Il diario di Primo Santini

Bersagliere del 2°reggimento, folgorino e ....
8a parte di 8

Il dopoguerra

La nostra storia parte da lontano come quella di tanti italiani e come quelle passa attraverso i conflitti, il lavoro, la famiglia per arrivare al capitolo o ai capitoli finali che non sono mai quanto ci aspettiamo. Quella di Primo e della sua famiglia, raccontata dal figlio Sandro, fra le avventurose è la più avventurosa che possa capitare

Dopo di lui in Libia    
Il il 18 ottobre 1942, il Generale Federico Ferrari Orsi comandante del settore Sud, X° Corpo d'armata (fu a suo tempo Comandante (Col) della Scuola di Applicazione di Cavalleria nel 1935-1936) in previsione di un attacco si spinse in ricognizione nei pressi delle linee avversarie ma saltò su una mina. Alle numerose decorazioni si aggiunse così anche l’Oro al V. M.. Dal diario del comandante il 31° guastatori d'Africa: «18 ottobre 1942, ore 16,45. Giungo al 187°: il colonnello Bechi è ad interim al comando della Folgore (Frattini era ferito). Mi ricevono i maggiori Patella e Macchiato, offrono il tè, e in attesa che l'acqua bolla eseguisco per Macchiato un lucido topografico che gli occorre subito. Alle 17, bevuto il tè, vado in linea. Alle 17,40 trovo Bechi che porta alcuni pacchi dono al battaglione Zanninovich, e mi dice che cinque minuti dopo la mia partenza e due prima del suo ritorno è arrivato al 187° il Gen. Ferrari Orsi, comandante il nostro corpo, ed è ripartito con Patella e Macchiato per esaminare un campo minato inglese abbandonato davanti alle nostre posizioni "Alle 18,30 mi giunge nella buca un fonogramma che mi comunica la morte, avvenuta alle 17,15, per scoppio di mina, del Generale Ferrari Orsi e dei maggiori Patella (V/187) e Macchiato (III/185 art.). Le tre salme sono arrivate alla 34a sezione sanità Brescia quando il sole, spuntando a tergo delle linee inglesi, spennella d'oro il massiccio del forte Menton. Il dottor Parvis deve subito organizzare la cerimonia funebre; vi presenzierà il sostituto di Rommel con numerosi generali. Si apprende così che da qualche settimana Rommel è in Germania a curarsi. Il nuovo comandante dell'armata corazzata, generale Stumme, è un ometto piccolissimo e congestionato, grasso. Dicono che abbia lasciato gran ricordo di sé al fronte russo, dove lo hanno soprannominato Kugelblitz palla fulmine. Dopo il rito chiede a Parvis se può approfittare di una insperata occasione, per quanto dolorosa di riunire a rapporto presso la 34a i nove generali italiani e i cinque tedeschi intervenuti. Quando Parvis accenna discretamente a ritirarsi, Stumme lo prega di restare. Non è forse il padrone di casa? Il comandante dell'armata corazzata fa il punto della situazione e conferma la imminenza dell'offensiva nemica, poderosa e risolutiva, con ricchezza di mezzi mai finora visti quaggiù. Impartisce ordini e disposizioni. Raccomanda di intensificare le pattuglie offensive. "A questo proposito », dice, “segnalo il tipo perfetto di pattuglia, che prescrivo a tutte le unità tedesche e italiane: quello praticato dalla Folgore. Le altre divisioni si documentino. Elogio vivamente i paracadutisti italiani per il loro mordente"  

La battaglia di El Alamein ebbe poi il tragico epilogo che conosciamo con la completa distruzione di molte delle grandi unità italiane sacrificate nel deserto per permettere a Nord lo sgancio di chi aveva motori e benzina per muoversi come i tedeschi (ma anche loro frammischiati qui a sud coi nostri caddero in molti prigionieri). I pochi superstiti delle tante divisioni si ricompattarono oltre la Cirenaica in mesi (quasi 2) di ritirata. Quella che lasciava, a fine gennaio '43 la Libia per la Tunisia, non era altro che un pallido Corpo d'Armata superstite, senza prospettive e futuro, da quando erano sbarcati gli americani coi loro mezzi. Solo l'orgoglio di Rommel li teneva insieme ed anche quando lui se ne andrà a marzo la sua figura continuerà ad aleggiare sulle linee d'arresto allestite lungo la costa Tunisina fino al 13 maggio quando anche i più vecchi combattenti del '40 cedevano le armi.  In Italia tutto ormai era deciso: Mussolini doveva andarsene, ma come?

     

     
Le mie storie di soldati  di solito finiscono qui, quand'anche fossero geni o personaggi pubblici o politici o militari o signori nessuno. Il ritorno alla vita "civile" comporta una serie di compromessi e revisioni di cui non sento che raramente l'interesse a parlarne. I reduci, i vivi, che hanno speso 2/3 e più anni nel conflitto (è successo di gente che ne ha trascorsi anche 6/7 in divisa) si portano a casa un carico di problemi e preoccupazioni (era così per noi vinti), che spesso le battaglie sono poca cosa. La sconfitta, la prigionia (per alcuni), la menomazione viene vissuta male, male anche perché le società postbelliche  passano alla demonizzazione del reduce e di chi di lui si è servito, lo emarginano, se possono lo dimenticano.  Per l'Italia non si trattava di una sconfitta bensì di due perché a metà della seconda guerra mondiale la gran parte del paese cambiava alleato nella speranza di salvare ancora qualcosa. Speranza vana poiché per l'ennesima volta, come direbbe qualcuno, iniziamo una guerra con un alleato e la finiamo con un altro. L'opinione degli alleati è stato narrata estesamente nei capitoli del 1943.

L'Italia è un paese che difetta di tutto e la cui unica risorsa è l'uomo. L'uomo e il suo genio creativo che nell'immediato dopoguerra aveva ben poca chance d'affermarsi nel desolante quadro di distruzione e miseria che imperava. Valeva di più l'uomo che s'arrangiava, che prendeva le valigie e rifaceva a ritroso il percorso a volte fatto dai padri o dai nonni, che piegava la testa, che non rispondeva all'offesa. Queste erano battaglie dove il nemico non ti presentava le armi ma ti teneva in sudditanza psicologica per poterti sfruttare meglio, per vendicarsi delle tue idee, del tuo passato. Non 'c'era paese in Europa e nel mondo che non vantasse qualcosa da noi. Ne ho un ben chiaro ricordo dei minatori italiani del Belgio "venduti" da De Gasperi a cui l'epiteto più soft, leggero, indirizzato era fascista. E' a tutti noto, e se non è lo ricordo, che a salvare l'onore erano Bartali, Coppi, Magni che mettevano in fila i loro campioncini su due ruote e non De Gasperi. E' inutile che andiate a cercare vittorie specifiche in cui gli italiani già prevalevano. Dopo il Tour de France o altri minori giri c'erano riunioni su strada (Kermesse) dove si gareggiava per soldi ed era lì che vedevi chi dalla fame stava scappando. E' inutile che ricordi che quella era esattamente una guerra dove si moriva e si moriva senza un ideale, se e quando un ideale sia mai esistito. 

 

Tornando quindi al nostro personaggio, ho accolto l'invito del figlio a dire poche cose sul suo trascorso postbellico e per un solo motivo: la disperata voglia di vivere e la altrettanto disperata guerra quotidiana al bisogno a quella giovinezza rubata ai sabati del fascismo. Alla fine di un lungo conflitto il nostro soldato cede le armi veramente e forse solo allora si rende conto del tempo passato, degli anni e delle occasioni perdute. "Sai - diceva - mi dispiacerebbe morire, ma in fondo, nella vita mi sono tolto tutte le soddisfazioni che ho voluto”. Moriva così di un tumore all'età di  55 anni e le soddisfazioni che si era tolto erano quelle in cima alla "sua" lista di priorità, priorità che differiscono molto da persona a persona.  

Maggiore Aurelio Rossi comandante del IX battaglione paracadutisti

"CI HANNO TOLTO LE ALI, MA CI RIMANGONO I PUNGIGLIONI AVVELENATI DEI NOSTRI PUGNALI "

     
   

     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     

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