiesa parrocchiale dedicata a San Nicola di Bari, patrono del paese. 

Natale ormai era alle porte e doveva affrettarsi a completare il grande presepe che stava realizzando nell’abside.

Il più, ormai, era fatto, ma prima di sistemare i pastori lungo le stradine che con notevole pendenza scendevano dalle montagne per convergere tutte verso la grotta, voleva parlare con il parroco. A lui aveva deciso di chiedere consiglio per la individuazione del posto più indicato a collocare la bella  statuina in cartapesta che effigiava “‘u ncantatu d’a stija”. Questo originale personaggio che nella tradizione artistica italiana, insieme al cacciatore-brigante, caratterizza il presepe calabrese, non figurava più nella scena paesaggistica che in occasione del Natale veniva realizzata nella chiesa galatrese da quando, verso la fine degli anni quaranta, (insieme a tanti altri pastori di pregevole fattura artistica) era andata in frantumi la bella e grande scultura in terracotta che, opera di un fiorente artigianato calabrese dell'ottocento, ritraeva “ ‘u ‘ncantatu”  nel tipico costume dei mandriani.

Salvatore, dopo tanti anni, aveva pensato di colmare la lacuna mettendo sul presepe una statuina che aveva appositamente comprato qualche settimana  prima in un negozio di Torre del Greco, cittadina nella quale si era recato per far visita ad alcuni parenti. Questa nuova figurina di cartapesta era molto più piccola di quella legata al ricordo della sua infanzia e che compariva nei presepi che, con pazienza certosina e grande gusto artistico, allestiva personalmente l'arciprete Marazzita che, in alcune occasioni, si era avvalso solo dell'aiuto del fratello Carmelo. A quest'ultimo, abitualmente, era affidato l'esclusivo compito di accompagnare i canti e di sottolineare i momenti più salienti della liturgia, suonando quel seicentesco organo a canne che, sin dagli anni immediatamente successivi al terremoto del 5 febbraio 1783, i fedeli galatresi erano  abituati a vedere  sulla cantorìa.

Salvatore, teneva molto alla buona riuscita delle manifestazioni religiose organizzate in parrocchia. Era lui che si occupava della confraternita, dei riti della settimana santa, delle processioni, delle messe cantate e delle campane. Quando glielo chiedevano, al centro della navata, provvedeva pure a montare un catafalco funebre,[3] coperto da drappi di velluto nero con dipinti teschi e tibie incrociate, col quale si riteneva di dare maggiore pompa alle messe di suffragio che, in occasione dei trigesimi o degli anniversari della morte di questo o quel parrocchiano, venivano officiate in chiesa.

Adesso, compiendo un gesto di generosità, aveva regalato alla Chiesa la statuina del cosiddetto “ ‘ncantatu d’’a stija”. Un regalo che andava al di là dell'atto di amore per la sua chiesa volendo esso rappresentare il ripristino di una tradizione che concretizzava quell'ideale legame all'infanzia che nessun prete aveva mai provveduto a riattivare. Salvatore, adesso, voleva che fosse il parroco a indicargli il punto esatto del presepio ove conveniva sistemare la nuova statuina perché, proprio lui,  il dotto sacerdote,[4] appena l’aveva vista, si era lasciato andare in .un discorso ricco di riferimenti culturali dei quali, nonostante il povero bidello-sagrestano avesse capito molto poco, era rimasto enormemente affascinato. 

Era risaputo, d'altra parte, che quando parlava il parroco, uomo di profonda e vasta cultura oltre che apprezzato poeta, tutti restavano incantati dalla sua arte oratoria, ricca di intonazioni e sfumature tonali, e strutturata da un linguaggio semplice ma impreziosito da innumerevoli citazioni letterarie. Sentendo i suoi discorsi (e, ogni domenica, le sue omelie) Salvatore restava incantato e stupito dalle espressioni che, prima di interessare le menti, toccavano il cuore di tutti quelli che ascoltavano. Proprio per la sua facilità di parola e per la sua profonda preparazione il parroco, sin da giovane, aveva tenuto il pulpito di moltissime chiese calabresi.

Salvatore rimase a bocca aperta anche quando, alla semplice visione della statuina che raffigurava “‘u ‘ncantatu d’a stija” l'arciprete, come se leggesse una pagina di libro, gli spiegò cosa essa significasse all'interno di tutta la simbologia presepiale. 

Seguiva con attenzione ma, nonostante cercasse di memorizzare tutto, alla fine capì soltanto che quel pastorello era importante e che ad esso spettava un posto di preminenza nel presepio. Si, ma quale? Dove bisognava sistemarlo per non sminuirlo di prestigio?

Queste domande Salvatore se le stava ponendo ormai da diversi giorni, ma ad esse non era ancora riuscito a dare precise ed esaurienti risposte.

Quella mattina, alla chetichella, aveva lasciato  la scuola perché, dopo essersi arrovellato il cervello per tutta la notte, voleva che fosse proprio il parroco a fugargli ogni dubbio.

Quando arrivò in piazza, vide che la chiesa era già chiusa. Salì ugualmente i nove gradini di granito e, quando fu davanti al ligneo portale, mise la mano nella tasca posteriore dei pantaloni, prese la chiave e, come se fosse spinto da una forza misteriosa, la infilò nella toppa ed aprì.

Entrò in chiesa e in un attimo fu davanti al presepe che occupava buona parte dell’abside e impediva la visione di tutta la parte inferiore del monumentale trittico marmoreo che da un paio di secoli costituisce l’altare maggiore della parrocchiale.

Ammirò le montagne che con tavolette di varia dimensione aveva realizzato sullo sfondo, guardò i paesetti che aveva ottenuto sistemando una accanto all'altra le casette ricavate da scatoli di sciroppi per la tosse a cui, per simulare i tetti, aveva incollato pezzetti di cartone ondulato opportunamente pitturato di rosso; osservò attentamente il letto del fiume che scendeva in fondo alla valle e scorreva nella pianura passando accanto alla grotta della Natività; guardò a destra ed a sinistra ma non seppe decidere dove  conveniva  collocare  il  nuovo  pastore ritratto nell'atteggiamento di chi è stordito dalla luce della stella cometa.

Stette a guardare; si accorse di qualche imprecisione che si affrettò a correggere ricorrendo all'uso di grandi zolle di muschio ma, alla fine, uscì dalla chiesa con le idee sempre più confuse.

Ricordava vagamente ed in maniera ingarbugliata qualcosa di ciò che gli aveva detto il parroco e che, quasi per trovare una soluzione al suo problema,  ripeteva fra sé: - con gli occhi socchiusi, le braccia aperte, le gambe divaricate e la testa leggermente piegata all'indietro, ‘u ‘ncantatu d’a stija, più che essere rimasto folgorato ed abbagliato dalla luce è esso stesso simbolo della Luce...;  L'arciprete mi diceva che, a guardar bene, le braccia... le gambe... la testa... formano le cinque punte di una stella...  Cosa voleva dire?...  Che, forse forse, adesso ’u ’ncantatu d’a stija debba simboleggiare la stella polare?… Se così fosse,  vorrebbe significare che questo pastorello deve essere posto sopra la grotta...   O è meglio porlo  sulla parte davanti, vicino al pastore che si genuflette al cospetto di Gesù Bambino?...  Niente...  Non ho capito niente...  E’ l'arciprete che deve dirmi cosa devo fare.... come mi devo regolare...  E’ lui la mia stella...  E’ lui che mi deve  illuminare... se no, sono veramente perduto ed alla fine sarà stato inutile comprare quella bella statuina!... -

In preda a mille dubbi ed a tante incertezza, il bidello uscì dalla chiesa parrocchiale e si diresse a scuola.

 

* * *

 

 Sin da bambino Salvatore è sempre andato a servir la messa e le altre funzioni religiose. Poi, continuando a frequentare la chiesa con assiduità, da adulto fu “promosso” sagrestano, mansione che ha sempre svolto con impegno, tanto che spesso meritava gli elogi e gli apprezzamenti del parroco.  Specie a  conclusione delle più solenni funzioni dell'anno liturgico, in occasione delle quali, con la sua voce baritonale, intonava il “Te Deum” o qualcuno di quei canti gregoriani coi quali, abitualmente, si era soliti sottolineare i momenti più salienti delle varie celebrazioni.

Per lui i genitori sognavano un tranquillo avvenire di artigiano. Per questo anziché accettare i consigli del parroco Marazzita, che per il suo chierichetto suggeriva gli studi in seminario, preferirono mandarlo ad apprendere l'arte del calzolaio. 

Ma Salvatore non riuscì mai ad emergere in questo mestiere e, contrariamente a quello che facevano molti altri artigiani del settore, si è sempre dovuto accontentare di effettuare solo piccole riparazioni.

Come ciabattino, comunque, il lavoro non gli mancava tant'è che per poter onorare i numerosi impegni, anche quando era in servizio a scuola, impiegava il  suo tempo procedendo alla risuolatura o alla semplice riparazione dei tacchi delle scarpe che gli affidavano i suoi clienti.

A tale scopo, in uno sgabuzzino del plesso di Via Regina Margherita, protetto dagli sguardi dei curiosi da alcune vecchie carte geografiche e da due lavagne in disuso opportunamente sistemate dietro una vetrata,  si era ricavato un laboratorio artigianale così piccolo che a mala pena entrava lui ed il suo deschetto, su cui facevano bella mostra un paio di trincetti, un martello, una lesina, un gomitolo di spago, alcune confezioni di cera, scatole di lucido, due o tre spazzole, diversi pezzi di cuoio e ritagli di pellame, un tubetto di mastice e i contenitori di quegli speciali chiodini - i simiggi - che i calzolai usano in varie lunghezze.

Nel tiretto del deschetto teneva custoditi vari aghi, un ciuffo di setole e diversi piccoli utensili. Là dentro infilava anche le cartoline che il Fiduciario e tutti gli altri insegnanti indirizzavano ai genitori degli alunni inadempienti all'obbligo scolastico e che lui, distratto com'era, ometteva regolarmente di imbucare. Una volta, per un caso fortuito, gliene trovarono oltre un centinaio. Fu, finalmente, spiegato il mistero della generale insensibilità dei genitori,  ma Salvatore non seppe mai dare una spiegazione sulla mancata spedizione di tutte quelle cartoline di diffida.

Per terra, ai lati della sua seggiola, erano ben visibili alcune forme di legno ed altri attrezzi e ferri del mestiere mentre sulle pareti aveva provveduto ad incollare una infinità di cartoline illustrate, tantissime immaginette di santi e un grande manifesto elettorale riproducente una pala con tre spighe,  simbolo che la lista del sindaco in carica aveva preso in prestito dalla Coldiretti.

All'interno di questo sgabuzzino trascorreva diverse ore al  giorno, perché a scuola, col  tacito  consenso di tutti,  -insegnanti  e direttore per primi- aveva realizzato una vera e propria  succursale della bottega che teneva aperta nell’ampio basso della casa presa in fitto poco prima di contrarre matrimonio con Anna, la prosperosa ragazza napoletana conosciuta al rientro dalla prigionia.

Come “reduce” del secondo conflitto mondiale, Salvatore era stato assunto dal comune per assolvere alle mansioni di bidello.

Inizialmente, però, la giunta gli aveva affidato solo l'incarico di manutentore del pubblico orologio, occupazione che lo obbligava a recarsi in municipio una volta al giorno per provvedere a caricare quella gran pendola che, allora, scandiva il tempo a tutti i cittadini e che, oltre a suonare, ogni 15 minuti,  le ore ed i quarti d'ora, essendo collegata elettricamente ad una sirena, la mattina alle otto avvertiva i ragazzi che era ora di recarsi a scuola, a mezzogiorno faceva sentire il suo acuto suono per segnalare agli operai l'interruzione occupazionale per la consumazione del  pranzo e, puntualissima, risuonava un'ora più tardi per avvertirli che era giunto il momento di riprendere l'attività lavorativa. 

Salvatore era orgoglioso di quell'incarico. Il fatto di avere le chiavi del municipio e di poter entrare in qualsiasi momento della giornata, gli dava una intima soddisfazione. Si compiaceva, poi, fino a non riuscire a nascondere la sua fierezza, quando i vigili, qualche amministratore o qualche impiegato, per motivi di estrema urgenza, erano costretti a chiedergli il favore di andare ad aprire la casa comunale.

Successivamente, dopo la morte di Vincenzo  Mazzitelli, da tutti conosciuto come “Vicenzu Petrusinu”, gli fu affidato anche l'incarico della pulizia delle scuole. Anche se quello del bidello era da tutti considerato un lavoro molto umile, per Salvatore è stata una vera promozione, un riconoscimento al suo senso del dovere ed al suo grande amore per il lavoro e per la famiglia. L'impegno era gravoso e non sempre riusciva a provvedere alle pulizie dei tre plessi scolastici, a cui, nelle ore pomeridiane, spesso si aggiungeva anche il municipio.

Nel periodo invernale, facendosi aiutare dalla moglie e dai giovanissimi figli, andava a scuola molto prima che arrivassero i maestri e gli alunni e si affrettava a preparare i bracieri coi quali, poi, si sarebbero dovute riscaldare le aule. In verità servivano a scaldare principalmente gli insegnanti, specie i più anziani che se li facevano mettere sulla predella, anzi proprio sotto la cattedra, perché potessero sentir meglio il caldo alle gambe ed alle estremità, sempre gelate.

Anche quella mattina Salvatore preparò i bracieri. Prima approntò quelli che servivano per le aule del plesso di Via Regina Margherita e poi, con le mani ancora sporche di carbone, salì in piazza a preparare i due bracieri necessari a riscaldare le altrettante aule che erano state ricavate nella  vecchia “casa del Fascio”. Il figlio e la figlia, invece, avevano il compito di  preparare i bracieri necessari alle aule del plesso di Via Diaz nel quale, tra gli altri insegnanti, prestava servizio anche il giovane sindaco.

In tutti e tre gli edifici altri alunni frequentavano le lezioni del turno pomeridiano ed il bidello, nell'intervallo tra le dodici e mezza e le tredici e mezza, doveva provvedere ad aprire le finestre per favorire il ricambio dell'aria, doveva mettere a posto le aule e, soprattutto, doveva ravvivare il fuoco di tutti i bracieri in maniera che anche i ragazzi del secondo turno potessero lavorare in ambienti un po' riscaldati.

Salvatore, insomma, era a disposizione della scuola dalla mattina alla sera. Non per questo, però, ebbe mai a lamentarsi. Anzi, facendo ricorso alla vecchia filosofia delle passate generazioni, amava ripetere che “u pani è caru a godagnari ma è cchiù caru a manteniri” e lasciava chiaramente intendere che, per assicurare il necessario alla famiglia, era disposto a fare qualunque sacrificio pur di mantenere il posto di lavoro. Per il quale ringraziava sempre il Padreterno che, con la sua infinita bontà, lo “aveva provveduto”.

L'avvicinarsi del Natale rendeva impaziente Salvatore. Pensava ai suoi impegni di lavoro, ma a preoccuparlo di più era il presepe. Oltre a dover ultimare quello della chiesa, infatti, doveva pensare a quello che, su un vecchio tavolo da cucina, come ogni anno, gli toccava realizzare in un angolo della sua bottega e per il quale ancora non aveva preparato neppure il materiale. Il presepe di casa lo doveva assolutamente fare per non interrompere un'antica tradizione di famiglia, per esternare una Fede assai radicata ma, soprattutto, per far felici i suoi giovanissimi figli Peppe ed Immacolata che, attraverso il presepe, riuscivano a sentire l'intima gioia della festa natalizia ed a recepire il suo messaggio spirituale.

 

* * *

 

 - Ma dove sei andato a finire, stamattina? E’ da un'ora che ti cerco. No, no e poi no!...  Così non è possibile andare avanti... Mille volte ti ho detto che se esci mi devi dire dove vai... non perché ti voglio controllare ma perché potrei avere bisogno di te... Invece tu vai a sbrigare le tue cose e lasci l’edificio incustodito. Benedetto Iddio...  a chi sei andato a consegnare le scarpe con tanta urgenza, stamattina?...  Tu scherzi col fuoco,  Salvatore... approfitti della nostra bontà... ma tutto ha un limite....    Tutto ha un limite, capisci?... -

Dal modo col quale ha accolto il bidello al suo rientro a scuola, il Fiduciario, quella mattina, sembrava veramente nero. Il tono della voce era alto e mentre parlava, come un direttore d'orchestra, gesticolava con la mano destra, quasi a sottolineare quelle parole che volevano sembrare di rimprovero ma che, in sostanza, davano forma e consistenza al solito affettuoso richiamo col quale, da anni, cercava di fare notare al bidello il giusto modo di operare. 

Il Fiduciario aveva il cuore più buono del pane e, per sua indole, non concepiva il male e il sentimento dell'odio. Ma non guardava in faccia nessuno ogniqualvolta c'era da difendere e tutelare la dignità e la serietà della scuola.

 - La scuola è la scuola. - diceva -  Essa deve essere maestra di vita per i piccoli alunni che la frequentano; questi, però, devono trovare concreti riferimenti e positivi modelli di vita da imitare in tutti quelli che operano al suo interno, bidello compreso, sant'Iddio!...  -

Salvatore sapeva benissimo che a scuola sia il Fiduciario che gli altri insegnanti lo richiamavano solo quando non potevano farne a meno, ma lo facevano perché, in fondo, lo consideravano un amico; gli volevano bene e lo ammiravano per la sua disponibilità e, soprattutto, per quel suo attaccamento alla famiglia ed al lavoro.

I pavimenti non erano pulitissimi? E come si poteva pretendere che lo fossero se dalle otto di  mattina al tardo pomeriggio le aule erano occupate dalle numerose scolaresche!

Spesso, di sua iniziativa, sostituiva con un pezzo di compensato il vetro che i bambini avevano rotto giocando al pallone nel cortile della scuola?  Si giustificava che ad aspettare che andasse a sostituirlo il falegname-vetraio, sarebbero passati diversi giorni. E parlava con un candore così disarmante che nessuno aveva il coraggio di fargli notare che stava sbagliando. Quando qualcuno, poi, stringendo i denti, gli rimproverava qualcosa, il bidello si mortificava così sinceramente che i suoi occhi scuri e piccoli, che quasi scomparivano sotto due ciglia nere come la pece e folte come le siepi di ligustro, prima si arrossavano e poi si inumidivano. Erano quelli i momenti in cui Salvatore, al colmo della mortificazione, si lasciava andare in quel suo “mannaja l’organi” espressione con cui, in maniera semplice e popolare, solitamente si dimostrava pentito di ciò che gli veniva rimproverato.

Anche quella mattina, alla sfuriata del Fiduciario, istintivamente, ma con il massimo rispetto, si lasciò andare nella sua esplicita locuzione. Esordì, infatti, con un - ...e mannaja l’organi!.. -  a cui fece seguire tutta una serie di scuse e di richieste di comprensione:  

- E’ stato più forte di me...-   disse, tra l'altro. Poi aggiunse subito:  - Ho sentito dentro di me una forza misteriosa che mi spingeva verso la chiesa...  non ho pensato a dirvelo, sono andato, camminando come imbambolato... Ed almeno avessi trovato l'arciprete!...  -  

- La messa  è uscita poco prima che i bambini entrassero a scuola; pensavi che il parroco stesse in sagrestia ad aspettare il tuo arrivo, la tua importante visita?- Gli rimproverò il Fiduciario. Poi continuò:  - Forse credevi che l'arciprete, essendo anche un buon organista, ti avrebbe accolto suonando in tuo onore la “toccata e fuga” di Bach o la marcia trionfale dell'Aida?…  E come no? Il personaggio era importante!... -  Poi, dopo una breve pausa, riprese:  - Ma poi, si può sapere cosa c’era di tanto urgente da comunicargli?... La verità è che da quando sei tornato da Torre del Greco sei sfasato, distratto, intontito... Sembri sempre tra le nuvole...  Salvatore si può sapere cosa ti sta succedendo?...- 

Poi, cambiando il tono della voce e tornando ad essere l'uomo buono e comprensivo di sempre, porgendogli un foglio di carta, il Fiduciario aggiunse:  - Intanto va, scappa  all'ufficio postale e trasmetti questo telegramma al Direttore.... Vuol dire che quando torni, se ne avrai ancora voglia,  riprenderemo il discorso... -

Il bidello appariva frastornato, confuso, mortificato. Capiva che aveva sbagliato, che aveva agito d'impulso e nel suo intimo se ne dispiaceva. Senza avere il coraggio di guardare in faccia il Fiduciario, prese il telegramma ed uscì dall'aula. 

 

* * *

 

Piovigginava. Le strade erano quasi deserte e le poche persone che le percorrevano apparivano infreddolite ed indaffarate.

Salvatore aprì il grande ombrello e attraversando il cortile della scuola si lasciò l’edificio alle spalle. Appena in strada, con un doppio saltello, scansò le due pozzanghere che, nonostante il breccino che periodicamente provvedevano a stendere gli spazzini, nei periodi invernali si formavano ai margini della curva e girò a sinistra per imboccare la “salita dei fumatori”.[5]

 Camminava a passi svelti ed i pantaloni, abbondantemente larghi per lui che era magrissimo, sbattendo ritmicamente a destra ed a sinistra, sembrava che da un momento all'altro potessero impastoiarlo fino a farlo cadere.

Rimuginando ciò che gli aveva rimproverato il Fiduciario attraversò la piazza e, a testa bassa, proseguì verso l'ufficio postale ove entrò e, come in preda ad una improvvisa profonda amnesia, senza proferir parola, stette fermo al centro della stanza con gli occhi fissi nel vuoto, quasi inseguisse immagini lontane o si sforzasse a distinguere qualcuno in mezzo ad una folla vociante.

L'ufficio era completamente vuoto. Dall'altra parte del banco divisorio con i tre sportellini per i vari servizi, Don Felice procedeva al controllo di un registro stando seduto davanti al telegrafo. Vedendo, però, che Salvatore era rimasto immobile ed appariva completamente assente dalla realtà nella quale si trovava, si alzò, gli andò incontro e, preoccupato per lo strano comportamento del bidello, si affrettò a chiedergli: 

-  Mastro Salvatore, vi sentite male?- 

Il bidello, richiamato improvvisamente alla realtà, scuotendo la testa in segno di diniego, disse di stare bene in salute ma di avere un assillo che da un paio di giorni lo stava rendendo nervoso e preoccupato. Poi, dopo aver dato a Don Felice il telegramma da trasmettere, gli  chiese: 

- Scusate cap'ufficio, ma al vostro paese, a San Pietro Apostolo, voglio dire, alla statuina “du’ ‘ncantatu d’a stija”, che posto riservano sul presepe?-

Don Felice, sorpreso da quella domanda, dopo un attimo di esitazione, abbozzando un sorriso benevolo, stava per fornire la sua risposta. Il bidello, però, non gliene diede il tempo e, come se avesse mandato a memoria il suo discorso, cominciò a ripetere: 

- Vedete, cap'ufficio, io so che questo pastore, insieme a Gesù, Giuseppe e Maria è il personaggio più importante del presepio; me l'ha detto l’altro giorno il nostro parroco, e io ci credo perché, lo sapete benissimo, è un uomo colto; mi ha detto pure che è più importante dei Re magi e che a lui nel presepe spetta un posto di riguardo. Si, ma quale? Io ancora non so dove bisogna metterlo. Non vorrei sbagliare, mi capite? Vorrei sistemarlo bene in vista su una montagna dello sfondo ma poi mi assale il dubbio e penso che starebbe meglio sul ponte... Decido per il ponte e subito dopo mi sembra più giusto che debba essere collocato nei pressi del pagliaio e dello stazzo delle pecore. D'altra parte un pastore deve stare vicino alle sue pecore, no?...  Quello, quindi, dovrebbe essere il posto più indicato... Voi che dite? - 

Don Felice e gli altri impiegati seguivano il discorso del bidello con curiosità. Sapevano che teneva molto alle attività parrocchiali e aveva piacere che tutto riuscisse bene. Quella mattina, però, man mano che passavano i minuti il loro iniziale interesse cominciò a sfociare prima in sorpresa e, successivamente, in sincera preoccupazione per lo stato di salute mentale dell'amico bidello-sagrestano-ciabat-tino. Cercarono di riportarlo alla realtà quotidiana chiedendogli informazioni sulla scuola e dicendogli che pochi minuti prima, a bordo di una “seicento”,  avevano visto passare il Direttore, ma lui non si scompose. Anzi continuò a intrattenerli parlando della necessità di porre in buona evidenza la statuina del caratteristico pastore intontito dal fulgore della stella.

E, sforzandosi di ricordare quanto gli aveva detto il parroco, citava il vangelo di Luca, l'angelo celeste ed il messaggio evangelico. Ma, volendo dimostrare che conosceva l'argomento, faceva una tale confusione che nessuno riusciva più a seguire il filo del suo discorso. Tutti, però, capirono chiaramente che Salvatore stava vivendo una fase di grande apprensione e di incertezza.

Fu Mastro Carmelo, il portalettere, che, con la scusa di consegnargli la ricevuta del telegramma, con molto garbo gli suggerì di tornare subito a scuola perché con l'arrivo del  Direttore il Fiduciario avrebbe potuto avere bisogno di lui.

 

* * *

 

La messa dell'aurora era appena finita. Il parroco, reggendo il calice con la mano destra e facendo leggera pressione sulla patena con la mano sinistra,  si avviò in sacrestia mentre i fedeli si attardavano in chiesa per scambiarsi gli auguri natalizi. Molti curiosi facevano ressa davanti al presepe. Tutti volevano vedere i particolari dell'opera: il fiume, le case, la grotta, la dislocazione dei vari gruppi di pastori. Tra questi il più ammirato era ‘u ‘ncantatu d’a stija, quella statuina nuova che era stata sistemata su un lieve poggio, appositamente realizzato mediante l'utilizzo di grandi zolle di muschio, proprio di fronte alla grotta. La bellezza di quel pastore, colto nell’atteggiamento di chi vuole esprimere meraviglia ma è tanto intontito dagli eventi che non riesce neppure a proferire una sola parola, non sfuggì a nessuno. Anzi, fu sottolineata da tutti i fedeli che pronunciarono parole di elogio nei confronti di chi aveva deciso il suo acquisto e nei confronti dell’ideatore ed autore del presepe.

- Prosit! - disse Mastro Salvatore rivolgendosi al parroco appena ebbe varcata la porta della sagrestia.

- Prosit! - rispose l'arciprete, e posato il calice con gesto sicuro, cominciò a togliersi la casula. Poi, dopo un attimo di silenzio, mentre sulla piazza antistante la chiesa i ragazzi facevano scoppiare le castagnole ed alcuni giovani intonavano “Tu scendi dalle stelle”, rivolgendosi al suo sagrestano, aggiunse:

- Bravo… Avete fatto un buon lavoro... Quest'anno il presepe è veramente bello. Ho notato con soddisfazione che è piaciuto anche a tutti i fedeli. Siete stato bravo anche nello scegliere il posto più idoneo per quella bella nuova statuina che ritrae “‘u ‘ncantatu d’a stija”... L'ho guardata più volte, sapete... No... non c'era posto migliore... Perché, sapete, quell'uomo, quell'umile pastore, secondo quanto si legge nel protovangelo di Giacomo... -

Salvatore non percepiva più le parole del parroco....  Da tutto il discorso aveva colto solo quanto lo riguardava personalmente... Aveva capito che la sistemazione della statuina che gli aveva fatto passare diverse notti insonni, era indovinata, giusta... Ed era più che sufficiente a farlo sentire appagato e felice. 

Per questo, senza neppure chiudere la chiesa, corse a casa per dividere con la moglie ed i figli la più bella soddisfazione della sua lunga e dignitosa vita di sagrestano. Ed era tanto ubriaco di compiacimento che non si accorse neppure dei numerosi giovani che si erano attardati in piazza a cantare "Fermaron i cieli", né di quelli che scoppiettavano le loro castagnole mentre Donna Rosina, borbottando come sempre, dava il cambio ad Assunto che insieme al figlio Gianni era rimasto a servire i clienti che avevano trascorso la nottata attorno ai tavoli del bar.

La luce del mattino cominciava ad accarezzare i tetti umidi delle case ed a far scintillare, come lame d'argento, le acque del Metramo.

* * *

 

N O T E

* Il racconto <<‘u ‘ncantatu d’a stija>> è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "il mio Natale", Edizioni Proposte 2000
[1]

 La figura del “Fiduciario” non è stata mai ufficialmente prevista dall’ordinamento scolastico. Essa, però, di fatto, è sempre esistita fino a quando, con l’entrata in vigore dei “decreti delegati”, nel 1974, la nuova normativa non ha introdotto la  figura dei “collaboratori” del Direttore Didattico (o del Preside) e, tra essi, quella del Vicario. Prima dei decreti delegati, dunque, il Fiduciario era la persona a cui, per delega, il Direttore Didattico attribuiva particolari responsabilità amministrative ed organizzative. Pur rimanendo, infatti, il “primus inter pares” degli insegnanti, nel suo plesso di servizio o nel comune di sua pertinenza, il Fiduciario, a tutti gli effetti, rappresentava il Direttore.

Per oltre un quarto di secolo nelle scuole elementari di Galatro ha svolto le mansioni di Fiduciario l’ins. Rocco Marazzita (8.9.1914 - 1.10.98), a cui si riferisce questo scritto, giacché i direttori che si sono avvicendati al vertice didattico ed amministrativo del circolo (prima quello di Laureana e, poi, quello di Giffone) lo hanno sempre ritenuto meritevole di avere riconfermata la prestigiosa delega.

Vedi anche I personaggi: Il Fiduciario - di Carmelo Cordiani
 

[2]  Salvatore (Carmelo) Manduci  (Galatro, 24.12.1917)  è stato bidello fino al 1979, anno in cui trasferì la sua residenza a Polistena.
[3]  In gergo popolare questo catafalco veniva chiamato “Castejana”.
[4]  Don Rocco Distilo (11.11.1908 - 2.8.1973) è stato parroco di San Nicola dall'1.10. 1961 fino al giorno della sua improvvisa morte.
[5]  E’ la strada-scorciatoia che congiunge la parte alta alla parte bassa di via Regina Margherita. Si chiama “salita dei fumatori” perché, negli anni del secondo conflitto mondiale, per la sua realizzazione è stata impiegata l’intera somma incamerata dalla “gabelluccia” di cui era gravato il prezzo dei sigari.

 

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