Lo spirito
della
democrazia

America: doppio ruolo


L’America: nuova “terra promessa” isolata dal resto del mondo. Ma anche “luce per le nazioni” nella difesa della giustizia e dei diritti umani. L’interagire di due opposte tendenze determinerà le mosse della politica estera americana nel 2002

di Albacete Lorenzo



Gli americani guardano al mondo all’inizio del 2002, e il fatto più degno di nota è proprio che essi stanno guardando al mondo. E non appena guardano al mondo, gli americani sentono le stesse contraddizioni che fin dall’inizio hanno segnato la loro esperienza del mondo fuori dai confini della loro nazione.


Il rapporto tra l’America come nazione e il resto del mondo è stato storicamente caratterizzato da un conflitto tra due diverse concezioni contemporaneamente presenti. Ed è così ancora oggi.


Da un lato la tradizione mitica o storica che esprime e conduce l’esperienza americana si è modellata sull’esempio della vicenda biblica dell’Esodo, che narra della formazione della “terra promessa”. Questo implica tre passaggi: la vecchia situazione da cui il popolo viene liberato, il passaggio guidato dalla provvidenza dal vecchio al nuovo, e l’insediamento e la costruzione di una nuova terra, di un mondo completamente nuovo.


Secondo questa visione, il mondo oltre i confini della nuova terra è il “vecchio” mondo, un mondo governato da leader religiosi autoeletti, tiranni e aristocrazie decadenti, con i suoi abitanti immersi in povertà, ignoranza e superstizione. Se c’è qualcosa che incarna ciò che si intende per “vecchio”, questa è la Chiesa cattolica (e il corrotto protestantesimo). È il “romanesimo” con le sue due espressioni più corrotte: il Papa e la Spagna. La liberazione, la vera libertà nasce da un ritorno al “puro cristianesimo biblico” nella nuova Terra Promessa. La terra americana coi suoi vasti spazi aperti è il dono dato da Dio a coloro che vivranno secondo questa fede. L’America è la nuova Sion, la Nuova Gerusalemme, la città costruita su un monte che tutti devono vedere, ammirare e invidiare.


Questo mito originario è stato totalmente secolarizzato dai “padri fondatori” della repubblica americana, ma la forma è rimasta e anche oggi fa parte della tradizione americana, seppur inconsciamente.


In un altro mondo
Questo significa che gli americani tendono a concepirsi come separati dal resto del mondo. Questo senso di isolazionismo appartiene all’esperienza stessa dei padri fondatori, e non è affatto sorprendente che nel suo ultimo discorso come presidente George Washington esortasse la nazione a non “farsi irretire” da alleanze straniere. Oggi, anche se gli americani sono più che mai consapevoli dell’esistenza del resto del mondo, anche se gran parte della qualità della vita di un americano dipende da risorse esterne agli Stati Uniti, malgrado una globalizzazione economica che favorisce gli Stati Uniti stessi, gli americani covano ancora questo senso di isolamento che fa loro concepire la “politica estera” come qualcosa di importante solo quando la sicurezza degli Stati Uniti è apertamente minacciata.


Questo sentimento ovviamente va contro ogni idea di un particolare “ruolo”, missione o responsabilità verso il resto del mondo. Una porzione profonda della psiche americana risente del fatto di aver dovuto sostenere questo ruolo in due guerre mondiali e anche in seguito. Gli appelli dei nostri leader a intraprendere linee politiche dettate dal “ruolo unico” nel mondo non riscuotono grande eco. Attualmente il Presidente può parlare di “liberare il mondo” dal terrorismo, o di combattere contro il “male” nel mondo, ma queste cose non commuovono gli americani a lungo. L’impero americano non è la conseguenza dell’imperialismo degli americani; per loro andrebbe benissimo una politica straniera basata sul “vivi e lascia vivere”.


Naturalmente era facile mantenere questo atteggiamento finché due oceani separavano i territori americani dal vecchio mondo, rendendo difficile un attacco agli Stati Uniti da parte di potenze straniere. Durante la Guerra Fredda il popolo americano comprese che la tecnologia aveva reso vulnerabile il suo territorio e così i suoi leader poterono giustificare la forte presenza americana attestatasi in ogni parte del mondo. Al termine della Guerra Fredda, l’isolazionismo tornò nuovamente a essere qualcosa di rispettabile e popolare. L’attenzione si rivolse immediatamente verso l’interno del Paese, e i problemi nazionali assunsero importanza primaria. Dopo la crisi della guerra del Golfo, un governatore di uno Stato del Sud, pressoché sconosciuto, riuscì a sconfiggere un presidente la cui popolarità aveva raggiunto i massimi vertici durante la crisi. Molti non si preoccuparono del fatto che il governatore Clinton non avesse alcuna esperienza nel campo della politica estera, mentre non fu di alcuna utilità a George Bush I la sua competenza.


Immigrati e cultura dominante
D’altra parte, parrebbe che, in una nazione fondata da immigranti, le varie comunità di immigrati debbano cercare di attirare l’attenzione della loro nuova nazione verso i loro Paesi di origine. Ma se ciò è stato vero in alcuni casi (in modo più drammatico, naturalmente, nel caso degli ebrei e di Israele), la forza di assimilazione all’unica cultura anglosassone dominante ha prevalso su tutti gli interessi particolari. Recentemente il vasto numero di immigranti bianchi non europei ha spinto qualcuno a mettere in discussione la forza di assimilazione della cultura dominante e il suo mito dei padri fondatori, ma a tutt’oggi non sussistono serie motivazioni per dubitare del fatto che le categorie fondanti della vita americana non siano determinate dal modello originale. Particolarmente interessante a questo riguardo è l’assimilazione o non assimilazione delle ingenti masse di immigranti di origine ispanica o latina, circa il 70% dei quali si professa cattolico. Le loro origini spagnole - anche se frammiste con modelli culturali africani e autoctoni - e il loro cattolicesimo li fanno apparire come una minaccia culturale nei confronti di coloro che ancora sono influenzati dall’originale dimensione anti-cattolica e anti-spagnola che caratterizza la memoria dell’origine dell’America. Non esiste, tuttavia, una prova effettiva del fatto che alla fine gli ispanici non seguiranno lo stesso iter di assimilazione alla cultura dominante, che sarà dichiaratamente meno omogenea, e tuttavia si porrà in continuità con quella attuale.


L’esplosione di patriottismo seguita agli eventi dell’11 settembre dimostra che, nonostante tutto quanto si dica negli ultimi tempi a proposito della pluralità di culture e della disintegrazione della tradizione dei padri fondatori che unificava l’America, il popolo americano è ancora unito da un’esperienza comune che si pone in continuità con quella delle generazioni passate.


In un recente articolo apparso sul numero di dicembre della rivista The Atlantic («Are We Really One People?» - “Siamo davvero un unico popolo?”) David Brooks conclude che gli attacchi dell’11 settembre «hanno neutralizzato i leader politici e culturali che tendevano a sfruttare le differenze tra gli americani. Gli americani non hanno voglia di una lotta di classe o di una guerra di culture. La conseguenza degli attacchi terroristici è stata un po’ come un Sabbath nazionale, distogliendoci dai nostri consueti divertimenti e distrazioni e ricordandoci cosa sia davvero importante. Col tempo lo shock si attenuerà. Ma gli effetti psicologici perdureranno con risvolti significativi. Resta ancora vero ciò che fu evidente fin dall’inizio:
benché esistano alcune reali differenze tra gli americani, non esiste tuttavia alcun conflitto di fondo. Possono esserci delle rotture, ma non si aprirà mai un baratro. C’è invece un comune amore per questa nazione: un’unica nazione alfine».


Luce per le nazioni
All’isolazionismo, tuttavia, si oppone un altro aspetto del mito legato al modello dell’esodo dei padri fondatori. Il passaggio degli emigranti nel nuovo mondo era visto come un’opera della divina elezione e provvidenza, una sorta di patto che impegna gli americani a manifestare la propria gratitudine per la sorte loro occorsa, costruendo una morale civile basata sulla Bibbia. In questo modo l’America, proprio come la terra di Israele della Bibbia, deve diventare “luce per le nazioni”. Gli americani sarebbero dunque coloro ai quali sono state in qualche modo affidate le speranze dell’umanità e il suo futuro. E ancora, anche se gli artefici culturali della nuova nazione non fossero guidati da una fede rigorosamente biblica, essi vedrebbero comunque la loro opera in un’ottica totalmente morale, appellandosi alla “coscienza del mondo” per motivare le loro scelte.


Perciò, animati da questo aspetto dell’esperienza americana, gli americani hanno dimostrato una grande prontezza al sacrificio per aiutare alleati e amici in tutto il mondo, anche a scapito degli interessi della sicurezza nazionale.


Ecco perché così spesso la politica estera americana si richiama alle esigenze della moralità, alla necessità di promuovere e difendere i diritti umani, la giustizia e la libertà nel mondo intero, e i leader americani si appellano al “ruolo speciale” dell’America nel mondo in termini quasi religiosi, proprio come il nome dato all’attuale campagna militare: “Libertà duratura”.


Quello di “libertà” è certamente il concetto chiave. La libertà nell’esperienza americana, tuttavia, è un concetto in evoluzione, che non ha mai seguito linee ideologiche e così è risultato del tutto adattabile a diverse situazioni, soprattutto allorché la sicurezza nazionale era in pericolo. Alla base di tutto ciò, tuttavia, sta la crescente visione di libertà intesa come possibilità di determinare cosa questo termine significhi secondo le regole della vita democratica. Vale a dire che la concezione americana della libertà si è sviluppata includendo una libertà che non può essere legata ad alcuna definizione immutabile di questa idea, portando così alla tolleranza verso una grande varietà di opinioni particolari e a una continua lotta contro l’imposizione di una qualsiasi di queste opinioni particolari. La libertà fondamentale, perciò, è la possibilità di definire la libertà come un valore protetto dalle interpretazioni della Costituzione. La Costituzione stessa fornisce le modalità per mettere in discussione le sue differenti interpretazioni nel corso della storia, e questo è il nocciolo, la base intoccabile, il punto unificatore di tutta l’esperienza americana.


Quando il Presidente parla di “libertà duratura”, per la maggior parte dei cittadini americani oggi questa espressione suona abbastanza vaga e dai confini sufficientemente vasti da lasciare spazio a diverse interpretazioni. La gente non apprezza eccessive elucubrazioni filosofiche sui fondamenti della libertà. È quasi come se pensassero che si tratta di una cosa “ovvia in sé”, come afferma la Dichiarazione di Indipendenza.


Legge naturale
Parlando in termini filosofici, si potrebbe essere tentati di dire che prevale una visione della libertà come “legge naturale”, e benché gli intellettuali dibattano di questo argomento - sia a favore che contro - per la maggior parte della popolazione si tratta di un fatto più legato all’esperienza che alla teoria. Per costoro la libertà è soprattutto la libertà dell’individuo di forgiare il proprio mondo, la libertà di esprimere la propria creatività, la libertà di porre e definire i propri obiettivi nella vita senza restrizioni basate su sistemi teorici e astratti.


È soprattutto questa libertà che gli americani hanno sentito minacciata dagli eventi dell’11 settembre. Ed ecco perché questi fatti hanno scatenato un tale senso di patriottismo. Ecco perché la gente è stata disposta a mettere da parte tante opinioni diverse (e incompatibili a livello teorico) per difendere se stessi. Come risultato, all’inizio del nuovo anno il popolo americano sente ancora una volta il resto del mondo come ostile all’America, confermando così la sua perenne tentazione di isolazionismo, e portando gli americani a diffidare di tutto ciò che è “straniero”, oltre che a una politica estera unilaterale. D’altro canto questa tentazione sarà messa in discussione dal riconoscimento di un’altra possibilità di mettersi alla guida di un’alleanza mondiale in nome della libertà umana, dei diritti umani e della dignità umana che mostra l’America come la depositaria della speranza di libertà dell’intera umanità. Le due tendenze sono presenti nell’amministrazione Bush e tra i leader di entrambi gli schieramenti politici. La loro interazione determinerà il futuro della politica estera americana nel nuovo anno.


Tutto dipende da come il popolo americano concepirà la libertà che ha sentito minacciata dagli attacchi dell’11 settembre. Ora che il popolo americano non può più considerare i propri confini come un baluardo di difesa contro coloro che intendono privarli di questa libertà, esiste indubbiamente un’opportunità di riconsiderare a fondo il reale significato della parola libertà. Ma le argomentazioni teoriche non prevarranno. Il futuro appartiene a coloro che possono mostrare di essere veramente liberi.


Sta crescendo l’opposizione dei conservatori alla politica di George W. Bush. In effetti, i conservatori del Partito Repubblicano non si sono mai fidati fino in fondo della famiglia del Presidente. A dispetto del legame col Texas, la sensazione è che il cuore dei Bush batta per quella finanza Repubblicana del Nord Est che non condivide né la riscoperta della morale oggettiva, né il programma antistatalista. Se i finanzieri Repubblicani sono sostanzialmente internazionalisti, i conservatori sembrano piuttosto isolazionisti. E hanno deciso di appoggiare Bush II nella speranza che fosse un uomo diverso dal padre (ma certamente anche come il minore di due mali rispetto ad Al Gore). Durante la campagna elettorale, George W. Bush ha fatto di tutto per convincerli di essere uno di loro e molti gli hanno creduto. Oggi quei conservatori che non l’hanno votato dicono: “Ve lo avevamo detto”.


Il disappunto nasce dalla politica interna del Presidente, che sembra cedere al programma del Partito Democratico e appare troppo incline al compromesso. L’aumento dei finanziamenti federali per l’educazione, la firma della “legge sulla riforma della campagna elettorale” (che fissa un limite ai contributi dei “comitati di azione politica” per quei candidati che si dimostrano disposti a promuovere i loro programmi), l’istituzione di un nuovo ente burocratico federale, quello per la sicurezza negli aeroporti, sono questi i provvedimenti che – almeno a detta di alcuni – hanno svelato i veri interessi del Presidente.


Anche in politica estera, se la maggioranza degli americani è soddisfatta del Presidente-Comandante supremo nella guerra contro il terrorismo, c’è preoccupazione per l’apparente incoerenza di Bush quando si oppone ad un Israele che vuole combattere la propria battaglia contro i terroristi senza alcun compromesso. I discorsi presidenziali di questa settimana che invocano, con eloquenza e fermezza, la messa al bando della clonazione umana in tutte le sue forme, costituiscono invece quel genere di iniziative capaci di convincere i conservatori che, in fondo, il Presidente è ancora “uno di loro”. Tuttavia quegli stessi conservatori ammoniscono Bush perché non dia per scontato il loro appoggio e le loro critiche sono assai più rumorose. Intanto è tornato a galla Gore che, viaggiando per il Paese, critica il Presidente, ma i Democratici – perlomeno fino ad oggi – non hanno dato ancora alcun segnale di volerlo come loro leader. Anche Clinton è tornato sulla scena, facendo capolino qua e là, tanto per tastare le acque, smanioso di venir accettato e perdonato, ma i cittadini americani mostrano di non volerlo prendere in considerazione, se non nelle battute di spirito.

di Albacete Lorenzo
Tracce, Gennaio 2002