PRIGIONIERI

I GIORNI DI RUSSIA

Giorni di inferno nel Monastero Lager 

Parlare di prigionia (nello specifico escludendo la Russia), a 60 anni di distanza dai fatti, oltre che imbarazzo smuove acque stagnanti sedimentate su dolori e contese gestite più o meno politicamente bene. Cattive memorie, diatribe si riaccendono ad ogni piè sospinto, dando a questo o a quello meriti e demeriti che mai avrebbe pensato di accollarsi. Con un monologo monocorde sulla prigionia si rischia anche di dimenticare quelle piccole gioie che si sono avute e ancor più l’esperienza fatta sull'uomo, “Ho imparato in questi mesi, più che durante tutta la mia vita, a conoscere gli uomini; le loro vigliaccherie, le loro bassezze, ed anche, raramente, il loro coraggio, il loro valore e la loro bontà. Dal punto di vista psicologico e sociale nulla vi è di più rivelatore della guerra e della prigionia” diceva un reduce, l’apertura sul mondo che i flussi migratori vincolati dell’epoca fascista avevano cancellato (ma quest'ultima solo e in specifiche realtà anglosassoni come il Sud Africa, la Nuova Zelanda, l'Inghilterra e gli Usa). Ci si dimentica della fratellanza e della solidarietà che spesso legava per tutta la vita i protagonisti, i superstiti. Lasciando parlare i protagonisti non possiamo, per la Russia, tralasciare quanto ebbe a dire Togliatti  "Se un buon numero di prigionieri morirà in conseguenza delle dure condizioni, di fatto non ci trovo assolutamente da dire... (che poi non era esattamente il senso compiuto che voleva dare agli avvenimenti relativamente alla lettera (integrale) sotto). La difesa d'ufficio del suddetto di Stalin lascia però molto a desiderare. Se d’una cosa i prigionieri erano certi è che sarebbe stata lunga, che il loro orgoglio e onore era ormai sotto i piedi del nemico e che anche il più stupido dei carcerieri aveva il diritto di offenderti. La convenzione di Ginevra, (La Russia, che non aveva una "cultura della prigionia", non aveva aderito alla nuova Convenzione del 1929) era come la favola di Cappuccetto Rosso. Andava bene nelle notti d’inverno per addormentare i bambini. Ma le conclusioni, se conclusioni potranno esserci, questa volta le mettiamo alla fine. Lettera  http://www.larchivio.org/xoom/togliatti-letteraalpini.htm

INTRODUZIONE al racconto di Emilio Vio del 3° Bersaglieri da Historia del febbraio 1989 
Suzdal, nella regione di Vladimir a Est di Mosca, è una antica città museo della Russia, rimasta inalterata nel tempo. I suoi campanili, le sue chiese si presentano già da lontano. La più famosa di queste è il monastero del (Nostro) Salvatore e S. Eufemio costruito nel 1352 situato nella parte nord della città. Dietro all’alto muro del monastero con le sue dodici torri la Cattedrale della Trasfigurazione (1594). Si riconosce anche quella dell’Assunzione del 1525, San Nicola con l’ospedale (1669). Qui a S. Eufemio vennero internati i prigionieri italiani che sopravvissero alla ritirata e alla fine del lungo rigido inverno del '43. La loro speranza di sopravvivere andò in larga parte delusa, perché solo una minima parte si salvò nel complesso dei prigionieri di guerra sul suolo sovietico. Al cimitero una lapide ricorda gli 823 prigionieri morti solo qui.

Cattedrale AssunzioneNel campo, tristemente famoso col numero 160, le privazioni si fecero veramente sentire secondo il dettame della lettera di Togliatti a Vincenzo Bianco del 15 febbraio 1943 “La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso l'Unione Sovietica è stata definita da Stalin e non vi è più niente da dire" (Stalin non ammetteva distinguo: già metà dei fuorusciti italiani era sparito !!)”. Vincenzo Bianco nella lettera perorava un atto di rispetto, comprensione per gli italiani. "Se un buon numero di prigionieri morirà in conseguenza delle dure condizioni, di fatto non ci trovo assolutamente da dire, il fatto che per migliaia di famiglie la spedizione contro la Russia si concluda con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore e il più efficace degli antidoti". Poi ”Io non sostengo affatto che i prigionieri si debbano sopprimere, tanto più che possiamo servircene per ottenere certi risultati in un altro modo; ma nelle durezze oggettive che possono provocare la fine di molti di loro, non riesco a vedere altro che la concreta espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia”. I soldati, al 99%, ci vengono mandati in posti così. Questo vale per gli alpini e per l’Armata Rossa (tutte le volte che uscì dai confini di stato) indifferentemente (ma questo Togliatti, politico navigato, non sarebbe mai arrivato a capirlo). Se per i Russi la vita sotto la minaccia sovietica era dura, per i prigionieri era anche peggio e Suzdal non era il peggio. La convenzione di Ginevra naturalmente parlava d’altro (ma i russi eran tenuti ad osservarla? o a invocarla post bellum dopo che l'avevano ignorata prima ) e la Croce Rossa per istituto doveva accertarsi di questo ?. Per chi ha letto le pagine di prigionia della Grande Guerra, ricorderà che la teoria è una e le pratiche centomila. La rieducazione politica, che i comunisti fuoriusciti italiani ritenevano necessaria per il dopo conflitto, prese avvio con commissari politici che avevano come primo scopo oltre che la rieducazione, il reclutamento di un certo numero di agenti (neanche troppo segretamente) infiltrati. Non tutti naturalmente si piegarono o dettero l’impressione di piegarsi. Ancora nel 1945 (10 maggio a guerra finita) Il colonnello Krastin, comandante del lager n. 160, diceva in un rapporto che il gruppo "antifascista" comprendeva 185 persone, e che "il lavoro di indottrinamento antifascista veniva costantemente frenato dagli ufficiali reazionari, in special modo dagli alti ufficiali". Fra questi, il generale degli Alpini Umberto Ricagno e i cappellani, che si occupavano "periodicamente di propaganda religiosa”. Dopo il rimpatrio dei pochi sopravvissuti, restarono in mano sovietica 28 prigionieri (tra i quali proprio il Ricagno, oltre al cappellano Brevi). Solo il 5 giugno 1953 !!! (8 anni dopo la fine della Guerra) la Sezione militare della Corte suprema deliberò la scarcerazione di tutti i prigionieri italiani. Era il momento in cui la lotta al Cremlino era aperta: Malenkov doveva far fuori Lavrentij Beria, mentre Kruscëv si apprestava a sua volta ad esautorare la trojka Malenkov-Molotov-Kaganovis. In Russia della guerra degli italiani importava ormai poco. Gli ultimi prigionieri italiani, vittime di un gioco più grande di loro, potevano finalmente partire per Vienna. Solo Don Brevi e il capitano Ludovico Scagliotti, reo confesso di aver rubato, con altri commilitoni, un torello ad un contadino furono costretti ad attendere il gennaio successivo!. Fra le motivazioni accampate anche la richiesta di analoghe restituzioni dall’Italia. Se erano ceceni o cosacchi sapevano già a cosa andavano incontro. 

... Al lager 160 arrivò un certo triestino, Roncato, che dapprima si presentò come francese, in divisa russa. Il suo compito fu quello di iniziare l'opera di indottrinamento politico tra gli ufficiali che eseguì con zelo, ma senza troppo seguito: le cause principali; fame .. fame.. freddo. Uomo alquanto rozzo, il Roncato, quando le epidemie non ebbero più vittime, riuscì a costituire un primo nucleo antifascista, con un gruppo di sparuti ufficiali. Cominciò a tenere delle riunioni con gruppi di prigionieri, intrattenendoli più che altro sui suoi presunti avventurosi ricordi personali. Fu sostituito da un bolognese, nome di battaglia Rizzoli, nome vero Gottardi. Tutti questi facevano capo a Paolo Robotti, cognato di Togliatti, che appariva nel campo nelle occasioni più importanti e che dirigeva a Mosca il giornale l'Alba ....dal libro di Bruno Cecchini  MEMORIE  DI  UN CELOVIEK BERSAGLIERE

 

Le alte sfere russe contavano molto sull'aspetto propagandistico e sulla politica; del resto già nei primi mesi del '43, quando le epidemie continuavano a mietere vittime nei campi, fu organizzata la stampa di un giornale per i prigionieri. Con queste motivazioni per i soldati italiani sorgeva "l'Alba". Il primo numero de "l'Alba" comparve il 10 febbraio 1943, sotto la direzione di Rita Montagnana (compagna di Togliatti prima del suo amore per la Jotti, relazione che oggi 2009 farebbe programma politico per un uomo con cariche di potere http://archiviostorico.corriere.it/1993/luglio/19/Iotti_Togliatti_una_love_story_co_0_9307191964.shtml ). La prima pagina del foglio esordiva con un commento sulla situazione militare in Unione Sovietica, mentre un fondo anonimo criticava aspramente il regime fascista operante in Italia. Il giornale usciva ogni dieci giorni e raggiunse in breve una tiratura di settemila copie per un totale complessivo di 144 numeri (l'ultimo dei quali reca la data del 15 maggio 1946). Dopo i primi quattro numeri fu diretto da Edoardo D'Onofrio (fino all'agosto del 1944): in seguito tale compito fu assunto da Luigi Amadesi e Paolo Robotti. 

IL PROCESSO D'ONOFRIO http://www.cuneense.it/processo_onofrio.htm 
Visti gli articoli 479 e 482 del C. P. P. il Tribunale assolve gli imputati Luigi Avalli, Domenico Dal Toso, Ivo Emett, Giorgio Pittaluga, Ugo Graioni dal reato di diffamazione loro ascritto in ordine ai fatti specificati nei numeri 1 e 2 dell’opuscolo «Russia» essendo provata la verità dei fatti stessi e perché il fatto non costituisce reato. Condanna inoltre il querelante sen. Edoardo D'Onofrio al pagamento delle spese processuali.

Walter Amici 

dal poeta della steppa Giuliano Penco
Io resto qui.
Addio.
Stanotte mi coprirò di neve.
E voi che ritornate a casa
pensate qualche volta

a questo cielo di Cerkovo.
Io resto qui
con altri amici
in questa terra.
E voi che ritornate a casa
sappiate
che anche qui,
dove riposo,
in questo campo
vicino al bosco di betulle,
verra' primavera.

http://cronologia.leonardo.it/mondo35o.htm  - Kazakistan
I prigionieri italiani in Urss di Alberto Rosselli

Emilio Vio IL RACCONTO

L'isba era un elemento dominante dell’ambiente rurale russo. Si trattava di una costruzione a pianta quadrata con quattro stanze quasi uguali e, al centro, il focolare che faceva da riscaldamento diffuso poiché ogni abitazione aveva la sua parte. In alcune di esse, ai lati del camino, c’erano dei ripiani bassi e non molto profondi, che servivano da cuccette per sdraiarsi al calore del fuoco. Le finestre, piccoline per non esporre molta superficie al freddo, e davanti la porta d’accesso, un elemento costruttivo di piccole dimensioni, con un’altra apertura esterna, molto somigliante ad un piccolo corridoio, che funzionava come camera d’aria e non permetteva che l’aria calda sfuggisse ogni qualvolta si apriva la porta principale della casa. Ad ogni modo non si poteva evitare che, aprendola, un po' d’aria calda sempre scappasse via, e si convertiva rapidamente in vapore. Per costruire una isba era necessaria una buona quantità di humus ben triturato, paglia di segala, o qualche altro frumento, e sterco di cavallo o di vacca. Con l’aggiunta dell’acqua, si procedeva all’impasto, che era fatto a piedi scalzi da uomini e donne. Al termine, con l’aiuto di forme rudimentali fatte con tavole, si ottenevano dei blocchi equivalenti a molti mattoni, che poi si sarebbero seccati all’aria aperta. Una volta pronti e ben secchi, si procedeva alla costruzione vera e propria della isba. Il tetto era di paglia, il pavimento di terra battuta e gli intonaci si realizzavano con lo stesso materiale dei blocchi. Alla costruzione partecipavano tutti i membri validi della famiglia senza distinzione di sesso.

“Ai prigionieri italiani e romeni che vi giunsero verso la metà del gennaio 1943 fu negato lo spettacolo delle meraviglie della città museo: forse perché arrivavano di notte o forse perché non avevano la forza di guardarsi attorno dopo aver marciato sulla pista ghiacciata per 40 km dalla stazione di Vladimir. Valicarono l'alto torrione d'ingresso e passarono sotto l'arco della Annunciazione, ignari di lì a poco di calcare il pavimento di alcuni dei più famosi conventi del mondo. Nessuno disse loro dove fossero giunti e quale fosse la storia leggendaria del Lager 160 per prigionieri di guerra. Vi fu il solito interrogatorio e la solita minuta perquisizione con una prima sommaria divisione tra ufficiali e soldati. Gli Ufficiali vennero avviati all'ex dormitorio dei monaci, con celle più o meno ampie con due assi per dormire e una stufa di mattoni però priva del combustibile. I soldati romeni, italiani, croati furono alloggiati invece in quello che fu chiamato " III Korpus" dove non esistevano plance (panche) di legno, ma la nuda terra battuta. Dal mese di gennaio al mese di aprile entrarono nel lager circa 2800 militari: ne sopravvissero non più di 200 (di più in altra versione). E' la medesima percentuale che si riscontrò negli altri campi tristemente famosi come Krinovaja, il cimitero degli alpini, Tambov, Elabuga ecc..ecc.. Al primo appello che venne effettuato dopo la moria di tifo petecchiale sul viale ancora innevato, i presenti erano esattamente 72, aumentati a 130 col rientro di quelli che erano stati trasferiti all'ospedale esterno oltre ad alcuni romeni. Durante questo primo periodo la alimentazione dei prigionieri consistette normalmente in una zuppa di cavoli acidi senza grassi e 600 gr. di pane nero al giorno. Tipico manifesto fascista sui prigionieri in Russia
I prigionieri dovevano recarsi a sera inoltrata nel locale che era stato adibito a cucina ( la chiesa di San Nicola ) a prelevarvi i secchi di zuppa, in ragione di uno ogni 15 persone e il pane. Soldati affamati romeni si aggiravano nel buio per assalire i portatori. Si dovettero formare squadre di difesa con coloro che erano ancora in grado di tenere un bastone in mano. I russi in questo periodo, pareva non esistessero: solamente le sentinelle marciavano su e giù nei bastioni e le sestry (sorelle-infermiere) irrompevano in qualsiasi ora del giorno e della notte vestite di scuro per costringere i malati di tifo, dissenteria a seguirle nel bagno e quindi al lazzaretto dove venivano ricoverati gli infetti. Allontanarsi dai propri compagni, dover morire da soli, senza il conforto la vicinanza di un amico, era il timore più grande di coloro che venivano attaccati dal morbo. Si ebbe più di un ammalato che fuggì dal lazzaretto, conoscendo ormai quale fosse la sua sorte, per confidarsi a un amico per consegnare uno scritto, una fotografia da riportare in Italia. Nel lazzaretto dislocato nel palazzo dell'Archimandrita a volte compariva un sanitario che distribuiva qualche cucchiaiata di permanganato, unico farmaco esistente nel campo. Circa il bagno abbiamo una inedita descrizione dal diario di un ex prigioniero:
" La costruzione adibita a bagno si trovava sul lato opposto a quello dell'ingresso. Si divideva in quattro parti, La prima era costituita da una specie di corridoio di tre o quattro metri di larghezza e una decina di lunghezza. Serviva da spogliatoio e sulla destra della porta d'entrata era sistemato il forno di disinfestazione in cui veniva gettato il vestiario (non per bruciarlo). In fondo un vano senza porta conduceva al bagno, una stanza quadrata di sette metri. Sul soffitto era sistemata una tubatura di ferro che correva attorno a tre delle pareti e dalla quale sgorgava l'acqua da fori praticativi. Lungo le pareti erano sistemate delle panche fradice, unica suppellettile del complesso. I prigionieri cercavano di conquistare un posto presso la parete al di là del quale c'era il forno alimentato a legna. Si usciva da questo stanzone per passare nell'ultimo locale dove ci si rivestiva con i panni che venivano estratti dall'altra parte del forno."

Il rituale era sempre uguale. I prigionieri vi erano condotti dalle infermiere che provvedevano anche alla loro depilazione completa con macchinette e rasoi. Nel bagno scene di miserabili corpi scheletriti che si battevano per appoggiarsi al muro.
Se la mischia durava a lungo intervenivano i soldati croati nominati dai russi, in nome della fratellanza panslava, kapò (sorveglianti). Non di rado più di un prigioniero veniva trascinato fuori dalle docce ormai cadavere. I vestiti poi quando venivano estratti bruciacchiati dal forno brulicavano delle larve appena nate, grazie al calore del forno che non era bastato. In queste condizioni gli infetti venivano condotti al lazzaretto vestiti di un camicione impregnato di un liquido nauseabondo e sdraiati su pagliericci dove avrebbero atteso la morte. Ogni giorno i cadaveri venivano trasportati nel sotterraneo della cattedrale della Trasfigurazione, spogliati e lasciati a congelare in attesa di essere nottetempo traslocati con slitte in una grande fossa comune fuori del campo. Durante questo periodo i più sani, ufficiali compresi, furono adibiti alla spalatura della neve dai bastioni: altro lavoro particolarmente raffinato era quello di sturare i pozzi neri che per il gelo erano continuamente intasati di urina e di escrementi che giungevano fino alle porte delle celle. I più fortunati erano adibiti a scaricare la legna o a lavorare in cucina, con la possibilità di avere un pezzo di legno e una cucchiaiata di minestra in più. All'inesistenza di tutto faceva riscontro invece l'assistenza politica. Al lager 160 arrivò un certo triestino, Roncato, che dapprima si presentò come francese, in divisa russa. Il suo compito fu quello di iniziare l'opera di indottrinamento politico tra gli ufficiali che eseguì con zelo, ma senza troppo seguito: le cause principali; fame .. fame.. freddo. Uomo alquanto rozzo, il Roncato, quando le epidemie non ebbero più vittime, riuscì a costituire un primo nucleo antifascista, con un gruppo di sparuti ufficiali. Cominciò a tenere delle riunioni con gruppi di prigionieri, intrattenendoli più che altro sui suoi presunti avventurosi ricordi personali. 
Le sue conversazioni erano zeppe di quel porco di Mussolini, quell'idiota di Vittorio Emanuele, che ovviamente ottenevano il solo effetto di irritare i suoi ascoltatori. Un errore madornale poi lo commise quando lasciò un foglietto di appunti che gli erano serviti da traccia, pieno di errori di ortografia. Fu sostituito da un bolognese, nome di battaglia Rizzoli, nome vero Gottardi. Tutti questi facevano capo a Paolo Robotti, cognato di Togliatti (
http://www.fondazionegramsci.org/guida_gramsci/41PaoloRobotti/index1.html ) , che appariva nel campo nelle occasioni più importanti e che dirigeva a Mosca il giornale l'Alba . Il gruppo antifascista che si era formato era guidato da un maggiore russo Procuranov che parlava italiano e informava gli adepti mensilmente sull'andamento della guerra. Analogamente la pasionaria romena Anna Pauker faceva per i suoi concittadini. Lasciamo per ora il problema politico ed i fatti che seguirono il 25 luglio del 43(caduta di Mussolini) per vedere come si evolve la situazione dopo la decimazione invernale e primaverile. Arrivato un nuovo comandante russo (Novikov) in sostituzione dell'evanescente che aveva permesso la perdita del 80% dei prigionieri, giunse anche la voce di un decreto di Stalin che avrebbe migliorato le condizioni con una priorità: romeni, italiani, ungheresi e tedeschi. Non venivano citati i già facilitati croati, i finlandesi e la legione Azzurra Spagnola. Il nuovo colonnello mise subito in atto alcuni provvedimenti che lasciavano prevedere un certo miglioramento nelle condizioni di vita. Quelli che erano sopravvissuti, nel lazzaretto, seppero che falegnami stavano preparando castelli di legno, nelle celle quasi vuote. Il vitto migliorò quando cominciarono ad arrivare le derrate USA. La neve si scioglieva lentamente e il campo presentava grandi macchie di erba verde. Allora vedevi uscire al sole scheletri di quaranta chili, trascinarsi sui vialetti del vecchio monastero appoggiati l'un l'altro, quasi ad assorbire dal sole la linfa vitale. Era lo stesso colonnello che li incitava a muoversi, e quelle larve di uomini tentavano sotto gli occhi del maggiore russo (della cellula) di fare anche ginnastica. Le razioni ora erano composte al mattino da 300 gr. di pane bianco, pochi grammi di burro salato o strutto o lardo, 10 gr di zucchero e ciai (tè) caldo. A mezzogiorno e alla sera equamente ripartiti altri 300 gr. di pane nero, una zuppa di piselli o cavoli e patate, una polenta (kascia) di grano saraceno o avena o farina di soia. Qualche volta del pesce secco. Escluso il pesce, il te e le granaglie tutto il resto era americano. Dopo tre mesi di cura alimentare, il regime subì qualche cambiamento. Sparirono pane bianco, diminuirono piselli e granaglie ad alto contenuto calorico. Il regime precedente restò in vigore solo per i distrofici in base allo stato fisico e per qualche politico raccomandato. Con il 25 luglio e le discussioni del dopo, si era creata una frattura anche all'interno dei ben disposti a causa del destino di Trieste vista dai Russi come cosa loro o di Tito. (allora i rapporti erano cordiali).
prigionieri tedeschiIl destino di Suzdal era stato già deciso alcuni mesi prima, quando nelle alte sfere si destinò il campo a prigione per ufficiali, in particolare tedeschi catturati a Stalingrado.
Stalingrado era caduta alla fine di gennaio del 43 e il colonnello (Von) PAULUS e lo stato maggiore si erano consegnati ai russi del generale Laskin. Sottoposto per oltre due mesi ad interrogatori, Paulus giunse a Suzdal in aprile con 60 suoi alti ufficiali, alcuni generali romeni, e tre generali italiani catturati sul Don: Battisti (Cuneense), Ricagno (JULIA), Pascolini (Vicenza). Paulus fece vita molto appartata finché un giorno fu trasferito (si era convertito, non rientrerà mai più in Germania). Vi restò invece un irriducibile, il suo capo di stato maggiore Schmidt che incanutì nei lunghi anni di prigionia isolato da tutti. Continuarono ad affluire al campo, per buona parte del 43, ufficiali italiani circa 600 da tutte le regioni, compreso la Siberia. La quota italiana era sempre maggioritaria e con la partenza dei romeni, che andarono a combattere a fianco dei russi, i servizi furono affidati a noi. L'infermeria veniva diretta da un medico russo d’origine romena, d’ottime qualità umane coadiuvato a turno da medici italiani e tedeschi. Il 28 aprile del 43 il comando sovietico aveva distribuito una cartolina della croce rossa per scrivere a casa una volta al mese e per ricevere posta e forse pacchi. Il 1944 fu un anno di lento ritorno alla normalità. La posta dall'Italia non arrivava, figurarsi i pacchi. Nell'estate proliferarono gli intagliatori di legno e ossa (ungheresi). Si organizzò una partita di calcio (fra italiani) e qualche spettacolo con strumenti raffazzonati. Il desiderio di vivere risorgeva. Quando venne annunziata la fine della guerra, il comando russo propose agli ufficiali di recarsi a lavorare nei Kolchoz (fattorie) dei dintorni. Pochi ufficiali provenivano dalle campagne, ma tutti s’inserirono ugualmente: taglio dei cereali, raccolta dei cavoli e delle patate, trebbiatura erano i lavori prevalenti. I prigionieri, pagati dai Kolchoz, non vedevano una lira perché tutto andava alla direzione del campo, ma in cambio ebbero qualche aggiunta al vitto, compreso il latte. Il dirigente Rizzoli fu sostituito verso la fine del 45 quando cominciarono i primi rientri, e pure lui rientrò. Molte famiglie furono avvertite solo allora dell'esistenza in vita del loro congiunto. Il nuovo venuto, Ossola, fu una figura anonima, una comparsa così come i comandanti militari del campo che sostituirono Novikov: Krastin e Gherassimov. Proprio per l'indifferenza di questi non sempre le condizioni fissate per il vitto vennero rispettate. Tanto che si arrivò ai primi del 46 con uno sciopero della fame per l'incuria e la disonestà dei funzionari preposti agli approvvigionamenti. Per diversi giorni ormai alla vigilia del rimpatrio venne servita una zuppa a base d’ortiche e sansa di soia, residuo della lavorazione dell'olio. I più affamati che l'accettavano la restituivano ai pozzi neri del campo nelle medesime condizioni nelle quali era entrata. Il maggiore russo responsabile del vitto, soprannominato krapiva (ortica), si preoccupò dopo pochi giorni di avvertire che sarebbero giunti alcuni carichi di carne. E' così fu infatti: si trattava di teste, corna, zoccoli e garretti di bovini. L'ultima beffa, ma ormai era finita. 
Emilio Vio  3°Bersaglieri

 
Campo 160

 

Le foto di Suzdal sono ricavate da guide turistiche recenti  Qui EX CAMPO DI CONCENTRAMENTO N. 160

“ .. alcune donne avevano compassione delle nostre sofferenze .. entravano nelle case per buttarci patate, carote pane “.

Il trasferimento anche in campi lontani, fino agli Urali  o oltre nell'Asia Centrale avveniva a piedi con le guardie che ripetevano "Davaj" (avanti). Non c’era alternativa o avanti o morire. Si calcola che dei 70.000, caduti nelle sacche, ne siano morti almeno 20.000 nelle marce del davai (prigionieri di dicembre,gennaio, febbraio). Pasquale Amato viene catturato in dicembre con 5.000 commilitoni, a Tambov arrivano in 1.890. Ulteriori arrivi portano il totale a 20.000 solo 1.000 sopravviveranno. Camicie nere e tedeschi erano già stati eliminati prima di partire. A Krinowaja o Krinowoje i registri dei decessi sono spariti nessuno sarebbe riuscito a decifrarli “….non si riusciva a sgombrare il campo dai cadaveri… legati testa e piedi gli uni agli altri venivano trascinati dai muli, in alcuni campi bisognava organizzare squadre per evitare il cannibalismo. 

Se si giunge a Suzdal da Vladimir, si scorgono d'un tratto in lontananza i bulbi blu-azzurro smaltati di stelle dorate della cattedrale della Natività della Vergine, il profilo slanciato del campanile del monastero della Deposizione, le sommità delle torri di mattoni del monastero fortezza del Salvatore e Sant'Eufemio. Così ha inizio la presentazione di Suzdal nella guida turistica francese (1982) di quella che è considerata l'antica città santa degli Zar di Russia: la città museo di Suzdal, città dell’anello d’oro (corona di città intorno a Mosca). Il guardiano del nord, così viene chiamato Sant'Eufemio che prese il nome dal primo padre superiore che vi si installò dopo la fondazione avvenuta nel 1352. Il convento e i suoi recinti vennero dapprima costruiti in legno e solamente all'inizio del XVI secolo si cominciò a usare la pietra. La guida esamina poi la chiesa dell'Annunziata, il tempio della Trasfigurazione, quello della Dormizione, la chiesa di San Nicola, il palazzo dell'Archimandrita, le celle dei monaci e infine la tristemente famosa "prigione di stato" che fu il primo alloggio dei frati. La guida spiega come in questa prigione venissero incarcerati dapprima gli ecclesiastici che avevano rinunziato allo stato religioso divenendo atei o adepti di sette segrete, e successivamente i prigionieri di Stato, nemici dello Zar. A questo punto terminano le note storiche e nulla è più detto di significativo fino ai giorni nostri (1982).
 
LA TESTIMONIANZA - http://www.cuneense.it/prigionia.htm  estratto Intervista al Generale Martini, prigioniero del campo di Suzdal. A cura di Maria Paola Gianni
..... Come era la vita nei gulag? “Era un inferno e i prigionieri, eccetto quelli che si vendevano per un tozzo di pane, erano diventati larve umane. Le condizioni igieniche erano terribili, i parassiti continuavano a tormentarci, avevamo sia la barba che i capelli lunghi, le unghie dei piedi e delle mani incarnite, il naso gocciolante. Quando nel nostro campo di Suzdal n. 160, in provincia di Vladimir, vennero riuniti tutti gli alti ufficiali provenienti dagli innumerevoli lager sparsi in Europa e in Asia, appresi simili sventure patite da altri prigionieri provenienti dai gulag. Nel campo di Suzdal fummo sistemati in 15-20 per ciascuna delle celle dove una volta i frati alloggiavano singolarmente. Nudi e tremanti, ci rendemmo conto di essere ridotti a quattro ossa appena attaccate tra di loro dai tendini ormai anch’essi rilassati; non più muscoli, ma pelle attaccata alle ossa…”
Come si è salvato? “Se io in questo momento le sto parlando lo devo a un uomo che era prigioniero con me in Russia, il capitano Emilio Lombardo, classe 1912, del Distretto di Messina. Allora Lombardo aderì al comunismo, entrò nel gruppo antifascista e fu mandato a Mosca. Aveva percorso tutte le tappe per diventare un uomo di fiducia di Paolo Robotti, il cognato di Togliatti, il quale aveva la sovrintendenza a tutti i prigionieri. Quando siamo arrivati a Vienna, Palmiro Togliatti, alias Ercole Ercoli, alias Mario Correnti, disse a Robotti che non voleva veder tornare gli ufficiali italiani, per non far raccontare loro l’accaduto. Purtroppo non ci sono documentazioni scritte, ma Togliatti, nei primissimi giorni del luglio ’46, decise di dirottarci in Jugoslavia, nelle foibe di Tito, dov’era facilissimo far scomparire ogni traccia. Per fortuna Lombardo, grande amico e confidente di Robotti, riuscì a capire la vera destinazione della nostra tradotta e si precipitò al comando alleato, per chiedere aiuto. Mi ricordo una gran frenata del treno a Vienna, gli inglesi, con le armi spianate contro i russi, hanno fermato la tradotta e ci hanno liberato. Eravamo più di 570, tutti ufficiali italiani, tutti scampati alla morte”.
Com’erano i russi? “Vi era una netta distinzione tra i russi comunisti e i non comunisti. La massa della popolazione era anticomunista, ospitale, rispettosa. I russi iscritti al partito, invece, erano in gran parte violenti e sanguinari, a causa della propaganda loro impartita che descriveva gli occidentali, cioè i borghesi capitalisti, come tiranni”.
E l’Esercito Rosso? “Nell’Esercito Rosso la differenza era ancora più netta. Ecco perché chi cadde prigioniero di truppe regolari subì una sorte migliore di chi finì in mano alle truppe della Nkvd, la polizia segreta russa, equivalente alle SS naziste”.Paolo Robotti
I famosi “vagoni della morte”? “Da quei carri si levava l’urlo implorante “vadà! Vadà!” (acqua! Acqua!). Io so che cosa accadde sulla tradotta ove mi trovavo, che fece scalo alla città di Vladimir. Lungo il tragitto, durato circa quindici giorni, le scorte aprivano i vagoni solo per scaricare i morti: li buttavano giù sul marciapiede ghiacciato. Il rumore dei loro crani che battevano a terra è un altro incubo per la mia memoria. Allo scalo di Vladimir scaricarono circa cinquecento cadaveri che vennero sepolti in una fossa comune che ora è diventata un parco pubblico”.
Ci sono ancora vivi, in Russia, soldati dell’Armir? “Una crudele e subdola propaganda comunista per oltre cinquant’anni ha fatto credere ancora vivi ed eventualmente con famiglia moltissimi degli italiani che non avevano fatto ritorno. D’altra parte molte famiglie preferivano credere a quelle inverosimili bugie, piuttosto che sapere e realizzare che i loro cari non c’erano più”.
Qual è la differenza tra un campo di concentramento russo e uno nazista? “Quando gli italiani che erano prigionieri dei tedeschi sono stati liberati dai russi, ciascuno di loro aveva ancora: un tascapane, un cucchiaio, una gavetta, una forchetta, un gavettino. Dopo due giorni che passavi in mano ai sovietici spariva tutto, non avevamo più un cucchiaio per mangiare la minestra. Noi in prigionia non avevamo nulla. Tanto per fare un esempio, le mie unghie crescevano e non sapevo come tagliarle, e non avrei nemmeno avuto il tempo per pensare di tagliarle anche se avessi potuto, perché l’unico mio pensiero era quello di trovare qualcosa da rosicchiare per sopravvivere. Non c’era nemmeno la possibilità di lavarsi, eravamo delle bestie, io camminavo a quattro zampe. I sovietici eliminarono tutte le salme dei prigionieri di guerra, perché gettate nelle fosse comuni. I nazisti uccisero barbaramente milioni di ebrei, mentre Stalin ne uscì con le mani pulite, perché non ha usato le camere a gas, ma li ha fatti morire per via naturale. Inoltre, siccome l’Inghilterra e l’America erano alleati, hanno avuto tutto l’interesse che non trapelasse nulla di quanto accaduto in Unione Sovietica, tutti sapevano, ma a nessuno è convenuto parlare. Dai lager nazisti arrivava regolarmente la posta, meno che nelle grandi battaglie o durante l’occupazione tedesca a Roma, dai prigionieri dei lager russi non è quasi mai arrivata né una lettera, né una cartolina. Molti degli italiani che morirono per malattia mentre erano nei lager nazisti nell’Europa dell’Est sono stati regolarmente seppelliti in cimiteri, e non in fosse comuni, vicino ai campi di concentramento. Caduto il muro di Berlino queste salme italiane sono rientrate, perché sono state ritrovate non solo le documentazioni di morte, ma anche le singole tombe con le rispettive ossa. Vuol dire che i tedeschi seppellivano umanamente le loro vittime”.
nota del sito: l'affermazione del salvataggio è pesante e come detto non documentata ma ... non è la prima volta che incontro lo sviluppo di una tale vicenda. Far sparire un treno, noto alla Croce Rossa, è impossibile ma lo era anche fare guerra a Tito per sue licenze durante e postbelliche. Chi finiva nei campi poi nelle foibe non aveva molte possibilità di dialogo durante e dopo il conflitto essendo la cosa del tutto ininfluente e indifferente per gli alleati. Un Sergente d'artiglieria alpina scampato a  Cefalonia, T.G. ora deceduto, mi raccontò che, aggregato da prigioniero pratico di lavorazioni del cuoio a una unità SS, fece tutta la campagna di Russia (almeno quella in ritirata del 1944 verso la Germania) al seguito dei tedeschi finendo a Berlino il giorno in cui venne firmato il cessate il fuoco. Raccolto da soldati Americani si provvide dopo mesi al rientro, ma mancando i mezzi gli italiani vennero indirizzati a piedi, attraverso la Cecoslovacchia e l'Austria verso sud con l'unica garanzia del vitto nei comandi tappa della CRI e degli alleati. L'autunno poi l'inverno nordico incalzavano e la colonna di italiani venne a trovarsi, nel passaggio più favorevole verso l'Italia  in territorio controllato dai partigiani di Tito (in Carinzia Via Tarvisio-Udine). Circondati vennero arrestati e avviati verso i campi di concentramento da cui si poteva uscire o per morte "naturale" da sfinimento o per le foibe.  Anche in questo caso la cosa era nota alla Croce Rossa e un sorvolo aereo ricognitivo permise fortunatamente di individuare il possibile luogo di detenzione. Le pressioni esercitate portarono al loro rilascio. L'internamento degli ufficiali sarebbe stato molto più semplice poiché contro di questi potevano essere imbanditi processi per responsabilità militari (molti della Russia erano passati nel 41/42 da un servizio in Jugoslavia) o usati come arma di pressione per avere i criminali di guerra del famoso Listone ...Gen Roatta, l’ambasciatore Bastianini, i gen.  Robotti e  Magaldi .. etc ... da processare e impiccare http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/personaggi/roatta.htm 

C'era un altra comunità oltre ai fuoriusciti comunisti che cadrà sotto gli impeti delle purghe staliniane. Gli emigrati di Crimea. Nel 1830 e nel 1870 giungono in Crimea, e precisamente nel territorio di Kerc, allettati dalle promesse di buoni guadagni e dal miraggio di fertili terre quasi vergini, due flussi migratori dall’Italia, altri poi se ne aggiunsero, chiamati da parenti e conoscenti ormai sul posto raggiungendo una cifra stimata in 2.000 persone in gran parte provenienti dal Sud (Puglia) saliti nel tempo a 3.000. Sono soprattutto agricoltori, marinai (pescatori, nostromi, piloti, capitani) ed addetti alla cantieristica navale: la città di Kerc si trova infatti sull’omonimo stretto che collega il Mar Nero con il Mar d’Azov e sta diventando un porto importante.
All'epoca della rivoluzione russa, i nostri connazionali in Crimea erano quindi oltre 3.000 (2% della variegata popolazione della penisola in maggioranza tartara). Al momento delle purghe staliniane molti hanno già fatto fagotto e sono ritornati in conseguenza della collettivizzazione dei terreni agricoli. Tra gli italiani rimasti persone arrestate, fucilate poi la deportazione di un migliaio di questi nei gulag siberiani e del Kazakistan. La situazione peggiora quando l'Italia entra in guerra nel 1941 e questi vengono considerati spie. Almeno la metà morirono di stenti negli spostamenti. Solo uno su dieci è rientrato a Kerc, dove c'è ora una comunità italiana di 350 membri: gli altri sono rimasti in Kazakistan. Vivono da poveri e vorrebbero la cittadinanza italiana, ma non possono dimostrare le loro origini perché i sovietici hanno distrutto ogni archivio. 47 di essi già negli anni Novanta hanno chiesto la cittadinanza, ma solo due ci sono riusciti. Nel 1992 hanno costituito un'associazione e stanno lentamente restaurando la chiesa, che è l'unica cattolica della città e ha un parroco polacco
Giulia Giacchetti Boico e Giulio Vignoli ne “La tragedia sconosciuta degli italiani di Crimea” (pp. 302) Una storia «scomoda», il saggio trilingue ha dovuto essere stampato in Ucraina grazie a una sottoscrizione ed è reperibile solo rivolgendosi agli autori (0185/669510 oppure
vignolirusso@libero.it ) o http://www.italianinelmondo.com/crimea/italiano.asp 

“Pensate alle valle del cuneese, dove si reclutano i soldati di una di quelle divisioni che sul fronte del Don sono

state distrutte. Su ognuna di quelle case oggi si è abbattuta una catastrofe. Il padre, il figlio, il fratello che Mussolini

ha mandato in Russia non torneranno più.” P. Togliatti, Discorsi agli italiani (Mosca, 1943)

Una pagina polemica da http://www.mascellaro.info/abes/ipdelv/index.php               NON BUGIE DALLE GAMBE CORTE MA ADDIRITTURA SENZA GAMBE

Egregio Signore,
…… Per quello che a me risulta (dallo spoglio della stampa sovietica) il governo sovietico ha pubblicato la lista numerica dei sopravvissuti alla fine della guerra e le date esatte di consegna di tutti i sopravvissuti
(con la eccezione credo di una ventina) …è assurdo anche solo pensare alla più lontana possibilità di esistenza di «dispersi  sopravvissuti » perché l'equipaggiamento di quei poveri ufficiali e soldati italiani non consentiva la sopravvivenza in quelle condizioni … i responsabili diretti del massacro di quei giovani (Messe e gli altri, non esclusi i vescovi e i dirigenti di Azione Cattolica che benedissero la spedizione criminale contro la Russia. ndr non  si sa perché non includa PIO XII)
si servono del male da essi commesso per seminare odio e discordie tra i popoli e nel nostro popolo... Nelle condizioni in cui erano (i russi), hanno fatto quanto dovevano (o potevano). Purtroppo noi italiani ci troveremmo molto imbarazzati se quelle autorità ci chiedessero conto dei prigionieri russi fatti dalle truppe italiane. Lo sa che non ne è tornato in Russia nemmeno uno? Messe e gli altri generali italiani li consegnavano ai tedeschi che li passavano ai forni crematori   ...Cordialmente  Palmiro Togliatti

La maggioranza dei sovietici passati ai tedeschi erano dei 'prigionieri puri' che si erano arruolati per sfuggire a morte certa nei lager (dove morirono, tra il '41 e '45, circa 5 milioni di prigionieri sovietici), molti altri ne condividevano le idee od erano anticomunisti per nazionalità !! e rimasero coi tedeschi, combattendo e arrendendosi agli americani il 28 aprile 1945. Non ci addentriamo nella galassia dei transfughi dell’ex Urss poichè furono circa 1 milione di uomini passati al Fuhrer fra cazachi, chirgisi, usbechi, turcmeni, caracalpachi etc…),

Ndr: Le montagne dell’Appennino erano piene di partigiani russi evasi l’8/9/43 dai campi di concentramento, ma non solo si trattava anche di disertori che avevano prima tradito l'Urss vestendo la divisa tedesca, poi di servizio in Italia al momento della repressione partigiana e della ipotizzata fine del Reich saltavano di nuovo il fosso aggregandosi ai partigiani. Per questi il destino era tragico perchè gli era sconsigliato di ritornare in Russia dove li avrebbero trattati come disertori con i metodi che ben conosciamo di Stalin. Forse è a questo che voleva riferirsi Togliatti. Si stima che gli ex prigionieri o manovali inquadrati nelle compagnie di lavoro tedesche Hiwi, Todt e Wehrmacht di nazionalità russa (si stima che solo in Italia vi fossero aggregati  più di 150.000 russi) o disertori passati ai partigiani italiani siano circa 5.500 (non credo che in Russia al ritorno facessero poi tutte queste distinzioni come scritto in seguito anche con in mano un foglio di partecipante alla guerra di liberazione). Di questi più del 10% morì in combattimento (solo in Piemonte furono 62 caduti su 717 attivi). Altri erano in Emilia, Liguria, Toscana poi in quantità minori giù giù fino a Roma. Si sa che due, Tarasov e Pereladov aderirono al gruppo Cervi di Campegine (RE) e insieme fondarono il famoso 'battaglione sovietico d'assalto' che sarà il protagonista in Emilia di tanti fatti d'arme, tra cui la conquista di Montefiorino (MO) e la sua difesa in Repubblica partigiana. Il 'battaglione sovietico d'assalto' era composto da circa 200 uomini con tanto di bandiera rossa con scritte in cirillico, ufficiali e commissari politici. I partigiani russi, ma non solo, alla fine della guerra, al ritorno in patria furono internati insieme ai 'vlasovici' i 'Bianchi', i filonazisti. Uno di loro riuscì ad avvisare chi era rimasto in Italia di non partire. Pereladov, medaglia inglese e italiana sul petto, al porto di Odessa verrà preso a sputi dalla gente per strada e poi internato. Pereladov in seguito scriverà due libri sull’argomento e verrà 'rieducato' fino a quando Krushëv lo riabiliterà. Un certo numero di partigiani sovietici non tornò mai in URSS. Di quelli che restarono in Italia, molti si sposarono, ma la storia postbellica stese su di loro un velo di omertà. L'omertà politica e degli "storici" non ha nulla da invidiare a quella "Siciliana" se e quando ne sia mai esistita una con tale connotazione.

Il C.S.I.R. il primo contingente inviato in Russia dal luglio 41 al luglio 42 con 62.000 soldati ebbe 1.800 tra morti e dispersi e 7.600 tra feriti e congelati (15%). L'ARMIR che seguì alla fine di Luglio del 42 (inglobando il CSIR) ebbe con le turnazioni 229.000 soldati. Ebbe da agosto 42 a marzo del 43, 87.500 tra morti e dispersi e 34.000 tra feriti e congelati. Una percentuale del 53% non riscontrabile in alcun conflitto. In effetti degli oltre 120.000 uomini circa 60/70.000 soldati (ma nessuno riuscirà mai stabilirne l’entità), venne fatto prigioniero. Si calcola che poco più di 1/4 rientrò, ma la percentuale si abbassa con gli scomparsi nel nulla...” Coi rientri del '53 c’era gente che aveva fatto 12 anni di prigionia, senza piegarsi.  L’ultimo a rientrare (1954) un italiano, prigioniero dei tedeschi, (dopo l’8/9) e portato in Germania. I Russi lo avevano prelevato dal lager nel maggio '45 (una storia simile è raccontata anche da Primo Levi) e lo avevano imprigionato come spia.  Non poté fare come gli altri al Brennero al cartello Italia che “..presero i bastoni e regolarono i conti con gli aguzzini …italiani”. Dopo c’erano i carabinieri e sarebbe stato reato. http://www.carpe-diem.it/cultura/htm/duri.htm 

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