Il piccolo mondo di Galatro


Il leone sul presepe

da

IL MIO NATALE

di Umberto Di Stilo

     Il bagliore di un lampo improvviso saettò il cielo plumbeo cogliendo di sorpresa i fedeli che in ordinato corteo seguivano Don Andrea.[1] Rispettando un'antichissima tradizione locale, per solennizzare la conclusione delle feste natalizie, nel pomeriggio dell'Epifania, il giovane sacerdote aveva voluto portare in processione per le principali vie della parrocchia la statuina di Gesù Bambino che, adagiata in una culla di seta celeste, reggeva  sulle mani.

Quella luce intensa, pur avendo solcato per un solo attimo l'ormai quasi scura volta celeste, mise in allarme i fedeli che, senza interrompere i loro canti, con semplici ed eloquenti sguardi comunicarono l'un l'altro sentimenti di stupore e spavento. Automaticamente tutti indirizzarono lo sguardo prima verso lo spicchio di cielo che, a ponente, si intravedeva tra le case basse del vicolo e poi verso l'alto, quasi per trovare riscontri nell'ampia volta che sovrastava le loro teste.

I pochi che erano forniti di ombrello si trovarono a controllarlo istintivamente. Toccarono il manico  e quel semplice e leggero contatto fu sufficiente a farli sentire più sicuri e protetti. Poi quando, immediatamente dopo, al lampo seguì un tuono così forte da far vibrare i vetri delle finestre e dei balconi di tutte le case dei rioni Ceramidìo e Pecorello, anche i bambini furono presi dalla paura e dallo sgomento. Il cielo divenne uniformemente scuro e tutto si approntò per l'imminente arrivo della pioggia. Successivamente, ancora prima che cominciasse a piovere, il giovane sacerdote affrettò l'andatura nell'intento di rientrare in chiesa nel più breve tempo possibile.

Restavano da percorrere solo poche centinaia di metri ma i bambini, uno dopo l'altro, come per un tacito accordo oltre che per un istintivo impulso emulativo, preferirono abbandonare il corteo e andar via di corsa  per evitare che la pioggia potesse inzupparli.

In breve la parrocchiale divenne provvidenziale ombrello per tutti i fedeli che, grandi e piccoli, cercarono un riparo dall'acqua. Ci furono attimi di grande confusione finché non prevalse il senso del rispetto per il luogo sacro e tutti si raccolsero in preghiera per prepararsi spiritualmente a seguire il breve rito conclusivo delle festività natalizie. Subito dopo, quasi per un'intesa convenuta, mentre il giovane sacerdote poggiava al centro dell'altare la piccola culla con la statua in gesso di Gesù Bambino, i fedeli cominciarono a cantare "In notte placida" ed il suo motivo alto e solenne risuonò nella chiesa illuminata a giorno.

Era il canto che dava inizio al rito conclusivo del lungo periodo delle feste natalizie, per questo i volti di molti fedeli assunsero improvvisamente un'espressione seria. Su quelli degli anziani, in particolare, si leggeva la commozione e la tristezza del momento. E non pochi si trovarono ad accompagnare l'esplicito augurio di ritrovarsi ancora insieme anche l'anno successivo, tendendo affettuosamente la mano al vicino, battendo una leggera ed affettuosa pacca sulla spalla dell'amico o, più semplicemente, accompagnando con uno sguardo fiducioso il sospiro che seguiva l'appena sussurrato e timido "'mbiatu cu' campa".

Poi, dopo il canto del tantum ergo e la benedizione eucaristica, seguendo le indicazioni del giovane sacerdote e l'antica tradizione, i fedeli, in ordinata fila indiana lasciarono il loro posto per andare a rendere omaggio al Redentore Neonato baciando la stessa statuina che il parroco aveva portato in processione. Per diversi minuti la semplice manifestazione di fede fu sottolineata dal ritmato ticchettio che producevano le gocce di pioggia allorché, concludendo la loro lunga caduta, andavano a sbattere sulle tegole della parrocchiale. Ed era come se quel ritmo fosse stato voluto per sottolineare la solennità del momento. Ma i fedeli, ormai al riparo dell'acqua, non avvertivano lo scroscio cadenzato e, continuando ad intonare canti tradizionali, aspettavano il loro turno per salire fin sull'altare ed esternare con un bacio la profonda devozione a Gesù Bambino.

 Si procedeva lentamente, tant'è che il giovane sacerdote, raccomandando di non spingere, sottolineò più volte che la pazienza, specie negli ordini monastici, da sempre è strettamente collegata alla liturgia ed alla religione.

Tra i fedeli in attesa, in prossimità dell'altare del Sacro Cuore di Gesù, eravamo riuniti tutti gli amici di sempre. I soliti cinque-sei che continuavamo a guardare alla festa dicembrina non solo come alla lunga vacanza o al momento dei giochi ma come a un periodo da vivere nel calore della famiglia e, soprattutto, nella consapevolezza che proprio a Natale il Figlio di Dio ha assunto la fragilità della nostra carne per darci la gloria della Sua divinità. Tutti noi avevamo maturato la convinzione che a Natale il Figlio di Dio si è fatto figlio dell'uomo perché l'uomo potesse diventare figlio di Dio. Con questa consapevolezza cristiana tutti insieme, come avveniva da alcuni anni, aspettavamo la conclusione del rito religioso per andare nelle famiglie amiche e insieme ai loro componenti vivere intensamente gli ultimi scampoli della festa. Sapevamo bene che con il nostro spontaneo operare davamo vita a concrete testimonianze di fede. E anche se apparentemente giravamo di casa in casa solo per il piacere di stare insieme, per prolungare di qualche ora l'intima gioia della festa e per approfittare della circostanza per consumare qualche torroncino in più, in concreto, officiando tutti insieme e con la massima naturalezza il rito del battesimo, diventavamo celebranti laici, autentici testimoni di una Fede popolare che nel periodo natalizio e davanti alla semplicità del presepe familiare, sembrava rinvigorirsi in tutti noi. 

Quella sera eravamo attesi in molte famiglie perché con la nostra presenza, con la nostra allegria e soprattutto con i nostri canti riuscivamo a rendere più solenne (e di certo meno triste) la chiusura delle festività natalizie. Bisognava solennizzare la ricorrenza; era necessario chiudere coi canti la sera dell'Epifania perché, secondo un convincimento popolare, oltre che malinconico sarebbe stato di cattivo augurio togliere dalla grotta Gesù Bambino e riporlo nella scatola dei pastori senza prima averGli tributato la consueta semplice festa familiare.

Pepè guardò l'orologio e, rivolto a tutti noi, raccomandò la massima sollecitudine:

- Se non ci sbrighiamo faremo molto tardi e non in tutte le famiglie sono disposti ad aspettare il nostro arrivo. Anche perché in alcune di esse ci sono ragazzini che smaniano di portare in processione da una stanza all'altra della casa, la loro statuina di Gesù. -

Nessuno ebbe da obiettare e fummo concordi anche sull'opportunità di andare a salutare l'amico sacerdote e di affrettare l'uscita dalla chiesa.

Uno dietro l'altro raggiungemmo l'altare e genuflessi davanti a Gesù Bambino, con devozione Gli baciammo le ginocchia nude ormai diventate tiepide grazie ai numerosi fedeli che con venerazione, prima di noi, avevano già poggiato le loro labbra. Poi, volendo perpetuare nel tempo ciò che ogni anno, sin da bambini, avevamo visto fare ai vecchi ed agli anziani della parrocchia, ci dirigemmo alla capanna del presepe per prendere un filo di quella paglia su cui per tutto il periodo delle feste era rimasto adagiato il Redentore Neonato. Baciato e piegato in più parti quel modesto stelo giallo fu da tutti riposto nel taschino della giacca perché, come un simulacro, ci desse sostegno e aiuto in tutti i momenti a venire. E nessuno ebbe mai il dubbio che la protezione di Gesù Bambino potesse venir meno nella circostanza in cui ci fossimo cambiati d'abito, perché nessuno di noi disponeva di una giacca di ricambio per la festa e, spesso, quella indossata nei giorni della ricorrenza natalizia sarebbe stata la stessa di tutto l'anno. Compreso il Natale successivo.

Anche per questo non era raro che, sera dell'Epifania, deponendo la paglia nel taschino, in fondo ad esso, ancora integra, trovassimo quella dell'anno precedente o quella che alcuni anni prima, con uguale devozione, aveva conservato qualcuno dei nostri fratelli maggiori. Facendo di necessità virtù, infatti, gli abiti smessi dai figli più grandi passavano ai più piccoli che intanto crescevano e che erano felici di indossare quegli indumenti senza che venissero opportunamente aggiustati dal sarto, quasi che in quell'evento partorito dall'estremo bisogno ci fosse invece il tangibile riconoscimento della nostra raggiunta adolescenza o della nostra incipiente gioventù.

Nessuno di noi si rendeva conto che indossando la giacca che era stata di papà o del fratello maggiore in concreto era come se si vestisse con la storia della famiglia; una storia che non aveva da mettere in vetrina fatui blasoni e passata nobiltà ma che si sostanziava in pagine ricche di umanità perché scritte con quei quotidiani sacrifici che danno dignità all'esistenza e maggior valore alle conquiste sociali. Mio padre era solito ripetermi che non è merito proprio esser nati ricchi o nobili; però era sicuramente grande merito vivere nobilmente dimostrando, a se stessi prima che agli altri, di esser ricchi di sentimenti e d'amore verso il prossimo. Quanto ai sacrifici che comportano tutte le importanti conquiste, amava sottolineare che le grandi soddisfazioni si provano quando il traguardo si raggiunge stringendo i denti e facendo leva soltanto sulle proprie capacità. E, rifacendosi all'esperienza personale, aggiungeva che spesso, quando i più fortunati usavano l'ascensore, lui le varie rampe di scale che si è trovate di fronte le ha dovute salire sempre a piedi. Qualche volta anche con le ginocchia, aumentando le difficoltà e la fatica. Parimenti, però, era moltiplicata la soddisfazione e la gioia della vittoria allorché, madido di sudore e al limite della resistenza fisica, arrivava in cima alle scale e constatava di aver raggiunto il traguardo non solo senza aver utilizzato l'ascensore ma anche senza aver usufruito di spinte poderose o dell'aiuto interessato di gregari pronti a facilitargli l'ascesa. 

 

* * *

Lasciammo la chiesa quando ancora molti fedeli stazionavano raccolti davanti alla grotta del presepe ed altri si intrattenevano col giovane vice parroco. Ci segnammo in fretta ed uscimmo diretti in casa Raschellà ove, insieme agli amici Carmelo e Fortunato, c'erano ad attenderci anche i loro genitori, Micuzzeju e Caterina.  

Sul sagrato, appena illuminato dalla fioca luce delle lampade dislocate agli angoli della piazza, c'erano capannelli di giovani che si attardavano nei commenti alle feste finite, mentre molti di quelli che l'indomani, di buon'ora, avrebbero ripreso la strada di Messina, di Reggio, di Palmi o di Vibo, ove frequentavano i corsi universitari o le scuole medie superiori, si infervoravano in infuocate discussioni, quasi che ognuno di loro avesse una teoria filosofica da verificare o una sua idea da far rispettare. In verità, con un pizzico di malizia, c'era chi aveva taciuto di problemi scolastici per tutto il periodo delle vacanze rinviando di proposito all'ultimo momento il commento ad una esperienza, ad un episodio particolare attraverso cui sottolineare il proprio narcisismo e mettere in evidenza una bravura spesso completamente ed imperdonabilmente inventata e millantata.

Nei due bar che si affacciavano sulla piazza, quello di Assunto e quello di Mastro Gaudioso Lamanna, gruppi di concittadini indugiavano davanti ad una tazza di caffè, un bicchiere di birra o un bicchierino di brandy mentre altri, seduti ai tavoli, erano impegnati nelle ultime animate partite a tressette o a briscola prima dell'interruzione per la cena ed il già programmato immediato ritorno per guadagnare una sedia in prima fila e seguire comodamente - più con l'immaginazione che con gli occhi - lo spettacolo della "befana" appena percepibile su uno schermo televisivo animato da ombre e pieno di sfarfallio. Fuori, appoggiati all'autobus in sosta nel "largo Ferrari" o alla parete perimetrale dell'ex casa del Fascio adibita a scuola elementare, gruppi di giovani si attardavano nelle ultime discussioni della giornata fumando l'ennesima nazionale "semplice" tirata fuori da Pasquale Sorrentino che, come al solito, cameratescamente  e a turno, "passava" per una boccata ora ad uno ora ad un altro degli amici. 

Via Garibaldi, nonostante la serata fosse abbastanza umida, era animata da gruppi di ragazzi che tornavano a casa intonando "Tu scendi dalle stelle" e dagli ultimi fedeli che, lasciata la parrocchiale, raggiungevano speditamente le loro famiglie. Poco distante una dall'altra, davanti ad abitazioni  illuminate a festa, erano parcheggiate la "seicento multipla" di Totò Fonte e la "Simca mille" di Don Nicolino Lamanna, chiamate a nolo dalle famiglie di alcuni emigrati pronti a riprendere la via del ritorno. I portabagagli montati sul tetto erano già carichi di valige e scatoloni e l'abitacolo era predisposto ad accogliere i passeggeri che, dopo due settimane di ferie, si accingevano ad andare a Rosarno da dove, in serata e col "treno del sole" sarebbero tornati nelle città del triangolo industriale ove da qualche tempo avevano trovato una dignitosa occupazione.

In casa Raschellà, con la familiarità di sempre e col suo solito accattivante sorriso, ci accolse il capofamiglia signor Domenico, da tutti familiarmente conosciuto come Micuzzeju, che, indicando la scala, ci invitò a salire al primo piano. Il suo presepe, realizzato su un tavolinetto posto all'angolo della stanza da pranzo, anche quell'anno era di dimensioni assai ridotte al contrario della sua generosità che non aveva limiti. Era felice che tutti gli amici e coetanei dei figli andassero a solennizzare il battesimo del suo Gesù Bambino. Ci aspettava insieme alla moglie, signora Caterina, e pur lasciandosi contornare dai due giovanissimi figli voleva gestire personalmente la cerimonia che nella sua estrema semplicità rispecchiava la tradizione familiare di tutti i galatresi ed assumeva il sapore delle cose genuine. 

Micuzzeju manifestò subito tutta la sua Fede nella recita del Rosario e intonando insieme a tutti noi quei canti che, nella loro naturalezza, avevano la forza di riscaldare il cuore e di far tornare bambini. E il Sig. Raschellà quella sera tornò bambino insieme ai suoi giovanissimi Carmelo e Nato perché insieme a loro, con pazienza e devozione profonda, aveva preparato il presepe e perché ancor prima che loro rientrassero in paese per le vacanze di Natale,  era andato a procurare il muschio - i parinazzi - nel vicino "castanitu 'i Paganu".

 Partecipò alla cerimonia con trasporto infantile, dimostrando di rivivere i momenti spensierati della sua infanzia quando, prima di preparare il presepe in un angolo della sua casa, sin dai primi giorni dell'autunno cominciava a modellare i pastori con l'argilla bianca che, come la maggior parte dei suoi coetanei, andava a procurarsi grattando i sentieri di contrada Angiali.

Carmelo, che aveva studiato alcuni anni nel seminario di Mileto e aveva assimilato bene la liturgia, dopo essersi steso sulle spalle un asciugamano di lino a mo' di piviale, provvide a portare in processione la statuina di Gesù Bambino nei vari ambienti della casa. Scese anche nel negozio di alimentari; poi salì in terrazzo ed entrò nelle due camerette che suo padre aveva voluto realizzare al piano superiore per garantire l'indipendenza a lui ed a suo fratello. E tutti noi, in fila indiana, lo seguimmo intonando canti tradizionali. Chiudeva la fila la signora Caterina che, reggendo una candela accesa, ci accompagnava recitando preghiere. 

Ultimata la semplice cerimonia il buon Micuzzeju, come ogni anno, tirò fuori dalla credenza due vassoi. Su uno c'erano diversi bicchieri ed una bottiglia di vermouth; l'altro era colmo di sussumelle e torroni. L'ospitale capo famiglia depose tutto sul tavolo al centro della stanza e col sorriso sulle labbra insistette perché tutti consumassimo qualcosa in segno di festa e di amicizia. Noi tutti accettammo senza, però, approfittare. Sapevamo benissimo, infatti, che molte erano le famiglie da visitare e che molti sarebbero stati gli assaggi di liquori e di dolci che ci aspettavano.

Uscimmo da via Angelo Lamari nonostante sapessimo che la strada era quasi completamente buia. La lampadina fissata all'incrocio con la stradina di Rumbolo divenne, però, la nostra "stella polare", il nostro sicuro punto di riferimento. Poco oltre, nella direzione della vecchia Colonia, in una delle case popolari realizzate dopo l'alluvione del 1935, bisognava visitare il presepe della famiglia Crea ove assieme al capofamiglia, appassionato cultore dell'arte presepiale, c'erano ad attenderci la moglie signora Teresa e i giovani figli Guido, Oreste, Antonia, Nunziata, Bianca, Giovanna e Pina. 

In quella casa Mastro Ciccio, rubando spazio alla numerosa famiglia, ogni anno riusciva a realizzare un presepe che si differenziava da tutti gli altri costruiti nelle abitazioni galatresi per due caratteristiche: perché tra le frasche di leccio che, come sfondo naturale, sistemava dietro le montagne non mancava mai un ramo di mandarino o di corbezzolo carico di frutti e perché in cima alla montagna più alta del suo presepe poneva la statuina di un leone ruggente. Un animale che non aveva alcun richiamo con la tradizione natalizia ma che l'anziano signor Crea sosteneva fosse legittimo accostare alle miti pecore perché nella notte della pace anche i leoni erano diventati mansueti e insieme a tutti gli altri animali erano andati a rendere omaggio al Redentore Neonato. 

L'anziano artigiano, senza saperlo, aveva fatto propri i concetti di amore e di fraternità che Giovanni Conia, con versi musicali ed espressivi, aveva riferito nella "Cantata", scritta in occasione del Natale del 1834 ed adattata alle mosse della Pastorale:

Cotrari e serpi,

surici e gatta,

la fannu patta,

mali no nc'è.

 

Ficiaru paci

Lupi ed agneji,

farcuni e oceji;

la guerra  undi è?

 

Mo lu leuni

Non irgi crigna,

mansa e benigna

la tigri sta.

 

A conferma delle sue idee Mastro Ciccio sosteneva pure che sui presepi meridionali non solo è sempre presente il mandriano con le pecore ma spesso troviamo anche il cacciatore che armato di fucile è pronto a sparare agli uccelli. Un doppio controsenso: perché ai tempi di Gesù non c'era il fucile e perché non è lecito celebrare la morte degli uccelli che sono pure creature di Dio. Filosofia spicciola, quella di Mastro Ciccio, a cui nessuno di noi seppe mai trovare argomentazioni da contrapporre. 

- Sui vostri presepi c'è la donna che porta il pane; c'è il pescatore vicino al ruscello; ci sono le oche, il maiale, le galline… Sul mio, oltre a queste stesse statuine, mi piace mettere quella del leone perché rappresenta la forza ed il coraggio e perché nessuno può negare che, in quella notte santa, all'annuncio della nascita divina, abbia ruggito di gioia per salutare e festeggiare a modo suo l'arrivo del Redentore… - mi diceva con convinzione Mastro Ciccio che, mio buon vicino di casa, frequentavo con più assiduità dei miei giovani amici, specie nei giorni precedenti il Natale, quando nelle nostre case cominciavamo a costruire il presepe e spesso eravamo costretti a ricorrere all'aiuto reciproco per avere un po’ di muschio, una manciata di sabbia con cui tracciare le strade, alcune pietruzze da sistemare nel letto del fiume o un pugno di argilla.

In fondo l'anziano segantino di pipe aveva ragione. Per questo, sera dell'Epifania, sapendo di fargli cosa gradita, tutti apprezzavamo e sottolineavamo in modo lusinghiero l'insolita presenza di quel leone ruggente che, in modo assolutamente originale, caratterizzava la sua ricostruzione della Natività.

- In un presepe su cui hanno diritto di cittadinanza i re magi che io, pur avendo i capelli bianchi, non sono ancora riuscito a comprendere se erano sovrani, maghi o astrologi e se si sono trovati per caso sulla strada di Betlemme oppure hanno veramente seguito la stella cometa consapevoli di ciò che avrebbero visto, non vedo perché ci si debba meravigliare del leone che metto sul mio presepe sin da quando ero ragazzo. - Ripeteva convinto l'anziano abbozzatore di pipe a chi dimostrava perplessità davanti alla sua libera interpretazione di quell'angolo di Palestina ove, secondo quanto narrato nelle sacre scritture, in una misera grotta nacque Gesù. 

- Ha ragione Mastro Ciccio. - Mi affrettavo a precisare. E, cercando di portare sempre più acqua al suo mulino, aggiungevo: - Sulle strade del presepe ognuno mette le statuine che ritiene più significative. C'è chi pensa di dare spazio al cacciatore e chi, invece, con quella stessa statuina si richiama al brigante, che è un personaggio prettamente calabrese assurto agli onori presepiali dopo l'unità d'Italia, quando numerosissimi uomini, per ragioni sociali, furono considerati fuorilegge e, come tali, costretti alla macchia. Cacciatore o brigante che sia, è sempre un soggetto che si richiama alla realtà calabrese, realtà a cui inconsciamente ci ispiriamo tutti. Per questo c'è chi è soddisfatto quando riesce a riprodurre un tipico scorcio del proprio paese nel quale ambienta la caratteristica grotta di Betlemme e chi, come il nostro amico Pino, gongola di felicità quando ce la fa a dare le giuste proporzioni a tutta la sua opera o quando, come quest'anno, passando e ripassando avanti e indietro un pezzetto di legno su uno strato di sottilissima sabbia, riesce a dare l'esatta idea di un campo arato di fresco. Realizzando il presepe, ognuno di noi si abbandona all'inventiva, cavalca le ali della propria fantasia. Ed allora il presepe diventa la realizzazione del paese sognato, un paese in cui c'è lo spazio sacro immaginario e lo spazio profano reale; un paese in cui c'è lo spazio del passato, quello del presente e, a volte, anche quello del futuro; un  paese in cui c'è lo spazio per i pastori e per l'umile gente e quello per i re ed i ricchi mercanti. La realizzazione del presepe ci offre la possibilità di essere più originali degli altri. Nessuno di noi lo ammette, ma è così. Ogni anno, infatti, tra tutti noi si instaura una tacita gara e ognuno spera di dare una connotazione nuova al proprio presepe e di essere più originale degli altri mediante l'appropriato utilizzo di un personaggio - che può essere il brigante ma anche la tessitrice, -  mediante un gioco di luci o di specchi, facendo scorrere l'acqua dalla fontana, inserendo qualche statuina che si muove, oppure mediante l'uso di materiali innovativi. Tutto ciò perché il presepe deve stupire, deve produrre in chi lo guarda la stessa meraviglia che il fulgore della stella cometa generò nell'incantato o nello stupore che la Grotta di Betlemme produsse nei pastori allorché si trovarono davanti alla luminosa bellezza dell'Infante Divino. E' tutta qui la magia del presepe. Per questo sulla minuscola riproduzione plastica del paesaggio in cui nacque Gesù c'è spazio per tutti. -

E, quasi a riprova di ciò, aggiungevo ancora:

- Avete saputo? In alcuni presepi rionali di Napoli c'è chi ha riservato un posto di rilievo non solo all'onorevole Achille Lauro, ma anche a Coppi e a Bartali, idoli sportivi che nulla hanno a che vedere con la classica rappresentazione della natività ma a cui la fantasia popolare, grazie alla notorietà di cui godono in tutti gli strati sociali, ha assegnato ruoli importanti, tant'è vero che sono stati posti proprio davanti alla grotta e prima dei classici Gaspare, Melchiorre e Baldassarre.

Perché meravigliarsi, dunque, se Mastro Ciccio, nel suo presepe ha riservato un posto importante al crinito re degli animali? Non sono stati proprio gli animali, ed i più umili tra essi, come l'asino, il bue e le pecore, ad avere il privilegio di tenere compagnia e di riscaldare Gesù Bambino appena nato ? - 

L'anziano signor Crea, sentendo quelle parole, oltre ad aumentare la stima nei miei confronti, si commuoveva e si mostrava orgoglioso della sua idea che, e non solo a Galatro, ancora nessuno aveva imitato. 

* * *

Intrattenersi in famiglie ospitali, come quella dei Crea, era piacevole ma Gabriele, giovane autista in servizio sul pullman della linea Galatro-Rosarno della ditta Foresta che quell'anno si era aggregato a noi tramite Pepé, ci ricordò la necessità di officiare "funzioni" molto stringate per sottrarci al rischio di dover saltare qualche appuntamento. Così in molte famiglie evitammo anche di sederci e, subito dopo un veloce rito del battesimo, un accenno a "Tu scendi dalle stelle" e la consumazione - ma solo "per accettare" - di qualche zeppola o "pitta pia", ci trasferimmo nella famiglia più vicina. Da casa Crea, entrammo nella dirimpettaia casa mia e da qui andammo in via Madonna ove in casa Di Matteo quell'anno trovammo ad aspettarci anche Don Peppino, il nonno amalfitano di Pino, a cui nei momenti più solenni della funzione, quando Carmelino portava la statuetta di Gesù Bambino in processione su per le scale e nelle stanze da letto, gli occhi diventarono improvvisamente lucidi ed il volto assunse un'espressione pensosa come se mentalmente stesse rivivendo i suoi lontani Natali trascorsi nei caratteristici borghi di Amalfi al suono delle zampogne o nelle streets di Londra, con in cuore la struggente nostalgia di casa ed il sottofondo delle cornamuse scozzesi.

Da qui passammo a vedere il presepe di Pasquale Marazzita e dopo una fugace apparizione in casa di Ciccio De Rito, che aveva appositamente chiamato Peppe Belcaro perché con la sua fisarmonica eseguisse i tradizionali motivi natalizi e desse più solennità alla semplice festa familiare, idealmente e sulle ali del ricordo, anche quell'anno concludemmo la serata "di' Vattisimi" nella vicina Via Vittorio Veneto, all'interno dell'antico palazzo dei De Felice. Solo idealmente, però, perché di fatto il padrone di casa aveva lasciato Galatro da un paio d'anni per andare a vivere nel vicino centro montano di Fabrizia. 

Per tornare coi ricordi in quell'antica casa, nelle cui stanze ognuno di noi aveva avuto l'opportunità di trascorrere indimenticabili ore di allegria, è bastato scorgere la inconfondibile figura di Maria Grazia Po che sull'uscio di casa preparava il braciere per vincere il freddo della notte. Tre anni prima l'anziana donna insieme alla figlia, vicine di casa dei De Felice, mentre tutti noi festeggiavamo l'Epifania, aiutava Donna Tommasina ad accudire a Rosalba, la bimba che da poco più di due settimane, era arrivata ad allietare la vita di Don Raffaelino.  

Forse perché quell'anno il padrone di casa era stato molto impegnato nei preparativi per l'arrivo dell'erede, poté dedicare solo pochissimo tempo alla realizzazione del presepe che, pur essendo stato costruito nell'angolo di una delle ampie stanze che si affacciano sulla retrostante via, tutti noi trovammo quanto mai modesto.

- L'ho fatto per non interrompere una consuetudine che in casa De Felice dura da parecchi decenni e soprattutto per accogliere mia figlia, sin dalla nascita, in una famiglia di sani e saldi principi cristiani in cui si rispettano tutte le tradizioni; prima fra tutte questa del presepe... - diceva Don Raffaelino agli amici che si fermavano ad osservare quella sua devota ed assai semplice ricostruzione scenica della Natività. In essa non c'era alcun accenno alle tradizionali montagne ricoperte di muschio; non era stata messa una sola casetta di cartone per dare l'idea di ambiente abitato né, tracciato con la carta stagnola dei formaggini, si vedeva il consueto letto del fiume, elementi, questi, che da alcuni anni erano diventati comuni a tutti i presepi galatresi. 

Su un vecchio tavolo da cucina l'amico padrone di casa aveva provveduto a stendere soltanto un po’ di sabbia insieme a qualche ciuffo di muschio e al centro aveva posto una dozzinale capanna costruita con pochi pezzi di sughero ed acquistata già bell'e fatta. Sparse disordinatamente attorno alla grotta della natività, erano disposte pregevoli statuine di vari pastori realizzate in terracotta, come si usava a quei tempi quando ancora la plastica non aveva fatto la sua comparsa e la cartapesta era un lusso consentito a poche famiglie. Erano le stesse statuine che, negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, il sig. De Felice, ancora fresco sposo e prossimo padre del nostro futuro amico padrone di casa, acquistò in un assai noto laboratorio artigianale di "santari" di Serra San Bruno. 

Consapevoli che il presepe deve essere solo un simbolo, un mezzo per richiamare alla memoria il grande evento della grotta di Betlemme, nessuno di noi diede importanza all'estrema semplicità di quella ricostruzione scenografica della Natività anche se essa contrastava enormemente con la ricercata sontuosità dei mobili e con le lussuose ottocentesche tende damascate che arredavano quella stanza e tutti gli altri ambienti del palazzo. All'estrema, francescana semplicità del presepe, che in altre famiglie e in altri momenti avremmo sicuramente evidenziato nei nostri commenti critici o sottolineato con eloquenti sguardi ed espressioni di netta disapprovazione, quella sera demmo pochissima importanza. Ciò soprattutto perché ognuno di noi era pienamente consapevole che in casa De Felice il rito del battesimo, quell'anno più che mai, avrebbe assunto una caratteristica diversa, nuova, imprevedibile. Lì il rito religioso passava sempre in second'ordine. In quell'antico palazzo andavamo solo animati dal fermo proposito di divertirci. Sicché tutto veniva lasciato alla casualità del momento. E tutti, chi più chi meno, diventavamo attori di una recita a soggetto nel corso della quale sapevamo di dover improvvisare e di spaziare, saltando da un argomento all'altro, purché tutto fosse finalizzato a creare momenti di allegria e purché attraverso i nostri scherzi ed i nostri giochi riuscissimo a vivere in serenità e spensieratezza quegli ultimissimi scampoli di festa. A maggior ragione quell'anno che insieme al battesimo di Gesù Bambino dovevamo festeggiare la nascita della piccola Rosalba.

Don Raffaelino era molto più grande di noi. Per la sua età anagrafica avrebbe dovuto frequentare persone mature. Invece amava confondersi con noi perché oltre ad avere il necessario spirito giovanile era aiutato dal fisico di un adolescente. Minuto di statura, coi capelli lisci, imbrillantinati e tirati indietro, in giacca e cravatta anche nei periodi caldi, era sempre al centro dei nostri scherzi che accettava con spirito di eterno fanciullone e senza mai protestare. Compito e signorile nei modi, si esprimeva in corretto italiano e solo raramente condiva i suoi discorsi con tipiche espressioni dialettali. 

Era ancora poco più che un ragazzo allorché, per accontentare la mamma, si avvicinò ai libri, ma con ripetuti esiti negativi. Su consiglio del parroco di Martone imboccò anche la strada del seminario, ma fu costretto ad abbandonarla dopo alcuni anni per studiare da privato. A quei tempi la scuola era molto selettiva e lui, contrariamente a quello che faceva credere alla madre vedova, non riuscì mai a superare un esame. Viveva in modo agiato con il reddito di alcune estese proprietà (soprattutto vigneti ed oliveti) e si permetteva anche il lusso di una invidiatissima "Topolino"  con la quale, di tanto in tanto, ci portava a spasso o andavamo insieme al cinema a Polistena. 

 Nonostante da qualche anno fosse sposato, col suo naturale spirito goliardico continuava a vivere in modo spensierato ed allegro e frequentava la nostra compagnia perché in ognuno di noi diceva di vedere l'amico sincero che aveva inutilmente cercato a Martone, paese nel quale era nato e dal quale proveniva, a Fabrizia, ove era stato ospite di alcuni congiunti, ed a Vibo, città nella quale aveva dimorato per motivi di studio.

Sin da quando in maniera festosa e allegra varcammo l'ingresso di casa De Felice, anche quell'anno, la serata dell'Epifania imboccò la strada dello scherzo e del divertimento. Infatti Pepè e Vincenzo, come se un invisibile direttore d'orchestra avesse improvvisamente alzato la bacchetta per dare inizio all'esecuzione, sul noto motivo della pastorale, cominciarono a cantare: - "Tu scendi dalla botte, o vino bello e vieni a riscaldare i nostri cuori…" - E poi: -"Il vinello, bello, bello, tu ci devi qui portar, Don Raffaelino… sennò che festa è questa, ci vuoi dire?" -

Dopo un attimo di naturale sorpresa anche Pino, Ascanio ed io, pur non conoscendo il testo della parodia appositamente coniata dall'estroso Pepè, ci unimmo al coro, mentre il padrone di casa, la mamma e la moglie si mostrarono divertiti della nostra spiritosa trovata.

In casa De Felice il vino non mancava mai. Una bottiglia era sempre a portata di mano per versarne un bicchiere agli ospiti che arrivavano fino in via Vittorio Veneto o ai coloni che portavano le saporite primizie a Donna Carmelina, l'energica padrona di casa. Per gli amici, inoltre, c'era una scorta di bottiglie di vino d'annata messe in disparte perché potesse essere consumato nelle grandi occasioni. La nostra allegra invasione di sera dell'Epifania, evidentemente era una di queste se Don Raffaelino, dopo essersi allontanato per un attimo, ricomparve da dietro una tenda reggendo in mano un bel fiasco impagliato pieno di quel vino che aveva il colore del rubino e che, a detta della padrona di casa, sapeva rendere allegri i musoni e far cantare anche i morti.

Era vino che il nostro amico produceva in grandi quantità nel vigneto del Fegu, zona pianeggiante e soleggiata nella quale, operando la sostituzione delle vecchie nodose piante con giovani vitigni di magliocco e di malvasia, in pochi anni era riuscito ad ottenere un impianto di viticoltura tra i più produttivi di tutto il territorio ed in competizione per qualità solo con i vigneti di contrada Camera e con quelli di Pescano

Don Raffaelino riempì i bicchieri e, alla salute della sua piccola Rosalba ed in onore di Gesù Bambino, ci invitò a scolarli tutto d'un fiato aggiungendo con tono imperioso: - A fondo bianco! -

-  A fondo bianco! - gli fecero subito eco Pepè, Ascanio,[2] Vincenzo e Pino.

Dovendo stare al gioco, nessuno di noi osò sorseggiare o, peggio, rifiutare di bere. Non lo feci neppure io a cui, notoriamente, dava fastidio anche l'odore del vino. In fondo per tutti noi quella era una serata speciale e l'amico padrone di casa si sarebbe sicuramente dispiaciuto se non avessi partecipato all'augurale brindisi introduttivo. 

Nel trambusto di "evviva" nessuno si accorse del vassoio pieno di croccanti e profumate necatule che mamma Tommasina pose al centro del tavolo mentre Donna Carmelina, l'anziana matriarca, provvedeva a passare sotto i nostri occhi, perché la notassimo bene, una tafareja[3] stracolma di stecche di torrone. E si affrettò subito a precisare che erano della stessa qualità di quelle che una volta mangiavano i Re di casa Savoia dal momento che il figlio era andato a comprarle a Bagnara apposta per noi. 

Era vero. Il nostro amico aveva il cuore d'oro (e le mani bucate, a sentire sua madre) e non volle mai deludere le nostre aspettative. 

Sgranocchiando torroni e sorseggiando vino invecchiato e aromatizzato con l'aggiunta di amarena e foglie di alloro, il primo a diventare alticcio fu Ascanio. Subito dopo anche Pino e Vincenzo pervennero ad un leggero stato di ebbrezza. Il primo lo manifestò con improvvise quanto ingiustificate crisi di pianto, il secondo esplodendo in sonore risate per un nonnulla e imitando il suono prodotto dal padre quando, tra le pareti domestiche, soffiando a pieni polmoni nel suo lucido bombardino, si esercitava ad eseguire l'aria Largo al factotum del Barbiere di Siviglia. 

Piano piano il corposo vino del Fegu produsse le sue inebrianti conseguenze nella maggior parte di noi. Anche Don Raffaelino subì l'effetto dell'alcool ed era già barcollante allorché il solito Pepè propose di disporci in cerchio attorno a lui per giocare a "Pizzico e non ridere", passatempo dai risvolti sempre imprevedibili perché legati all'inventiva umoristica ed alle spiritosaggini del conduttore di turno. Quella sera, dopo aver segretamente intinto i polpastrelli dei pollici in una scatola di lucido da scarpe, proprio Pepè, avviando il gioco, cominciò a "pizzicare" sulle guance tutti i componenti l'allegra comitiva. 

Mentre, però, per tutti noi usò le nocche dell'indice e del medio, quando si avvicinò al padrone di casa gli strinse le guance tra il  pollice e l'indice, facendo subito scivolare le dita verso il basso allo scopo di lasciare sul volto un doppio vistoso segno nero. 

L'invito a non ridere era una condizione perentoriamente implicita nel gioco solo per il "pizzicato" di turno. Per questo Don Raffaelino, ignaro di quel che gli aveva combinato l'amico Pepé, rimase impassibile nella sua espressione seria e pensosa, al contrario di noi tutti che non riuscimmo a frenare la risata che spontanea si stampò sulle nostre bocche e sonora echeggiò tra le spesse pareti di quella stanza allorché vedemmo che il volto dell'amico padrone di casa aveva improvvisamente assunto i tipici connotati di un capo indiano, segnato com'era trasversalmente da due vistose scie di lucido da scarpe.

Risero a crepapelle anche le due donne di casa De Felice e, dopo un primo momento di disagio, figlio dell'istintivo senso di rispetto per il padrone di casa, rise anche l'anziana Maria Grazia Po che, per poter seguire meglio il gioco, per un attimo smise di cullare la piccola Rosalba. 

Tra scherzi e giochi, canti e libagioni quell'anno la serata di' Vattisimi la prolungammo come non mai. Era assai tardi quando un po’ barcollanti lasciammo casa De Felice e tutto il Rione Pecorello era immerso in un profondo silenzio. Non una luce si scorgeva accesa all'interno delle case. Per tutti la festa si era conclusa da alcune ore e per parecchi operai era già prossimo il momento della sveglia. 

Le stelle qua e là trapuntavano il cielo lasciando presagire una giornata fredda ma serena e le pozzanghere che caratterizzavano lo sconnesso fondo stradale di via Veneto, sotto la debole luce delle lampade pubbliche, sembravano schegge di cristallo disposte lì per riflettere il fioco luccichio del cielo.

Ascanio cercò di evitare le buche piene d'acqua zigzagando abilmente da una parte all'altra della strada; Vincenzo e Pepè, tenendosi sottobraccio per un vicendevole appoggio, discutevano animatamente sull'opportunità di ripetere quella stessa notte la serenata che a fine agosto avevamo fatto alle signorine Sgrizzi; io e Pino, stanchi come non mai ed appesantiti dalle necatule e dai torroncini di Bagnara mangiati in gran quantità, chiudevamo l'allegra comitiva progettando già le novità che avremmo apportate al presepe dell'anno successivo.

In piazza salutammo Pepè che si approssimava ad entrare in casa. Eravamo, però, tutti così avvinazzati da non capire che il saluto della buona notte non doveva trasformarsi in una ulteriore occasione di baldoria. Il nostro affettuoso ed accalorato chiacchiericcio, infatti, richiamò l'attenzione del fornaio Don Grabbeli e di Pasquale Siciliano, suo giovane aiutante, i quali, lasciato il panificio ove avevano già iniziato la loro giornata lavorativa, ci vennero amichevolmente incontro e con garbo ci prospettarono l'opportunità di rispettare la quiete notturna ed il sonno dei concittadini, rinviando al mattino la conclusione dei nostri discorsi e rientrando subito nelle nostre famiglie. 

Una chiara quanto semplice lezione di buon comportamento da cui tutti traemmo subito profitto e che ancora oggi, non solo sera dell'Epifania ma ogni qualvolta se ne presenta l'occasione, insieme agli episodi più significativi della nostra gioventù, ricordiamo con particolare apprezzamento e profonda commozione.

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N O T E

* Il racconto <<Il leone sul presepe>> è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "il mio Natale", Edizioni Proposte 2000
[1] Don Andrea Depino fu vice parroco di San Nicola dal 20 giugno 1957 ai primi di aprile del 1960.
[2] Aacanio Borrello, giovane reggino, figlio unico della signora Clara Delfino, direttrice del locale ufficio postale. Abitava in via Angelo Lamari (attuale casa del sig. Vincenzo Zito). Rimase a Galatro diversi anni ( e fino al 1963) inserendosi insieme al padre, Carmelo, nel tessuto sociale e riscuotendo stima da tutti per la sua disponibilità e per la sua simpatia.
[3] Tafareja: cestino di vimini di forma rotonda.

 

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