Il diario di
Rino Mioni
dal libro "I bersaglieri in Dalmazia .. " di Elio Ricciardi Ed. Anvgd 1999. Immagini tratte dal libro: Seguiremo per tutte, la storia del bersagliere Mioni anche perché come vedremo, fu uno degli ultimi, se non l’ultimo, a tornare a casa dalla guerra. La sua storia è particolarmente interessante, sia per la varietà delle situazioni sia perché è un esempio del comportamento che tennero i Tedeschi delle Forze armate regolari e delle S.S., e gli Jugoslavi, in particolare gli Sloveni. pag. 197 e segg
Ore 18 del 5 gennaio 1944
Ad un certa ora del mattino arriva un gruppo di tedeschi che ci circondano e ci
dicono di prendere le armi, le munizioni e le bombe a mano. Noi rimaniamo
sorpresi. Ci incamminiamo. Ci portano nella piazzetta di Boccagnazzo e ci dicono
di buttare le armi in un angolo e così ci troviamo disarmati. Passano due giorni
.... Viene l’ordine di prepararsi, prendere tutta la nostra roba e andare al
porto: sempre convinti di certe chiacchiere che ci avrebbero portati in Italia.
Al porto troviamo una nave abbastanza grande. La nave parte e dagli oblò vediamo
che si passa avanti alla Riva Nuova. Non era una rotta verso altri porti
italiani. Infatti dopo poche ore si arriva a Sebenico. I bersaglieri vengono
condotti in una caserma del centro dalla quale sono ripartiti nella zona con
destinazioni e per lavori diversi tenendo conto dei precedenti lavorativi. Zara
era rimasta sola: una relazione a firma del Capo di Stato Maggiore dell’esercito
in data 16 giugno 1945 parla di circa 3.000 vittime delle incursioni aeree
iniziate due mesi prima. Tra i tanti che a Zara si sacrificarono sembra
indispensabile ricordare almeno la figura del suo ultimo prefetto,
Vincenzo Serrentino nato a Rosolini (Siracusa) padre del S. Ten. Piero del btg. “Zara”.
Serrentino fu mobilitato come 1° Seniore (Ten. Colonnello) comandante della difesa contraerea di Zara. Quando nel
novembre del 1943 era indispensabile trovare un prefetto, accettò l’incarico
riuscendo a conservare l’italianità della città e prodigandosi per il bene di
tutti fino alla fine in modo ineccepibile. Catturato dai Titini, fu fucilato a
Sebenico nel l947.
Giunti a Sebenico (8 gennaio), siamo stati ripartiti con
destinazioni diverse e quindi il battaglione, come tale, aveva cessato di
esistere.
La miia prima destinazione fu, con un’altra decina di bersaglieri,
in un forte dominante Sebenico per scavare ricoveri sotto le mura dello stesso.
Nel forte erano due pezzi contraerei, uno dei quali tenuto da un sottufficiale e
tre marinai italiani. L’incaricato della sorveglianza era un anziano soldato
tedesco. Durante la prima guerra mondiale era stato prigioniero in Italia. Gli
Italiani lo avevano trattato bene e lui ora faceva altrettanto, arrivando pure a
concedere loro la libera uscita. Verso metà febbraio vengo trasferito, con
altri bersaglieri, a Vodizze, sulla costa a nord di Sebenico, per lavorare alla
costruzione di postazioni di artiglieria nel terreno roccioso. Erano in tutto
circa 30 bersaglieri dello “Zara”. Il lavoro era duro ma era condiviso in uguale
misura, come il cibo, con gli artiglieri tedeschi. La posta funzionava
regolarmente e così giungeva anche qualche pacco da casa.
Ogni tanto la notte, in quanto di giorno sarebbe stato impossibile a causa degli
attacchi aerei, avveniva lo scarico di qualche nave. Una notte fu scaricato e
messo in posizione un vecchio cannone francese di preda bellica. Un’altra notte
fu scaricato il relativo munizionamento da una nave a tre alberi con equipaggio
misto italo-tedesco. Lo scarico finì troppo tardi. Il tre-alberi non ebbe tempo
di nascondersi fra le isole e nel primo mattino fu distrutto da un attacco
aereo. Il giorno della prova del vecchio cannone la piazzola si sfasciò al primo
colpo, in quanto il cemento disponibile per la sua costruzione era stato
insufficiente. Sono tutti avvenimenti che dimostrano la precarietà della
situazione e dei mezzi nella quale i Tedeschi erano ormai costretti a
combattere.
Alla fine di settembre del 1944 venimmo (con altri 9)
trasferiti a Capocesto (Primosten) sulla costa a sud di Sebenico, dove già
altri bersaglieri dello “Zara” lavoravano nella costruzione di postazioni di
artiglieria. Anche qui il trattamento da parte dei Tedeschi, si trattava di un
reparto di marinai, era buono. Il problema fu che da allora in poi non fu più
possibile ricevere e inviare la posta. Le donne che venivano per lavare la
biancheria dei Tedeschi invitavano i bersaglieri a fuggire, promettendo che i
partigiani li avrebbero fatti arrivare in Italia attraverso Lissa. Una mattina
venti bersaglieri fuggirono (Mioni non li incontrerà più neanche in Italia ai
raduni).
Una notte i bersaglieri furono svegliati per partire con una piccola nave per Sebenico, insieme con il reparto tedesco e da qui per Tenin in più soste. Gli
altri rimasti a Vodice vennero attaccati dai partigiani in uno spostamento e
molti morirono. A Tenin alloggiammo negli scantinati del comando, ormai
danneggiato dai bombardamenti.
Cento Italiani furono destinati ad andare a costruire apprestamenti difensivi
nel cosiddetto “caposaldo n. 2”.
Fra questi il bersagliere Mioni che però la
sera prima venne mandato con altri a caricare su autocarri il vestiario di un
magazzino, dove lavorò tutta la notte. All’alba non rientrò con gli altri che
sarebbero andati al “caposaldo n. 2”. Rimase al magazzino per vendere alcuni
capi di vestiario, d’accordo con un soldato croato in servizio presso il
magazzino stesso. Un po’ di soldi sarebbero stati utili per sopravvivere nella
situazione che si andava facendo sempre più brutta e piena di incognite. Quando
però rientrò fu arrestato dalla polizia militare tedesca, insieme con due
bersaglieri del 4° rgt. (forse del XXVI btg.).
Due guardie ci scortarono a piedi fino ad una caserma sulla strada per Demis,
dove venimmo imprigionati con militari tedeschi condannati uno a morte e gli
altri a pene detentive fra i due e i cinque anni. Il trattamento in questa
prigione era buono: nessun lavoro, alimentazione sufficiente e momenti d’aria
libera. Un pomeriggio noi sei Italiani
fummo fatti salire su di un autocarro che ci portò al cimitero di Tenìn, dove
erano sepolti i bersaglieri del “Zara” caduti in Bosnia e dove dovevamo
seppellire diversi caduti tedeschi, mentre pioveva a dirotto e si sentivano
arrivare le pallottole provenienti da un vicino intenso combattimento fra
Tedeschi e partigiani. Ci caricarono di nuovo su un camion che all’imbrunire si
avviò per Pagene e per i tornanti che salgono a Gracac. Faceva molto freddo,
ogni tanto nevicava ed erano tutti in apprensione per possibili attacchi dei
partigiani. Il viaggio proseguì lentamente, senza mai potere scendere
dall’autocarro, neppure durante una lunga sosta a Gracac. Riconobbi la strada
percorsa durante l’”Operazione Weiss”: Bruvno, Mazin, Lapac ed al mattino Bihac.
La meta era un vecchio castello già pieno di prigionieri mongoli, partigiani
(uomini e donne), croati e tedeschi. Una mattina un sergente delle S.S. ci prese
in consegna e ci trasferimmo a Bos. Krupa, a circa 30 km di distanza.
Perquisizione e confisca di tutto, orologio, mazzo di carte, suole e tacchi di
cuoio. Il trattamento era inumano: lavoro durissimo, schiaffi, calci, poco cibo,
neppure l’acqua per lavarsi. La sera della Vigilia di Natale vi fu però una
sorpresa: un ufficiale tedesco entrò nel dormitorio distribuendo a ciascuno una
bottiglietta di vino, un pacchetto di sigarette. una scatola di fiammiferi ed un
dolcetto. I prigionieri furono invitati a cantare un canto natalizio della
propria nazionalità. Noi cantammo “venite adoriamo”. Passata la festa il
trattamento duro riprese però subito. La fortuna volle che, incaricato di condurre al lavoro il
gruppo dei sei italiani, fosse un maresciallo tedesco, non delle S.S., che si
dimostrò una brava persona e la situazione migliorò. Amava le opere liriche e se
le faceva cantare. Andava a comperare pane per i prigionieri con i soldi che gli
davo io. Un giorno venne un altro maresciallo tedesco che parlava bene
l’italiano, anche lui umano e ci riportò Bihac. A Bihac gli Italiani erano
impiegati per caricare carbone su carri ferroviari. Alla sorveglianza
provvedevano sentinelle mongole. Una di queste vide l’orologio da polso e ne fu
molto meravigliata: lo chiese per più giorni, ogni volta aumentando l’offerta di
merci in cambio, fra le quali il proprio orologio da tasca. Quando il cambio fu
decisamente conveniente accettai. Dopo pochi giorni, eravamo ormai a gennaio del
1945 e nevicava, il gruppo italiano fu portato a Neblusa, a circa 25 km da Bihac
verso Lapac. Da qui, 12 prigionieri fra i quali un bersagliere del 4° rgt.,
furono mandati in due casette abbandonate a circa 6 km di distanza. Erano
comandati e sorvegliati da un caporalmaggiore tedesco che parlava bene la lingua
italiana, quella croata ed il dialetto veneto (forse aveva studiato a Padova).
Mi chiamava “Padovan”. Il lavoro da fare era tanto, ma le casette erano
riscaldate con stufe e, in confronto a quanto passato a Bos. Krupa, poteva
sembrare una villeggiatura…Un mattino il caporalmaggiore tedesco montò a cavallo
e mi disse di seguirlo con l’altro cavallo di cui disponeva il gruppo. Ci fermammo in una
casa dove era una donna ed un vecchio che il tedesco, tenendoli sotto la
minaccia dell’arma derubò di una coperta e di diversi
chili di fagioli e tabacco. Alle casette ci raggiunse la donna accompagnata
da un ufficiale domobrano. Questo con un violento litigio si fece restituire dal
caporalmaggiore la merce rubata. Ai primi di marzo del '45 i
Tedeschi erano incalzati dai partigiani si ritornò a piedi a Bihac. Qui caricavamo e scaricavamo munizioni, anche
di notte. Una notte i Tedeschi entrarono a prendere manovalanza nello stanzone
dove i prigionieri erano pigiati. Io vicino alla porta venni preso subito. Si
trattava di caricare e scaricare viveri: si poteva sempre sperare di tenersi
qualcosa da mangiare. Quella notte il lavoro fu tanto. Si trattava di svuotare
un magazzino caricando formaggio, zucchero, dolciumi, burro, ecc. su
autocarri e poi su carri ferroviari. Quella notte i Tedeschi di sorveglianza
furono particolarmente tolleranti. Capivano anche che così sarebbero riusciti
più facilmente a caricare tutto. I combattimenti erano sempre più intensi e più
vicini ed i prigionieri sempre più coinvolti negli stessi. Ripiegammo su Bos.
Krupa, Otoka, per arrivare ai primi di aprile a Bos. Novi e proseguire per
Kostajnica e Sisak. Ormai la ritirata era continua, anche 40 km di strada al
giorno. La strada era piena di soldati tedeschi e loro alleati. Giunti alla periferia di Zagabria
venimmo sistemati in
baracche su una collina. La città era tutta illuminata in quanto considerata
“città aperta”. Ma la sera successiva i bagliori delle cannonate si avvicinavano
a Zagabria.
Con altri Italiani decidemmo di fuggire e, elusa la sorveglianza delle sentinelle, ci ritrovammo in strada con una moltitudine di italiani. Ad un bivio la gendarmeria tedesca ci indicò, senza considerarci, la strada per l’Italia. Sfilavamo in mezzo a bandiere rosse anche se non c’erano partigiani. A Nova Mesto, raggiunta dopo Metlika, una grande festa con balli e canti. Un giovane partigiano triestino mi fece mangiare. La popolazione ed anche i partigiani non si mostravano ostili. In 3 o 4 decisero di riprendere il cammino. I restanti 4, fra i quali io, li lasciarono andare con l’accordo di ritrovarsi il mattino seguente. I primi partiti giunsero a Lubiana dove presero un treno tornando senza ostacoli in Italia. Fra questi Bettin di Padova che dette notizie alla mia famiglia. Poco prima di Postumia. ormai nei vecchi limiti della provincia di Gorizia, in un casello ferroviario domandammo informazioni al casellante, un italiano. Ci sconsigliò di seguire i binari perché erano in corso combattimenti tra le truppe di Tito e i “bianchi”, cioè le milizie slovene che collaboravano con i Tedeschi. A Postumia però gli Italiani venivano fermati dai partigiani. Era pericoloso, ma i partigiani incontrati fino ad allora non si erano dimostrati tanto ostili. Entrando a Postumia si vedevano prigionieri impiegati per lo sgombero di macerie. Ci condussero ad un comando “partigiano” dove uno per uno, con modi bruschi, fummo sottoposti ad interrogatorio circa il reparto di appartenenza. il precedente impiego, la collaborazione e la prigionia con i Tedeschi. Era una beffa, erano sloveni, giovani di 17-18 anni, che volevano sfogarsi dell’odio che avevano verso di noi. Da prigionieri raggiungemmo il campo di aviazione di Vipacco (Vipava). In questo posto hanno portato un gruppo di civili di Trieste rastrellati bloccando le strade nei primi giorni della occupazione della città. Gente in tuta da lavoro, impiegati ed altri. Quello stesso giorno è arrivato un grosso gruppo di prigionieri tedeschi e ho potuto subito constatare che loro erano trattati meglio di noi. La mattina, alla sveglia, dopo la fila per ricevere un mestolo di polenta tenera, che sarebbe stato il rancio per tutto il giorno, ebbi la fortuna di potere prendere la marmitta vuota (un mezzo fusto di benzina) per raschiarla, dietro un muretto. In mezzo al cortile un altro italiano stava raschiando l’altro mezzo fusto. Un partigiano molto giovane gli andò vicino e gli sparò un colpo di fucile in testa, perchè non aveva risposto alla adunata. Siamo tutti incolonnati e già si vede qualche colpo col calcio del fucile a qualcuno che non è svelto a mettersi in fila, vedo che siamo solo italiani, compreso quel gruppo di civili di Trieste; i Tedeschi sono rimasti a Vipacco. Si prende la strada che va a Postumia. Nel pomeriggio arriviamo a Prestrane, dove c’era un campo contumaciale. Durante la notte, passata all’aperto, non riuscii a dormire pensando al prigioniero che avevo visto uccidere al mattino e ad altri due uccisi lungo la strada con un sol colpo di fucile che trapassò entrambi in fila.
Mioni non vedeva più l'altro bersagliere e pensava fosse stato lui quello ucciso- Anni dopo ancora angosciato incontra un superstite e gliene parla - …Benedetti mi troncò il discorso e mi disse che era lui quel bersagliere e che si ricordava del nostro incontro. Mi disse che lui parlava bene il tedesco e, visto che i Tedeschi erano trattati meglio di noi italiani, si mise insieme con loro e rimpatriò dopo pochi giorni. I prigionieri Tedeschi lo avevano aiutato non rivelando la sua nazionalità.
Dopo non molti chilometri fummo fatti scendere e condotti in una pianura. Era il
posto, a circa 35 km da Lubiana, dove avrebbero dovuto costruire il famigerato
campo di concentramento di Borovnica. Una parte dei prigionieri furono lasciati
in un prato circondato da paletti che non dovevano essere superati. Dopo alcune
ore i prigionieri, mentre erano intenti a mangiare delle erbe per calmare la
fame, sentirono una raffica di arma automatica: uno di loro, raccogliendo
l’erba, non si era accorto di aver superato i paletti ed era stato ucciso. Nei
giorni successivi arrivarono altri gruppi di militari italiani. Il primo fu un
gruppo di militari della RSI provenienti dall’Istria. Fra di essi
riconobbi due miei vicini di casa di Padova: Ometto e Malerba. Il gruppo
successivo giunse il 25 maggio (1945) ed era composto da bersaglieri del btg.
“Mussolini”. Questo battaglione aveva difeso eroicamente la valle dell’Isonzo.
Al termine del conflitto era rimasto isolato. Gli ufficiali
decisero allora di accettare la resa offerta dai partigiani, che comprendeva
l’onore delle armi e la libertà immediata per tutti, esclusi gli ufficiali.
L’ottimo comportamento che il btg. aveva sempre avuto con i prigionieri poteva
fare ben sperare. Ma i patti non furono rispettati. Circa 130 bersaglieri furono
uccisi nei primi giorni, spesso nei modi più atroci. Qualcuno riuscì ad evadere.
Per i rimanenti iniziò il Calvario. Erano stati derubati di tutto, tanto che
alcuni erano in mutande.
Dopo qualche tempo cominciarono ad arrivare fuori del campo i parenti (donne) dei
civili triestini prigionieri. Portavano pacchi di viveri che i partigiani in
parte trattenevano e in parte consegnavano ai destinatari. Chi poteva cercava di
consegnare a queste donne dei biglietti per collegarsi con le famiglie e
chiedere aiuto. Anch'io scrissi dei biglietti per mandarli a Trieste alla
sorella del mio comandante di plotone, il S. Ten. Racozzi. Non riuscì però a
consegnarli perché era estremamente pericoloso. Un finanziere che aveva
consegnato un biglietto ad un civile fu ucciso davanti a tutti i prigionieri del
campo radunati per assistere all’esecuzione.
Le condizioni di vita erano tremende, il cibo scarsissimo. il lavoro durissimo.
In vari punti del campo furono posti dei pali con dei grossi chiodi a circa 3
metri di altezza. Servivano per la punizione più in voga. I prigionieri vi
venivano appesi, lasciandoli per circa 2 ore legati per le braccia con del filo
di ferro. Questa punizione toccò anche ad un mio compagno di baracca, un
certo Luigi Dragone di Catanzaro. Si era riempito una seconda gavetta di
brodaglia ed era fuggito. Dopo averlo riempito di percosse lo avevano appeso al
palo ed anche lui ne era rimasto con i tendini recisi, tanto che non riusciva a
portare il cucchiaio alla bocca per mangiare. Me ne presi cura.
Particolarmente inciso nella memoria del Mioni resta il ricordo del 13 giugno,
quando era stato costretto a lavorare sotto una pioggia a dirotto per più di
sette ore. Nonostante il fisico debilitato non ne aveva avuto nessuna
conseguenza. Riuscì anzi a prendere ed a cucinarsi un mazzo di ortiche. Era la
ricorrenza di S. Antonio da Padova ed il Mioni continua ancora a recarsi ogni
anno a ringraziarlo nel santuario della sua città. Ricciardi
Un giorno un prigioniero riuscì a fermare un alto ufficiale in visita al campo.
Parlando un po’ di croato gli raccontò della presenza di centinaia di
ex-prigionieri dei Tedeschi in precarie condizioni di salute. Dopo un certo
periodo furono compilati degli elenchi e furono chiamati quelli che sarebbero
stati rilasciati: fra questi io, Mioni. Finalmente, caricati su di un treno,
arrivò la partenza. I carri bestiame erano aperti per fare entrare un po’
d’aria: era ormai luglio. Dopo alcuni chilometri il treno ne incrociò un altro
carico delle donne di Trieste con i pacchi per i familiari. I prigionieri
chiedevano da mangiare e qualcosa venne lanciata. Per punizione il viaggio
continuò con i vagoni chiusi. Dopo molte ore i prigionieri scesero a Fiume.
Attraversando la città ricevetti di nascosto da qualcuno un pezzo di pane: erano
tre mesi che non ne mangiavo. A Fiume rimanemmo due giorni e due notti dormendo
all’aperto. Il giorno dopo l’arrivo cominciò un interrogatorio. Questa volta
però era di genere diverso dal solito. Due partigiane scrivevano infatti le
notizie dei singoli prigionieri su fogli intestati della Croce Rossa. Alla
partenza dalla stazione di Fiume era presente per salutare i prigionieri il
Vescovo o un suo rappresentante. Fiume era stata vicina ai prigionieri quanto
aveva potuto. Il treno che portava i prigionieri a Trieste si fermò poco prima
di Sesana. dove sarebbe stato preso in consegna dagli Inglesi. per lasciare
scendere la scorta partigiana. Gli Jugoslavi evitarono così l’imbarazzo di
consegnare quella povera umanità così mal ridotta. Da Sesana molte autoambulanze
portarono all’ospedale di Trieste i prigionieri in condizioni maggiormente
critiche. A Trieste pensai di andare a trovare la sorella, che già conosceva,
del suo tenente. Non lo feci vergognandomi delle mie condizioni. Da Trieste a
Udine. L’accoglienza fu incredibilmente fredda e deludente. Finalmente Padova,
mi inginocchiai a baciare la terra.
Rientrato in famiglia Mioni , raccomandò ai genitori di Malerba e Ometto, i
suoi vicini di casa lasciati a Borovnica, di andare a Trieste per cercare di
mandare loro qualcosa tramite le donne che visitavano i civili prigionieri.
Riteneva infatti impossibile che degli esseri umani potessero sopravvivere
ancora per mesi in quelle condizioni senza un aiuto. I genitori di Malerba e
Ometto seguirono il consiglio e dopo qualche mese, i loro figli tornarono. Nel
frattempo comunque le condizioni di vita a Borovnica erano divenute meno
inumane. Vedremo infatti come nel 1947 tornarono da quel campo molti prigionieri
del btg. “Mussolini” che erano riusciti a sopravvivere !!.