Il piccolo mondo di Galatro


Il caffè con l’anice

da

IL MIO NATALE

di Umberto Di Stilo

     Ci sono sapori  che, conosciuti e gustati negli anni dell'infanzia o dell'adolescenza, si continuano a sentire per tutto il resto della  vita come se fossero rimasti ben impressi nel palato.

Per me, uno dei tanti, è quello dell'anice.

Beninteso,  non  il sapore dell'anice asciutto.  No. Quello allungato nel caffè.

Questo sapore dolciastro e forte, ancora oggi che gli anni fanno sentire sempre più il loro peso, mi richiama alla memoria il Natale dell'infanzia, quando vuoi per i tempi di estrema crisi, vuoi per l'età, bastava poco per solennizzare una festa e per differenziare la ricorrenza dalla grigia monotonia quotidiana. Monotonia anche nei cibi giacché, allora, sulle parche mense dei galatresi, si poteva trovare solo qualche saporito piatto di legumi con la pasta o qualche semplice pietanza a base di verdure.  Quasi sempre selvatiche.

L'anice, dunque, mi ricorda il Natale degli anni del secondo conflitto mondiale e di quelli dell'immediato dopoguerra, quando ogni mattina, rientrando a casa dalla chiesa dove, con profonda devozione e in compagnia di tantissimi amici, coetanei  e vicini di casa, mi ero recato ad ascoltare la messa “ante lucem” dei giorni della novena, trovavo mia madre intenta a preparare il caffè che poi, sistematicamente, a tutti i componenti la famiglia porgeva da bere abbondantemente corretto con l'anice.

Questo liquore aromatico serviva a dare sapore ad una bevanda quasi completamente priva di caffeina perché ricavata dalla miscela di tantissimo orzo e da una assai limita quantità di caffè brasiliano, acquistato crudo e poi tostato in casa.

Quello era il “caffè” della festa dicembrina e, tutti, attendevamo di berlo con ansia; la stessa con cui aspettavamo il Natale, quasi che la quotidiana consumazione di quella bevanda aromatizzata dall'anice, di per sé, costituisse una solennità.

Mio padre, che pure era astemio, pretendeva che nelle mattine della novena e poi, via via, fino all'Epifania, tutti in famiglia -lui compreso- bevessimo il caffè con l'anice. E il gradevolissimo e caratteristico profumo, si spandeva per tutta la casa, impregnando anche i nostri indumenti.

Allora il caffè si preparava “alla turca”. Nell'apposita caffettiera smaltata  - un bricco col beccuccio ricurvo che mio padre aveva portato dall'Argentina - la mamma faceva bollire dell'acqua e, appena la vedeva gorgogliare, versava alcune cucchiaiate di caffè macinato e rimestava con cura.

Poi, dopo alcuni minuti, quando la polvere nera si era completamente depositata sul fondo del recipiente e l'acqua aveva assunto una colorazione assai vicina al nero,  la calda bevanda veniva versata nelle tazzine.

Solitamente, nella maggior parte delle famiglie, il caffè veniva preparato in un comunissimo tegamino. Per questo ricordo ancora l’espressione di sorpresa e di meraviglia che, negli anni del secondo conflitto mondiale, quando Galatro fu pacificamente preso d'assalto da centinaia di famiglie giunte in paese per sfuggire ai rischi della guerra, lessi sul volto di un’anziana signora di Rosarno allorché vide che in casa mia la scura bevanda, da qualche mese, veniva preparata in una speciale caffettiera costruita artigianalmente dallo stagnino Settembrini di Laureana.

Era il prototipo di quella che poi, un po' ovunque, sarebbe stata conosciuta come la  “napole-tana”. E fu proprio grazie a quella che genericamente fu chiamata  “macchinetta per il caffè”,  che la nera bevanda acquistò un aroma particolare, sicuramente più intenso e più corposo, e nella tazzina non furono più visibili i residui della polvere di caffè;  la  “posima”, com'era definito lo specifico sedimento nel nostro espressivo dialetto.

A quei tempi, per ottenere un poco  “d’acqua calda nera” (come veniva bonariamente definita la bevanda che sapeva di tutto, tranne che di caffè...)  nelle famiglie fu sperimentato ogni tipo di surrogato. Oltre alla cicoria ed ai ceci ci fu chi fece ricorso ai lupini ed ai legumi e chi, ancora, tentò di ricavare caffè anche dalle ghiande spezzettate e tostate. Nulla, insomma, proprio nulla, fu tralasciato per cercare di ottenere quella polvere dalla cui infusione, in acqua bollente, si potesse ricavare una buona bevanda nera. Tutti i tentativi fallirono. Ciononostante non essendo reperibile, neppure a pagarlo a peso d’oro, un po' di caffè, anche sorseggiando quell'acqua calda, nerastra ed insapore, gli incalliti bevitori avevano la fugace illusione di sorbire una tazzina della loro bevanda preferita.

In quegli anni per molte famiglie anche l‘orzo rappresentava un lusso, nonostante fosse facilmente reperibile in quasi tutte le masserie dell’altipiano di Castellace, di Salice e di Santa Maria. Quasi completamente impossibile, invece, era trovare un po' di caffè, brasiliano o dominicano che fosse.

 Per quel poco che arrivava bisognava essere grati ai “contrabbandieri” della zona o a qualche abile concittadino che, biascicando un po’ d'inglese, riusciva a procurarlo barattando prodotti locali con quei soldati americani che, dopo l’8 settembre, era facile incontrare nella zona portuale di Reggio ove, come nel resto d'Italia, ai  bambini regalavano stecche di cioccolato e facevano masticare le prime “gimgomme” della nostra storia.

In quello stesso periodo qualcuno dei commercianti riuscì  a procurare ed a mettere in vendita un discreto quantitativo di caffè crudo e, quindi, ancora in grado di germinare. Andò a ruba e nel volger di una sola stagione, insieme ai classici legumi ed alle melanzane, in tutti gli orti del paese, rigogliose crebbero molte piante, assai simili a quelle del lupino, che, per la gioia dei loro proprietari, si caricarono di baccelli gonfi di chicchi arrotondati.

Ci fu pure chi, non disponendo di terreno, le piantine le fece crescere accanto ai colorati gerani, nei vasi dei balconi e delle finestre, nella speranza di riuscire ad assicurarsi un po' di quei frutti giallognoli, che essiccati, tostati e macinati consentivano di preparare una “buona” tazza di caffè.

L'anice non era difficile procurarlo. C'era la crisi, ma si trovava ugualmente. Per acquistarlo bastava recarsi nel  negozio di  “Pascaluzzo”[12]  oppure in quello di Rocco Riniti[13], “’u potellu”, o di Don Alfonso[14], 'u magazzeneri.

E se non c’era quello prodotto industrialmente e già imbottigliato, si poteva rimediare ricorrendo all’acquisto di una bottiglia d’alcool puro e di un  estrattino di essenza di anice che, usati nelle giuste dosi e misti ad acqua ed a zucchero, consentivano di produrre in casa il profumato elisir, con lo stesso procedimento che abitualmente in occasione di matrimoni e particolari ricorrenze familiari, si usava per la produzione in proprio dell’ “alchermes”[15] e di tantissime altre varietà di liquori.

 

* * *

 

Veloci come in un sogno sono passati gli anni e le vicende connesse a quei difficili periodi dell’infanzia e della prima adolescenza che ora, anche nel ricordo, assumono i contorni della favola.

Ora tutto è lontano e, dalle giovani generazioni il racconto degli avvenimenti legati a quel particolare periodo economico-sociale della nostra comunità, potrebbe essere scambiato per il frutto  della fervida fantasia di un narratore.

Invece no, è tutto vero. Anche le difficoltà di approvvigionamento del caffè fanno parte di una pagina di storia vissuta in prima persona da quanti, come me, guardandosi allo specchio scoprono i loro capelli sempre più spruzzati dalla neve del tempo.

Gli anni sono trascorsi velocemente; i vari  “Pascaluzzo”, Rocco Riniti e Don Alfonso, da diverso tempo hanno definitivamente chiuso bottega e di loro non resta altro che il ricordo. Le mode, sempre legate al progresso di cui sono figlie naturali, hanno fatto registrare nuove usanze, nuove abitudini ed hanno relegato nel dimenticatoio tutto ciò che è appartenuto al passato. Comunque, anche se il tempo è volato via leggero come una piuma e i liquori di moda adesso hanno nomi stranieri, ancora oggi, in prossimità del Natale, avverto il bisogno di procurarmi una bottiglia d'anice.

Sarò un inguaribile nostalgico tradizionalista, ma tornando dalla messa “ante lucem”, a cominciare dall’alba del sedici dicembre, mi piace allungare il caffè con l’anice ed abbandonarmi ad improvvisi tuffi nel mio passato ormai remoto.

In cucina non trovo più la mamma che, premurosa ed attenta, si appresta a versare a cucchiaiate la polvere di caffè nell’acqua bollente.

Ora, con altrettanta premura, ma utilizzando la “Moka” o altre sofisticate moderne macchinette, provvedono le figlie e la moglie. Sono io, però, che allungo il caffè con la giusta dose di anice perché, almeno in questi ultimi giorni dell'anno, mi piace tornare al sapore genuino di una volta; al sapore che al mio Natale dava quella calda e nera bevanda che oggi, psicologicamente, costituisce l'ideale ponte di collegamento tra il passato e il presente, tra l’infanzia e la maturità.

In  fondo, è forse  per questo che continuo a bere il caffè con l’anice.

Lo bevo con gusto. Ma, soprattutto, con un sempre più ritrovato e salutare trasporto infantile.

* * *

 

N O T E

* Il racconto <<Il caffè con l’anice>> è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "il mio Natale", Edizioni Proposte 2000
[1] Era conosciuto con questo vezzeggiativo il sig. Pasquale Salvatore Cannatà (23.12.1864 -2.2.1949) che, proveniente da San Giorgio Morgeto, aveva aperto a Galatro un negozio di alimentari con annessa cantina. Il negozio, ubicato all’imbocco di via San Nicola, continuò a chiamarsi di “Pascaluzzo” anche quando, dopo la morte del titolare, fu gestito dal figlio Rocco.
[2] Rocco Riniti  (8.9.1885 – 16.9.1972) era titolare di un negozio di alimentari con annessa cantina, in via Garibaldi, a pochi metri di distanza dalla Chiesa del Carmine.
[3] Il sig. Alfonso Di Matteo (Londra, 25.7.1908 – Galatro 9.5.1983) nei primi anni trenta, quando per diverse diecine di giovani amalfitani i paesi della Piana diventarono meta preferita per i loro commerci, giunse a Galatro ove aprì un fornitissimo negozio di alimentari  ( “‘u magazzeni”) con annesso forno, diventato ben presto punto di riferimento per tutti i cittadini.
[4] Liquore sciropposo a base di chiodi di garofano, cannella e noce moscata macerati in alcool, aromatizzati con vaniglia ed essenze di fiori: tipico per il colore rosso vivo (dato dal chermes, colorante ottenuto originariamente dal corpo essiccato di una cocciniglia ed oggi sostituito da un prodotto sintetico dello stesso nome). Fu molto di moda nell’ottocento. Oggi è ancora usato in pasticceria, specialmente per farcire torte.

 

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