Il piccolo mondo di Galatro


Il Natalino

da

IL MIO NATALE

di Umberto Di Stilo

     Quando, compresi i genitori, nella casa paterna eravamo in nove a prender posto attorno al desco, mia madre doveva panificare almeno una volta la settimana.

            La "fornata" che precedeva la festività natalizia, però, era sicuramente la più attesa. Era quella che faceva stare in ansia tutti i giovani componenti la numerosa famiglia. Ciò perché ognuno, con notevole anticipo sulla ricorrenza festiva, cominciava a pensare al "natalino", a quella forma di pane, cioè, che sera della vigilia allietava la nostra cena e, per antica consuetudine, accompagnava le nostre modeste pietanze.

Per la confezione di quella particolare forma di pane era necessaria una maggiore attenzione. Alla stessa, infatti, che solitamente si aggirava attorno  ai due chilogrammi, ogni attenta massaia, -e, quindi, anche mia madre- per una tradizione che affondava le sue radici in quella civiltà contadina in seno alla quale si guardava al passato con religioso rispetto, si sforzava di dare l'aspetto radioso del Bambino Gesù. Impresa che, seppur ardua, non impensieriva nessuna massaia. 

Mia madre sapeva benissimo che noi piccoli aspettavamo con ansia il "natalino" e, da buona e sensibile madre di famiglia, non ci deludeva. 

Impastava la farina e poi, lavorando la pasta con un sapiente gioco delle mani, riusciva a conferire al molliccio composto la forma rotonda del pane. Quindi, per favorire ed accelerare il processo di lievitazione,  via via che le andava confezionando, disponeva tutte le forme di pane sotto un alto strato di coperte di lana e sul letto dal quale, con dolcezza materna, aveva provveduto a "sfrattare" i figli ancora mezzi assonnati. Bastavano, però, due stropicciate agli occhi insieme al pensiero che la mamma stava preparando il classico pane natalizio perché non si avvertisse più il bisogno di dormire.

Per questo nessuno si lamentava o trovava da ridire sulla insolita levataccia. Anzi stava lì a curiosare in un'attesa che l'avvenimento straordinario rendeva assai più impaziente. La mamma intuiva i nostri desideri e per non deluderci, preparava delle pagnottelle[1] -una per ogni giovanissimo figlio- che, poi, sfornate per prime, ci consegnava ancora calde perché le mangiassimo subito, quale anticipo graditissimo e quanto mai saporito del "natalino".

Con l'ultimo pezzo di impasto, infine, sotto i nostri occhi vigili e curiosi, procedeva, finalmente, alla confezione del tanto atteso "natalino".

Era una pagnotta a cui mia mamma, per non tradire le nostre  aspettative  e, soprattutto, per rispettare una secolare tradizione allora presente in molte comunità calabresi, si sforzava di dare le sembianze del volto radioso del Redentore Neonato. Sicché‚ cercava di creare la bocca, il naso, gli occhi... Particolari di un viso che prima con la lievitazione e poi con la cottura scomparivano quasi completamente e che solo la mamma, invece, continuava a vedere attraverso gli occhi della sua Fede e con il suo smisurato amore per il mistero della nascita Divina.

Quello era il pane di Natale. Un pane benedetto che, per antica tradizione, con particolare avidità, avremmo consumato sera della vigilia, quando era proprio la mamma che, con ieratica maestà e come se compisse un rito, lo spezzettava durante la cena, perché ogni componente la numerosa famiglia lo mangiasse insieme al baccalà e ai cavolfiori, piatti principali di quella serata, insieme alle croccanti (e spesso ancora calde) zeppole, alle rape lessate e condite con olio ed aceto, ai peperoni arrostiti, all'aringa fritta insieme al peperoncino macinato ed alle olive in salamoia.

Ma non era cena della vigilia se sulla tavola mancavano le tredici diverse qualità di frutta: uva, melograni, fichi secchi, fichi d'India, noci, noccioline, castagne, arance, mandarini, finocchi, datteri, pere e mele.

Quanto ai dolci, oltre alle pitte di San Martino ed alle sussumelle, vanno ricordati quelli che ogni buona massaia preparava in casa e che, fatti con fichi secchi, noci e uva sultanina e impastati con mosto cotto,  in ogni paese della Calabria assumevano nome diverso (pitta pia, petrali, pitta 'mpigliata, lumericchi, ecc.).

Ora che le famiglie non sono più numerose e che  si  è persa l'abitudine di panificare in casa, molto poche sono le persone che ricordano il "natalino" amorevolmente preparato dalle mamme e sicuramente poche sono le famiglie in cui ancora viva è la tradizione di preparare i tipici dolci natalizi a base di fichi secchi, noci e mosto cotto. Adesso ci sono i panettoni già bell'e confezionati e, per giunta, della marca reclamizzata alla tv.

Vero. Proprio vero. E' molto più semplice entrare in un supermercato ed acquistare il panettone ed il torrone, la sussumella ed il pandoro...

Personalmente sera della vigilia, tra i tanti prodotti  del consumismo più sfrenato che pure allieteranno la mia cena, sentirò la mancanza di quel "natalino" che negli anni dell'infanzia - quando la nera miseria del dopoguerra difficilmente consentiva alla stragrande maggioranza delle famiglie di allestire pranzetti vari ed abbondanti -  dava altro significato  ed altra connotazione sia alla tradizionale ed assai parca cena che all'intera festa dicembrina.

* * *

 

N O T E

* Il racconto <<Il Natalino>> è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "il mio Natale", Edizioni Proposte 2000
[1]

Anche quando il pane era fatto con sola farina di grano quella pagnottella continuò ad essere chiamata pizzateja (termine usato per le pagnotte di granone). Qualche volta, per renderle più appetitose, le pagnottelle venivano imbottite con olive snocciolate e pezzetti di acciughe. In questo caso la "pizzateja" diventava "pizzata"

 

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