Lo spirito
della
democrazia

«I vescovi? 
Sono padri, non datori di lavoro»

Monsignor Albacete, personalità di spicco della Chiesa americana e collaboratore del «New York Times» parla della crisi. Coperture? Ma come avrebbero dovuto agire i Pastori con chi ha sbagliato?
 

 

di Alessandro Zaccuri
Avvenire, New York, 12.06.2002


«Come sta il Papa, padre?», domanda a sorpresa il poliziotto prima di uscire dal ristorante. A monsignor Lorenzo Albacete capita spesso che qualcuno chieda notizie del Santo Padre. I mass media lo definiscono «amico personale di Giovanni Paolo II» e lui alla fine ha imparato a non farci caso. Di origine portoricana, è il responsabile di Comunione e Liberazione negli Stati Uniti ma anche collaboratore di giornali prestigiosi, primo fra tutti il New York Times, che in marzo ha pubblicato un suo articolo in difesa del celibato sacerdotale. Un intervento che, in uno dei momenti più accesi della polemica attorno agli abusi sessuali commessi dai sacerdoti, è stato accolto con grande rispetto. Forse perché monsignor Albacete è partito dal ricordo del padre, che aveva fatto di tutto per scoraggiare la sua vocazione. «Da buon ispanico pensava che i preti fossero tutti imbroglioni. Nel mio piccolo ho cercato di dimostrargli che si sbagliava...», commenta.


Monsignor Albacete, che idea si è fatto della crisi di questi mesi?

«Per certi aspetti è una crisi profondamente americana. Il rispetto per la legge, per esempio: non dobbiamo dimenticare che è proprio la legge a garantire l'unità della nazione. Questo è un Paese composto da persone che provengono da culture molto diverse tra loro, che però si riconoscono uguali davanti allo stesso sistema di norme. Negli ultimi anni, poi, le leggi che riguardano gli abusi sui minori hanno assunto un'importanza sempre maggiore agli occhi dell'opinione pubblica. Tutto questo può aiutare a capire come mai lo scandalo abbia assunto proporzioni così impressionanti».

E il presunto insabbiamento dei casi da parte dei vescovi che ne erano a conoscenza?

«La società americana fa molta fatica a ragionare in termini spirituali o, meglio, pastorali. Si metta nei panni di un vescovo, che riceve la confessione di un sacerdote che ha compiuto un abuso. Che cosa dovrebbe fare? Negli Usa l'opinione pubblica non ha dubbi e chiede che si applichi la "tolleranza zero'': denunciare il colpevole alle autorità giudiziarie e poi "licenziarlo", cioè ridurlo allo stato laicale. Ma un vescovo non è un datore di lavoro. E un prete non è un impiegato. Il loro rapporto è semmai quello tra padre e figlio».

Questo, però, gli americani non lo capiscono.

«È vero, da una parte perché a loro sfugge il concetto del rispetto del foro interno, dall'altro perché provengono da una tradizione in cui paradossalmente la figura del sacerdote è stata fin troppo idealizzata. Tutto questo si è riflesso, tra l'altro, sul modo in cui viene visto il celibato: non come un segno di amore verso Cristo e la sua Chiesa ma come uno stato di perfezione che dovrebbe mettere al riparo da ogni contaminazione. Visione poco realistica e priva di una vera dimensione spirituale».

Sta dicendo che è tutto sbagliato?

«No, sto dicendo che siamo arrivati al momento in cui occorre rifondare e rafforzare la nostra esperienza religiosa.
Del resto è quello che il Papa invita a fare da molto tempo. "Nuova evangelizzazione"
significa ritorno alle radici, riscoperta del legame originario tra Cristo e la Chiesa. La quale, se dimentica la propria appartenenza a Cristo, diventa una realtà soltanto umana, esposta a tutti i rischi che caratterizzano oggi la crisi americana. Peggio ancora: senza l'amore di Cristo la stessa struttura della Chiesa rischia di trasformarsi in un peso insopportabile. L'incomprensione del celibato non è che un aspetto di questa mancanza di motivazioni».

 

di Alessandro Zaccuri - Avvenire, New York, 12.06.2002