Il piccolo mondo di Galatro


Il Giovane dagli occhi di cielo

da

IL MIO NATALE

di Umberto Di Stilo

Alla memoria di Mastro Ciccio, mio padre.

     Ogni anno, man mano che si approssimava il Natale, nel piccolo laboratorio artigianale di calzature, si respirava aria sempre più pregna di nervosismo e di preoccupazione. Lo stato di tensione si avvertiva principalmente nell'improvviso e quasi totale mutismo in cui piombava Mastro Ciccio, titolare della piccola ma avviata calzoleria, il quale, contrariamente al suo solito, nell'arco dell'intera giornata proferiva soltanto poche frasi costruite quasi completamente con parole che servivano di sollecito ai giovani apprendisti ed  agli operai  assunti perché in occasione delle feste le commesse si moltiplicavano e per poter essere puntuale nelle consegne, doveva ricorrere ad altre braccia.

           Sicché, in prossimità del Natale, così come nelle settimane precedenti la Pasqua, era diventata quasi consuetudine attorno ai due deschetti disseminati di utensili, ritrovare mastro Vittorio, mastro Salvatore e mastro Rosario, operai di fiducia che per essere stati, quasi tutti, discepoli di Mastro Ciccio e, per essere abituati alla sua scrupolosa precisione,  riuscivano a soddisfarlo nel lavoro.

C'erano anche tanti giovani apprendisti e Carmelo, uno dei figli del titolare.

In quei giorni non si poteva perdere tempo; ogni minuto era prezioso alla economia della piccola azienda e, cosciente di ciò, Mastro Ciccio non si dava tregua.

Dalla "macchina blake", ove aveva appena finito di cucire un paio di suole, si spostava al bancone per tagliare la pelle che serviva alla confezione delle tomaie. Quindi si sedeva alla vecchia "Singer" e cuciva fra di loro i vari pezzi di morbido "vitellino" o di "capretto", di "scamosciato" o di pregiato "coccodrillo" che, messi sapientemente insieme, davano forma alla tomaia.

Infine tornava al suo posto dietro il deschetto e -come comandante al timone di una nave- dopo aver impostato il lavoro per gli operai, con una sapiente quanto fugace sbirciatina degli occhi, controllava che tutto procedesse bene.

Nel laboratorio artigianale di Mastro Ciccio si è sempre lavorato.

L'attività non ha conosciuto soste neppure durante i tristi periodi che precedettero e che seguirono il secondo conflitto mondiale.

In quegli anni, allorché reperire pochi decimetri quadrati di pelle era impresa assai ardua, il buon calzolaio galatrese si distinse e si differenziò ulteriormente da tutti i colleghi della zona perché riusciva a realizzare un paio di scarpe da donna ricavando tomaie da un cappello di feltro ed, in alcuni casi, anche da quei lunghi guanti tanto di moda, negli anni trenta, tra le donne della media borghesia locale.

Le richieste di scarpe su misura, in ogni periodo, giungevano dai vari paesi del circondario ma i clienti più numerosi Mastro Ciccio li contava a Laureana ove per oltre un trentennio un discreto numero  di famiglie gli garantì sicuro e continuo lavoro.

Mastro Ciccio - che nel Natale del 1925 aveva avuto il privilegio di creare e realizzare con le sue mani e nel suo modesto laboratorio un paio di scarpe per la Regina Elena di Savoia e che era specializzato nella fabbricazione di scarpe da donna - per assicurare una dignitosa esistenza alla sua numerosa famiglia, realizzava calzature per persone appartenenti a tutti i ceti sociali: professionisti, prelati e monsignori, operai, ricchi massari, agiati contadini, artigiani, casalinghe...

Per ogni cliente, inoltre, aveva da suggerire le novità dell'ultima moda e il modello lo faceva scegliere sulle pagine della voluminosa rivista quadrimestrale "Ars Sutoria" di cui era un fedele abbonato.

Spesso, però, per i suoi clienti più esigenti, creava modelli esclusivi disegnandoli direttamente sulla forma di legno.

Inoltre non pochi furono i casi in cui, per poter esaudire le richieste di alcuni acquirenti, prima dovette fabbricarsi la forma, lavorando con scalpelli vari per lunghi giorni su un pezzo di legno che, modellato a dovere, assumeva le stesse precise misure del piede del committente. 

Anche per questo in tutti gli ambienti artigianali della zona il calzolaio galatrese, più che uno di loro, era considerato un artista.

Un artista della scarpa su misura.

D'altra parte a Mastro Ciccio, come egli stesso poté dimostrare in più occasioni, non mancava quel pizzico di inventiva e di estrosità che caratterizza il vero artista.

Era dunque logico che il lavoro, nella bottega artigianale del calzolaio galatrese, si moltiplicasse in prossimità delle feste più importanti e che, molti clienti, per poter calzare a Natale un paio di scarpe realizzate in quel piccolo laboratorio, si prenotassero diversi mesi prima e, comunque, non più tardi della fine di settembre.

Anche se ancora non era esploso il boom economico che caratterizzerà gli anni sessanta, quell'anno in occasione del Natale, le ordinazioni erano state superiori a tutte le più ottimistiche previsioni sicché, come sempre in quel periodo, da Mastro Ciccio si lavorava giorno e notte.  Gli operai arrivavano all'alba e, tranne una breve interruzione all'ora del pranzo, prestavano la loro opera fino a sera inoltrata.

Gli apprendisti andavano a casa per la cena e, i più capaci di essi, tornavano subito dopo a continuare il lavoro già avviato.

Chi rimaneva fino a notte seduto al deschetto a lavorare di fronte a Mastro Ciccio era il figlio Carmelo, nonostante, già da qualche tempo, avesse avviato una autonoma attività commerciale. Anche lui, però, dopo una giornata di lavoro, ad una certa ora appariva stanco e, spesso, vinto dal sonno, guadagnava la via del letto accompagnato da qualche benevolo borbottìo del padre che, invece, instancabile, continuava a lavorare.

Con l'approssimarsi della fatidica giornata festiva, infatti, per lui le ore del riposo notturno si accorciavano sempre più, fino a lavorare ininterrottamente giorno e notte spinto dalla voglia e dalle necessità di essere puntuale coi suoi clienti.

Nessuno, neppure tra i suoi familiari, seppe mai spiegarsi dove Mastro Ciccio trovasse tutte quelle energie, dal momento che riusciva a rimanere inchiodato alla sedia e lavorare proficuamente, sia nelle ore diurne che in quelle notturne, nelle quali ultime restava quasi sempre solo.

In effetti non era instancabile, ma era tanta la sua forza di volontà ed il desiderio di puntualità che la fatica fisica passava in second'ordine e riusciva a rimanere per diversi giorni e diverse notti al suo posto di lavoro. Lo faceva per non deludere le attese dei clienti i quali, nella quasi totalità dei casi, aspettavano le scarpe nuove per poterle calzare giorno di Natale allorché, vestiti a festa, si sarebbero recati in chiesa per sfoggiare il nuovo abbigliamento e per mettersi, quindi, in mostra oltre che per ascoltare la Messa cantata.

Lavorando senza sosta, anche in quel dicembre del 1959, per Mastro Ciccio giunse la fatidica sera della vigilia.

Gli operai, sensibili alle urgenti necessità del loro "maestro" si lasciarono convincere a prestare qualche ora di straordinario, ma poco prima delle ventitré andarono via.

Ognuno di essi, infatti, voleva festeggiare la notte di Natale insieme ai familiari giacché in tutte le famiglie, molto prima mezzanotte, era consuetudine riunirsi attorno ad una tavola imbandita per consumare le pietanze che, secondo un'antica tradizione, caratterizzavano la cena della vigilia.

Poi, in attesa della Messa dell'aurora, le ore sarebbero trascorse nei soliti giochi della tombola o delle carte o negli ultimi ritocchi al presepe.

Non mancavano, inoltre, le famiglie nelle quali, facendo di necessità virtù e non avendo la possibilità di preparare la tradizionale cena, le massaie aspettavano la sera della vigilia per procedere alla frittura delle zeppole tra la gioia dei più piccoli che si assiepavano in cucina smaniosi di addentare le caratteristiche ciambelle fritte, e un velo di mestizia dei più anziani che, attorno al braciere, quasi sempre sperando in un futuro migliore, si abbandonavano ai ricordi lontani.

In casa di Mastro Ciccio si respirava ben altra atmosfera. Attorno al deschetto, per far compagnia al capofamiglia, c'erano tutti: dalla moglie, a cui era stato assegnato il compito di accostare al fuoco i ferri coi quali si sarebbe provveduto a spandere la cera sulle suole delle scarpe, al figlio Carmelo, intento a rifinire in maniera ineccepibile un bel paio di scarpe con le quali l'indomani una giovane donna laureanese avrebbe raggiunto la chiesa di San Gregorio per la messa di mezzogiorno.

C'erano, poi, i figli più giovani i quali, pur avendo più dimestichezza con la pedagogia del Lambruschini e del Rousseau o con un disegno planimetrico in scala, non disdegnavano di dare, anche loro, una mano d'aiuto.

Avevano già completato gli studi superiori ed alla compagnia chiassosa ed allegra dei colleghi avevano preferito quella riunione familiare nella quale ognuno, per quello che poteva, cercava di rendersi utile.

Diversi anni prima, alla fine del conflitto bellico, lo aveva fatto anche il loro fratello maggiore, pur essendo già avviato a quella professione che nell'arco degli anni a venire gli avrebbe riservato grandi soddisfazioni ed una carriera brillantissima.

Anche lui aveva aiutato il papà in quella notte di Natale, come sempre caratterizzata da febbrili lavori.

Adesso, proprio da quell'episodio, i giovani figli di Mastro Ciccio, traevano esempio.

Piano piano, però, il sonno li vinse e, uno dopo l'altro, abbandonarono il laboratorio per andare a dormire nel gran letto che da sempre era pronto nella stanza accanto.

Carmelo riuscì a resistere fin verso le due, poi, visibilmente stanco, mentre dava la cera ad una scarpa, cominciò a penzolare la testa in avanti ed a chiudere istintivamente gli occhi, imitando la mam-ma che, nel frattempo, si era addormentata alla sedia.

A quell'ora restavano da completare ancora tre paia di scarpe ma Mastro Ciccio non si perse d'animo.

Mandò a riposare la moglie ed il figlio pregandoli, però, di essere solleciti ad alzarsi alle sei, allorché personalmente avrebbe provveduto a svegliarli perché, insieme, potessero aiutarlo a completare i lavori.

Mamma e figlio andarono a dormire. Mastro Ciccio, invece, dopo aver ravvivato il fuoco che c'era nel braciere, riprese a lavorare con maggior lena. Ogni tanto, per non addormentarsi, provava a motivare uno dei tanti brani lirici che nei periodi estivi, quale componente di rinomati complessi bandistici, eseguiva sui palchi e nei concerti col suo clarinetto, ma più i minuti passavano e più si rendeva conto che era quanto mai impossibile poter completare, da solo ed in tempo utile alla consegna, quelle tre paia di scarpe.

Stava per cadere nel più nero scoramento allorché, alle quattro in punto, nell'ascoltare il festoso scampanio che, dalla chiesa di San Nicola, invitava a raccolta i fedeli per la messa di quella Santa notte, istintivamente rivolse il pensiero a Gesù Bambino al quale chiese sinceramente aiuto.

Qualche minuto più tardi udì distintamente il motore dell'utilitaria che, nel limitrofo garage, stentava a mettersi in moto. Si rese conto che il cugino arciprete usciva per andare a celebrare il sacro rito della messa di Natale a Monsoreto, ed in cuor suo lo invidiò. 

- Beato te, Rocco, che non disattendi le aspettative dei tuoi parrocchiani e che da un anno all'altro sei sempre puntuale all'appuntamento.... Io, invece, sono qui a dannarmi l'anima nella disperata speranza di riuscire a far tutto il possibile per non deludere nessuno...- pensò.

La mattina era quanto mai rigida. Il paese era avvolto in un ovattato silenzio per cui anche da casa di Mastro  Ciccio, ogni tanto, si avvertiva, lontano, il mugghiare cupo del Metramo.

Piovigginava, ma nel breve volger di pochi minuti lungo la strada si sono cominciati a sentir passare gruppi di giovani che avevano smesso di giocare a carte e, cantando "Tu scendi dalle stelle", si recavano allegramente in chiesa insieme a quei fedeli che frettolosamente e ben coperti fino al naso, raggiungevano la parrocchiale per ascoltare la Messa e per partecipare ai riti della notte di Natale.

Da lontano, dalle case poste in cima alla collina su cui sorge il rione Montebello, ogni tanto il vento faceva giungere fin nel laboratorio di Mastro Ciccio le dolci e querule note della pastorale eseguita da "Cheli 'a morti", l'anziano suonatore di zufolo, che insieme allo zampognaro “Cicciuni”, ogni anno, spontaneamente,  provvedeva a dare voce al Natale galatrese.

Quel suono completava l'atmosfera natalizia e ricordava a Mastro Ciccio che il tempo che gli restava a disposizione per ultimare i lavori, era sempre più limitato.

Intanto man mano che le campane, nella fredda mattina, tornavano ad emettere il loro sonoro ed argentino appello ai fedeli ritardatari, le vie del paese si popolavano sempre più.

Quasi come un'eco a quel suono, nel chiuso della bottega di Mastro Ciccio risuonavano secchi i colpi di martello inferti ad un pezzo di cuoio che, precedentemente bagnato, sarebbe servito da suola per una di quelle scarpe ancora da completare.

Improvvisamente qualcuno bussò alla porta.

- Avanti, è aperto - disse Mastro Ciccio. E si sporse a vedere quale amico, prima di recarsi in chiesa, avesse deciso di andargli a tenere un po’ di compagnia anche in quel freddo mattino di Fede e di letizia per tutto il mondo cristiano.

Non era affatto raro, infatti, che qualche conoscente sapendo che nella sua bottega c'era sempre un braciere acceso attorno al quale ci si poteva riscaldare e la possibilità di impiegare un poco del proprio tempo in piacevoli discussioni, decidesse di trascorrere qualche ora seduto al deschetto, come se volesse carpire i segreti dell'affascinante arte della scarpa.

Quella mattina, da dietro la porta che si apriva verso l'esterno, a Mastro Ciccio comparve un adolescente.

Alto, coi capelli biondi ed inanellati in fittissimi riccioli, con un volto quanto mai roseo, il giovane vestiva modestissimi abiti, per giunta vistosamente bagnati, ed ai piedi calzava un paio di vecchie scarpe ormai completamente sformate e scucite per il troppo uso cui erano state sottoposte.

A Mastro Ciccio, che per vederlo meglio si era tolto gli occhiali e gli aveva indirizzato sul viso la luce della lampadina che, appesa ad un filo, dal soffitto penzolava fino al centro del deschetto, il giovane, con estrema dolcezza e fissandolo in modo quanto mai suadente  coi suoi occhioni color di cielo, disse  con premura:

- Voglio andare a Messa, ma ho le scarpe rotte. Me le potreste rimettere a posto? -

Poi, dopo una breve pausa e prevenendo la domanda di Mastro Ciccio, che al solo vederlo era rimasto come imbambolato nella rapida ricerca mentale di capire chi fosse, il giovane ospite aggiunse:

- Sono forestiero e casualmente mi trovo di passaggio dal vostro paese. E' Natale. Tra poco sarà celebrata la messa... Non vorrei entrare in chiesa così mal conciato...-

Il giovane nel proferire quelle parole si tolse la scarpa destra, quella tra le due che era tanto scucita e consumata da lasciar fuoriuscire le dita del piede, e la porse a Mastro Ciccio che, sempre con minore convinzione e sempre più frastornato dallo sguardo luminoso e dolce del giovane forestiero, rispose:

- Non posso accontentarti... Non ho proprio tempo da dedicare alle riparazioni... Vedi? Devo completare queste scarpe per stamattina... Tra poche ore dovrò essere a  Laureana, ove i miei clienti aspettano le scarpe nuove per andare a messa... -

- Si. E' vero - replicò il  giovane - ma i vostri clienti hanno sicuramente un altro paio di scarpe da calzare per andare a messa qualora voi doveste arrivare in ritardo. Io no... Io è come se fossi scalzo.... Datemi, pertanto, la possibilità di non perdere la messa di questa mattina... E' la messa di Natale... E' quella a cui dovreste partecipare anche voi... Perché non venite?... -

- Gesù Bambino sa che io non vengo perché ho tanto da lavorare ma che vorrei pur'io essere in chiesa con voi, stamattina... - disse Mastro Ciccio che sentiva sempre più tenerezza verso quel forestiero del quale non sapeva completamente nulla. Però al solo guardarlo sentiva in cuore sentimenti mai provati fin'allora; sentimenti che non aveva avvertito neppure trent'anni prima quando, emigrante in Argentina, si era trovato improvvisamente immerso in un mondo di sconosciuti, di stranieri.

Poi, come se volesse dimostrare al giovane forestiero che nella sua famiglia la ricorrenza del Natale veniva festeggiata cristianamente, aggiunse: 

- I miei figli, anche quest'anno, hanno costruito il presepe in un angolo della stanza da pranzo... Quando sentirò le campane suonare per il "Gloria" li sveglierò e sarà il più piccolo di loro, Camillo, a deporre nella grotta il Bambinello..-

Quasi senza accorgersene, mentre parlava, Mastro Ciccio aveva preso in mano la scarpa del giovane forestiero che ora girava e rigirava sotto il naso per stabilire da dove cominciare i lavori di quasi totale rifacimento, più che di riparazione.

- Va bene, aspetta... Visto che vuoi andare a Messa - disse poi - ti voglio mettere in condizione di farlo. Tiro due punti alla buona. Intanto avvicinati al fuoco e riscaldati. Mi pare che sei anche bagnato. Mentre io lavoro provvedi ad asciugarti, sennò  rischi un bel malanno... -

Mastro Ciccio prese lo spago, lo tagliò a misura e, con alcuni ampi gesti delle braccia, lo incerò. Quindi, armatosi di lesina, cucì quella misera e malridotta scarpa. Fece tutto in fretta, badando, però, che il lavoro fosse ben fatto.

- Dammi l'altra - gli disse poi. Ed aggiunse: - Appena arrivi in chiesa prega Gesù Bambino che mi dia l'aiuto necessario a completare in tempo utile per la consegna ai clienti anche queste tre paia di scarpe per le quali sono in notevole ritardo col lavoro...  -

Sotto le mani esperte e veloci di Mastro Ciccio quelle due scarpe già consumate e scucite, ripresero subito la loro forma originaria, sicché appena ultimato il lavoro, tornarono lustre come nuove e lo sconosciuto poté calzarle sotto lo sguardo soddisfatto del bravo artigiano che aveva eccezionalmente provveduto alla riparazione.

Il giovane dagli occhi di cielo, visibilmente compiaciuto, stava legando il laccio della scarpa destra allorché dal campanile della chiesa parrocchiale giunsero i rintocchi delle campane che, per la seconda volta, ricordavano ai fedeli ritardatari che il rito della messa stava per avere inizio.

- Devo correre a messa.- Disse il giovane sconosciuto. - Prima, però, ditemi: quanto vi devo? -

- Nulla, nulla....- rispose Mastro Ciccio. Ed aggiunse con convinzione: - Spero soltanto che mi ricompensi Iddio...-

- Grazie... Allora vi aspetto a Messa...- disse il giovane forestiero il quale, prima di abbandonare in fretta il piccolo laboratorio e chiudersi la porta dietro le spalle, fece in tempo ad aggiungere: - Buon Natale!...-

Rimasto solo, Mastro Ciccio ravvivò prima il fuoco e poi si dispose a riprendere il suo lavoro; sicché, data una spazzolatina alla buona al più volte rattoppato grembiule nell'intento di eliminare le abbondanti tracce di fango che avevano lasciato le scarpe del giovane e sconosciuto cliente, istintivamente tese la mano fin sulla mensola del deschetto e tirò fuori la prima delle scarpe che doveva completare.

Grande fu la sorpresa allorché si accorse che era bell'e finita e che sia la suola che il tacco, realizzato tutto in cuoio, erano lucidati anche con la ceretta.

Prese la seconda: la trovò già rifinita in tutte le sue parti. E così di seguito per le altre quattro.

- Ma come? - Si chiese allora - Fino a poco fa erano incomplete... Chi le ha ultimate?... E quando, se  io non mi son mosso un solo attimo da questa stanza?...-

Istintivamente ed in preda ad una indicibile sensazione, si alzò, guadagnò in fretta la porta ed uscì sulla strada.

Voleva rivedere il giovane al quale poco prima aveva riparato le vecchie scarpe... Voleva parlargli... voleva chiedergli... Ma la strada era improvvisamente tornata ad essere deserta e silenziosa e del giovane cliente dagli occhi di cielo si era persa ogni traccia.

La pioggia continuava a cadere sottile e fitta. Nell'incerta luce delle deboli lampade che qua e là servivano a schiarire la strada ai viandanti, Galatro, posto in fondo alla valle, sembrava essersi improvvisamente trasformato in un grande, naturale presepe. Soltanto il campanile della chiesa San Nicola, illuminato a giorno per l'occasione, si stagliava netto in uno sfondo caliginoso e ancora nero per il buio fitto.

Quella luce, intensa e bianca come quella della stella cometa, adesso indicava al modesto artigiano galatrese la strada che di lì a poco lo avrebbe condotto fin davanti alla grotta di Betlemme che, come ogni anno, era stata riprodotta in miniatura nel presepe realizzato all'interno della parrocchiale.

Mastro Ciccio che trovava il tempo di entrare in chiesa ad ascoltare devotamente la messa soltanto durante i mesi estivi, allorché andava in giro con la banda musicale a suonare nelle varie feste patronali o nelle sagre paesane, quasi per ubbidire ad un interiore quanto imperioso bisogno, decise che doveva andare ad ascoltare la Messa. Col cuore in gola per un sentimento che non sapeva se fosse di gioia o di commozione, tornò in casa e dopo aver informato la moglie dell'evento che da poco si era verificato nel suo laboratorio, si cambiò in fretta e dopo avere indossato il vestito della festa, a passi svelti si diresse in chiesa.

Appena dentro, tra i tanti volti di amici paesani, cercò quello del giovane forestiero che poco prima era stato ospite della sua bottega di calzolaio.

Guardò e riguardò con insistente attenzione tra la folla di fedeli. Non lo vide.

Ma quando durante il sacro rito della Messa il giovane celebrante, adagiata in un cestino di vimini pieno di paglia, portò in processione tra i fedeli la statua di Gesù Bambino, Mastro Ciccio non ebbe più dubbi: quel volto radioso e bello, quegli occhi di cielo, quell'espressione atteggiata al sorriso, quei capelli color dell'oro, erano quelli del suo giovane cliente.

Erano quelli del Redentore che in quella notte di Natale aveva voluto assumere le sembianze di un povero giovane, tanto povero da essere costretto a calzare un paio di scarpe consumate e scucite.

Ed al solo pensiero che Gesù Bambino, in quella notte santa si fosse presentato a lui, povero peccatore, nei panni di un giovane pellegrino, Mastro Ciccio, frastornato e col cuore in tumulto, si inginocchiò e, istintivamente, si trovò ad alzare la mano destra ed a segnarsi, ripetendo il gesto che, ancor bambino, aveva appreso dai genitori e spesso, anche più volte nella stessa giornata, aveva visto fare al padre, componente dell’antica confraternita  del Santissimo. 

I fedeli che assiepavano la chiesa, ignari di tutto, innalzavano canti di Gloria al Redentore Neonato.

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N O T E

* Il racconto <<Il Giovane dagli occhi di cielo>> è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "il mio Natale", Edizioni Proposte 2000

 

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