Il diario di Antonello Trombadori

Marcia d'avvicinamento  

IL PITTORE ALBERTO ZIVERI

Poeta Scrittore Politico, Giornalista Critico d'Arte Roma 1917-1993

figlio di Francesco pittore

 http://www.scuolaromana.it/artisti/trombadf.htm
Antonello trascorre la giovinezza nella casa  di Villa Strohlfern, entrando in contatto con molti artisti e letterati. Inizia molto presto a occuparsi di critica d'arte, con articoli che sostengono le esperienze artistiche che implicano una rottura con gli schemi del "Novecento italiano": tra i suoi referenti privilegiati gli amici Cagli e Guttuso  e Fazzini, Mafai, Levi, Pirandello, Manzù, Mirko, Ziveri, Afro e altri. Tra le riviste alle quali collabora, "La Ruota", "Primato", "Città","Corrente", "Cinema". Antifascista, da' vita a un gruppo clandestino che organizza la fronda al regime dall'interno dei suoi giornali culturali e delle sue organizzazioni, come i Guf, dialogando con il movimento liberalsocialista e approdando poi al Pci. Ne fanno parte Pietro Amendola, Mario Alicata, Pietro Ingrao, Aldo Natoli, Paolo e Cesare Bufalini, Renato Guttuso, Carlo Salinari, Antonio Giolitti. Per questo motivo partecipa con altri ai Littoriali della cultura nel 1937 e 1940. Nel 1941, al ritorno dal servizio militare in Grecia, viene arrestato per cospirazione antifascista, deferito al Tribunale Speciale, e proposto per il confino, insieme ad altri venti studenti, tra i quali Bufalini,  Giolitti e Pampiglione. Mussolini, per ragioni di opportunità, data la notorietà di alcune delle loro famiglie, decide di proscioglierli con atto di clemenza anche dalla pena del confino, "ad eccezione - come si legge in una relazione della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza  - di Bufalini Paolo e Trombadori Antonello, non avendo questi ultimi dimostrato di essere pentiti del gesto insano commesso". Dopo il 25 luglio del '43, da' vita alla formazione "Gli Arditi del Popolo" insieme ad altri compagni, tra cui Mario Fiorentini, Fernando Norma, Antonio Cicalini e Lucia Ottobrini. La sera dell'8 settembre 1943 Trombadori, insieme con Luigi Longo, prende in consegna un piccolo carico d'armi messo a disposizione dal generale Carboni  e lo distribuisce tra la popolazione. E' tra i pochi tentativi di dare una mano sia alla resistenza che ai reparti dell'esercito rimasti in piedi. Collaboratore di Giorgio Amendola, nell'ottobre del '43 è uno degli organizzatori della Resistenza romana e,  insieme ad Alfio Marchini, dei gruppi di azione partigiana. Arrestato dai tedeschi, il 2 febbraio del '44,  viene rinchiuso nel carcere di via Tasso. Dovrà la vita ai compagni arrestati che, seviziati, non ne riveleranno l' identità. Trasferito nel braccio tedesco di Regina Coeli, si trova lì detenuto il 24 marzo del '44, la mattina in cui i nazisti irrompono nel carcere per prelevare quelli che sarebbero stati massacrati nel pomeriggio alle Fosse Ardeatine. Si salva solo perché il giorno prima ha avuto una forte febbre ed è ricoverato in infermeria. Nell'agosto del 1944, dopo la Liberazione di Roma, organizza la mostra "L’Arte contro la barbarie"  Nel 1945 presenta l’album di disegni di Guttuso Gott mit uns.. Collabora a "L'Unità" e a "Rinascita". Dal 1945 al 1964 dirige "Il Contemporaneo", curando la rubrica di critica d'arte. Amico di Rossellini e di Lizzani (è lui a presentarlo a Rossellini), li aiuta a realizzare il film "Roma Città Aperta".  Dal 1961 è per alcuni anni direttore artistico della Galleria La Nuova Pesa (per conto dell’imprenditore comunista Alvaro Marchini); le mostre di Ziveri, Pirandello,
Mafai, Francalancia, Donghi, Edita Broglio costituiscono un’importante premessa per il recupero di tutta la cultura figurativa del periodo compreso tra le due guerre.  Membro del comitato centrale del Pci, è poi inviato dell'Unità nel Vietnam. Viene eletto quattro volte deputato. La sua indipendenza di pensiero lo porta negli ultimi anni a "esplorare" territori poco noti della storia dell’arte: le opere figurative di Giacomo Balla, l’Ottocento romano, la pittura russa. Tra i contributi critici recenti spiccano i saggi introduttivi nei cataloghi delle retrospettive di Donghi (Roma 1985) e Scipione (Macerata 1985), del volume Roma appena ieri (Roma 1987) , della monografia di M. Fagiolo sulla Scuola romana (Roma 1986). Ha curato il catalogo delle opere d’arte della Camera dei Deputati. Comunista togliattiano, a partire dal Sessantotto comincia un percorso che lo avvicina ai riformisti e lo porta a prendere le distanze dagli estremismi. Aderisce così alla corrente "migliorista" del Pci (insieme agli amici Paolo Bufalini, Maurizio Ferrara, Rosario Villari, Edoardo Perna), che dopo la morte di Giorgio Amendola ha come punto di riferimento politico Giorgio Napolitano. Trombadori ritratto di CagliIn questi anni ha anche un dialogo intenso e tormentato con Norberto Bobbio. Si avvicina perciò ai socialisti, ed è tra quelli che nel Pci avversa la campagna per la difesa della scala mobile. Muore nel '93, a Roma.

  

  

 

 La resistenza nei Castelli Romani http://www.tmcrew.org/memoria/spaccatrosi/home.htm 

 SOTTO Migneco: bersaglieri in treno

bersaglieri in treno 1940

 

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Questo che dedico alla mostra dei pittori che hanno voluto dare un segno d'arte al 150" anniversario della nascita dei Bersaglieri, è un mio antico foglio di diario. Un diario di memoria, ma puntuale come una cronaca diretta. 

Io ero allora (1940) l'Aiutante Maggiore del «2° Battaglione nel 2° Reggimento, quello romano della Caserma La Marmora in Trastevere, al quale si riferisce il Suonatore di fanfara esposto qui del pittore Alberto Ziveri, bersagliere egli stesso (vedi autoritratto), che lo ha immaginato proprio sugli scalini di quella che dall'inizio del secolo in poi era stata la stanza dell'Ufficiale di Picchetto a ridosso del Convento e della Chiesa di S. Francesco a Ripa.

Oggi non ce n'è quasi più traccia d quegli scalini. Ma il foglio di diario è dedicato anche a tutti, tutti, i miei compagni di quegli anni lontani, soldati, sottufficiali, ufficiali, senza distinzione di opinioni, nella certezza che a ognuno di essi, nel ricordo intenso di quelli che morirono in battaglia, o che ci hanno lasciati in seguito, riandare quel tempo sia, come per me, riandare uno dei momenti più rigogliosi di vita e, malgrado l'incombente tragedia, di speranza, di sorriso e di fraterna solidarietà. Dedico, infine, questo foglio al Bersagliere Paride Sarti, bracciante agricolo di Argenta, in quel di Ferrara, mio attendente in quei catastrofici giorni greci e che, ventenne, perse la vita sotto un tiro micidiale di mitragliatrici. 

A Valona, nell'ottobre del 1940, rimanemmo due giorni. Accampati sotto gli ulivi, dormivamo tra fango e paglia e stavamo molto zitti. Le parole erano diventate rare per tutti. Solo cresceva più ricco, dentro, il discorso con quei soldati greci da combattere, mai visti, mai odiati. Stavamo all'imboccatura della strada che salta sulle montagne di Tepeleni e che, dopo quella città, si biforca verso le due direttrici elleniche: Premèti e Còritza, da un lato, Argirocastro e il Kàlamas, dall'altro. Nel cielo del porto albanese dove da Brindisi eravamo giunti aviotrasportati, bicicletta in spalla, si alzavano i caccia a difesa dell'aeroporto e degli accampamenti presi di mira dai bombardieri della RAF. Vedemmo più d'un aereo cadere a picco in fiamme nella conca che s'apriva sul mare. E una volta un paracadute aperto. Il pomeriggio, verso le 3, col sole cadente e lucido negli stagni circostanti, ci sdraiavamo a ridosso di un argine erboso. I bersaglieri andavano oltre le prime case, verso i lupanari e le botteghe della città: io non li avevo mai visti così muti, e mai così cari al mio cuore, infangati e inutilmente truci per le piume irte sull'elmetto.  Guttuso: testaGli ufficiali guardavano i soldati. Sulla stessa strada fangosa che conduceva a Valona vedevano procedere lentamente, a piedi, i bersaglieri del 2° Reggimento e, stipati nelle autoambulanze, provenienti dal fronte, i feriti, tanti feriti, che non gemevano, e stavano supini dietro i vetri opachi, muti come erano muti i loro compagni che ancora dovevano raggiungere la linea del fuoco per essere feriti o morire. 

Quel silente fluire d'uomini era il motivo stesso della cupa bestemmia che ognuno d'essi si teneva in corpo. Vivi, feriti e morti, tutti ugualmente tristi, tutti ugualmente belli, in quelle giornate d'ottobre, mentre nelle valli d'Epiro i greci aggrediti, tromba in testa, s'avventavano sulle schiere disfatte dei reggimenti italiani massacrati dalla ritirata. Stavamo così, tuttavia ignari della catastrofe, sdraiati sull'argine della strada. Alcuni dei giovani ufficiali non erano muti come i soldati. E alcuni soldati non erano muti come altri ufficiali. Interloquivano. Non avevano in corpo la cupa bestemmia dei bersaglieri della Bassa e del Tavoliere. Chi parlava di Mussolini. Chi parlava della gloria dell'Impero. Chi parlava della rivoluzione fascista. Questo clamore vano e in fondo stolidamente ingenuo strideva col muto fluire delle autoambulanze e dei soldati in libera uscita. Più triste diventava la sera, mentre uomini rassegnati e muti, e uomini disperati e muti, si perdevano nello stradone fangoso in attesa, tra fiochi lumi, caldi fiati, e muti soldati feriti o morti scendevano dalle montagne, stipati nelle autoambulanze e negli autocarri attrezzati del Regio Esercito. Poi partimmo anche noi, in direzione delle montagne. 

A Tepeleni un ordine male impartito tagliò in due il battaglione. Metà prese la via dell'estrema sinistra del fronte, metà seguì la via giusta, quasi a un quarto di strada sull'estrema destra tra le rocce, di fronte all'Epiro, col mare, di fianco, lontanissimo, ma azzurro sul mezzodì. Quando, aspetta aspetta, il mezzo battaglione non si vede, il Maggiore mi manda indietro, e a Tepeleni, col buio della notte appena intriso dalle prime luci, vengo a sapere che, mentre il maresciallo dell'Ufficio Tappa dormiva, un graduato aveva letto male e male impartito la direzione di marcia a uno dei nostri capitani. Fu così che il Maggiore mi ordinò di inseguire il pezzo di reparto sperduto chissà su quali arroccamenti del retrofronte, per riportarlo sulla retta via. E fu così che la nostra marcia d'avvicinamento al nemico ebbe il suo inizio, ne compatto ne glorioso. I bersaglieri in crocchio, intorno a me e al Maggiore, guardavano muti, con la barba più lunga e nera di nera notte, con gli occhi più lustri, appena arrossati di puntini di sangue, con la bestemmia quasi articolata sulle piccole crepe delle labbra arse dalla tramontana. Il sergente Calistro ed io partimmo con l'Alce biposto. L'Alce galoppa come un cavallo. Lui davanti a guidare, io dietro le sue spalle, zitto. Da Tepeleni, giù per Klisùra, nella Val Vojussa, le montagne sono a strapiombo. Sono livide e brulle. Il fiume è grigio, rapinoso, con sponde di pietra. L'Alce sobbalza sulla strada deserta e sassosa, romba e fila e cigola. Io sto aggrappato al sergente Calistro e gli dico: «Lo troveremo il pezzo di battaglione?». «Andiamo avanti!», dice lui, e accelera. 

Così arriviamo a Premèti e facciamo benzina. Io dico: «E il battaglione, quando torniamo, lo troveremo, sergente?». Calistro non mi risponde. Partiamo di nuovo e arriviamo al ponte sulla Vojussa. Il ponte è a cuspide. Antico, squallido come un enorme dente cariato. Tutti scendono dai mezzi. I soldati lentamente fanno avanzare gli autocarri sul ponte. Gli autocarri restano in bilico sulla cima del ponte, poi lentamente beccheggiano, piegano in avanti e rotolano giù, sull'altra sponda. I soldati passano a piedi e proseguono verso il fronte o verso il paese vicino. Il sergente Calistro mi dice: «L'Italia li ha fatti i ponti in Albania, signor Tenente».  Io dico: «Lo troveremo il pezzo di battaglione?». È tardi. Noi guardiamo lo spettacolo degli autocarri sul ponte a cuspide dei pastori mussulmani. Dagli autocarri discendono alpini. Alpini sporchi. Alpini trafelati. Alpini laceri. Alpini bruciati dal freddo. Alpini muti bestemmiatori, più muti dei bersaglieri sullo stradone di Valona. Alpini belli. Il sergente Calistro si avvicina a uno di loro e chiede: «Da dove venite?». Lui è tutto pulito, l'elmetto è lustro: le piume dell'elmetto brillano nella nebbia rada, contro le nuvole; sulle penne e sulla mantellina già seccano le zacchere di fango. Chiede: «Da dove venite?». «Dal fronte veniamo!», risponde uno. Calistro si volta verso di me e dice: «Vengono dal fronte!». Io dico: «Lo troveremo il pezzo di battaglione, sergente?». «Io avanti non ci vengo più - dice lui -. È notte.  C'è il telefono da campo, signor Tenente. Parli lei con quelli di Peràti, se hanno visto passare i bersaglieri. Io avanti non ci vengo più». Dico: «Va bene!».  E il telefono squilla lungo lo stradone che varca il confine greco. Sul filo, nella notte, sento gemere un geniere lontano, roco, urlante: «Torna già indietro un pezzo di battaglione, tornano due reggimenti di alpini, anche la Divisione Bari torna  indietro, i Greci hanno sfondato a Kòritza... tornano tutti, stia tranquillo signor Tenente!...». Così terminò la nostra missione. Galoppavamo sull'Alce biposto, lungo la via del ritorno in Val Vojussa. Il sergente Calistro si voltava appena, ogni tanto, verso di me, e diceva: «Ha visto gli alpini, signor tenente? Vengono dal fronte». Ed io rispondevo: «Sì, sergente, li ho visti». Poi diceva: «Ha visto i ponti dell'Albania, signor Tenente, ha visto le strade, gli aeroporti?». Io rispondevo: «Sì, sergente Calistro  li ho visti!». «E quel porco di Mussolini, signor Tenente, lo ha visto mai? Lo ha visto mai quel porco?». La motocicletta saltò su un sasso più grosso e sporgente. Io mi strinsi con affetto alle spalle del sergente Calistro. Guardavo con amore la sfera lustra del suo elmetto, tra le piume nere che mi sventolavano sul volto, nella nebbia del fiume. Guardavo con amore quella testa di contadino che soltanto due giorni dopo avrei visto fracassata da una pallottola greca, e sentii nel vento della corsa, più insistente e più certa la cupa bestemmia che covava in corpo ai bersaglieri di Valona e agli  alpini della Vojussa, come una fitta speranza. Una speranza che pian piano andava germogliando, simile all'erbetta dei sepolcri, nel cuore dei nostri soldati massacrati sulle montagne, nei deserti, lungo sconosciuti cammini. Dall'Ovest all'Est.

http://www.scuolaromana.it/repository/opere/ope146.htm

…. Fino a una mattina degli ultimi anni 80 in cui andammo in taxi in un'aula dell'Università della Sapienza dove i giovani missini capeggiati da ' Gianni Alémanno avevano organizzato un dibattito - che ad Antonello e a me sembrava sacrosanto - a dire no all'uso della violenza politica tra le due opposte fazioni universitarie. Il dibattito era titolato «Spegnere il fuoco», e la medaglia d'argento al v.m. della Resistenza e ex comunista tutto d'un pezzo Trombadori parlò a lungo sull'argomento, certo che il «fuoco» andava spento e andava sostituito dal confronto delle rispettive storie e delle rispettive identità. Un intervento di cui, a ben più di vent'anni di distanza, è come se mi ricordassi ogni parola. La sala gremita di giovani di destra lo applaudì calorosamente, e beninteso non è che Antonello rinnegasse una sola virgola di quel che era stato. Al pomeriggio l'Ansa lanciò una dichiarazione dei dirigenti della FGCI che chiedevano l'espulsione dal Pci di Trombadori. Volevano che l'ex vice comandante dei Gap fosse allontanato dal «glorioso passato» che pure era stato il suo. Figlio del pittore siciliano Francesco Trombadori, un pittore che ebbe un suo rango nella «scuola romana» degli anni Trenta e nella famiglia allargata dei siciliani immigrati nella Capitale. Trombadori debuttò nel giornalismo in un. quotidiano diretto da un altro siciliano di spicco, il fascista (e razzista) Telesio Interlandi.
Allo scoppio della guerra, poco più che ventenne entra a far parte del Pci clandestino. Nella «Roma città aperta» del 1943- 1944 sul cui selciato battevano gli stivali delle truppe nazi, Trombadori era il vicecomandante militare dei Gap comunisti guidati da Giorgio Amendola. Il 2 febbraio1944 i nazi lo catturano mentre usciva da un appartamento di via Giulia che faceva da covo della Resistenza. Lo portano prima a via Tasso, dove sono di prammatica le maniere pesanti, e poi a Regina Coeli. La tarda mattina del 24 marzo 1944 lui era alla finestra della sua cella, a vedere i nazi che mettevano in fila e legavano le braccia dietro la schiena a quelli che si accingevano a fucilare poche ore dopo alle Fosse Ardeatine. Un miracolo che nella lista dei prescelti per la morte non ci fosse il vicecomandante dei Gap. Forse perché era una lista fatta in tutta furia durante la notte, ed è una bugia grande così che i nazi avessero offerto agli autori dell' attentato di via Rasella di presentarsi e di risparmiare così la vita degli ostaggi. Trombadori guardava dalla finestra, e capì. Quando portarono via i morituri, lui e il suo compagno di cella caddero in ginocchio e si 'abbracciarono. Nel dopoguerra Trombadori diventa un rivoluzionario di professione, un militante comunista a tempo pieno. Giampiero Mughini Libero 25 gennaio 2013