di Don Primo Mazzolari
(Stralci dal diario dal 1905 al 1926 edito dalle edizioni Dehoniane di Bologna Ediz. 1981 che ne ha autorizzato la parziale pubblicazione)
Le foto sono state concesse dalla "Fondazione Don Primo Mazzolari" di Bozzolo
« Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. Questo è il destino dei profeti » (Paolo VI) Non è mia intenzione aggiungere nulla alla già alta figura di Don Primo Mazzolari nota e documentata. Queste poche righe e gli estratti dei diari relativi alla missione di pace in Alta Slesia serviranno solo a descrivere, all’interno di questa missione politico-militare, un punto di vista diverso e disincantato tipico del suo carattere che ha dovuto spesso subire censure e fare i conti con l’establishment. A.W |
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Don Mazzolari e l’esercito |
BIOGRAFIA |
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Brani tratti dall'anno 1920 annotati da Aldo Bergamaschi | |||
4 giugno 1920..… A Teschen vidi il Cappellano del M. Baldo, don Pesenti. Ci siamo scambiati le impressioni. Anche lui è stanco e desidera tornare. L'ambiente militare - in questo siamo tutti d'accordo- non è più tollerabile. Durante la guerra, sia per la gravità del compito, sia perché uomini di ogni condizione civile ne trasformavano la fisionomia, l'esercito era mutato. Accanto a ufficiali senza mente e senza coscienza incontravi tipi simpaticissimi, i quali portavano nel compimento del loro dovere militare la stessa scrupolosità, la stessa nobiltà professionale: tipiche, pur essendo talora lontani dalla religione, perché intelligenti e onesti sapevano essere più che rispettosi, e valutare convenientemente l'importanza educatrice del sentimento religioso. Tra questi il Cappellano trovava i migliori amici, chi meglio lo sapeva intendere e coadiuvare. Se ne sono andati tutti con la smobilitazione. L'esercito ha ripreso, per reazione anche, una faccia ancor più antipatica che prima della guerra, poiché i molti rimasti si inorgogliscono di meriti che essi non hanno meritato. Sono, in gran parte, gli ex sottufficiali di ieri: gli spostati che la guerra ha portato su fino a capitano e più in là, e che incapaci d'altro si sono ben volentieri accomodati nelle file dell'esercito, dove la vita è comoda e avventurosa; sono infine i ragazzi delle ultime classi, con la licenza ginnasiale o tecnica, se l'hanno, e con tutti i capricci e la storditezza della età accresciute dalla licenza senza freno e dal denaro (la classe del 1900 che non ha combattuto, poi quella del '1). Ci sono ancora qua e là delle eccezioni, uomini retti e nobili, trovatisi nell'esercito e costrettivi a rimanere per ragioni particolari: questi sono i primi a soffrirne, vedendo i loro sforzi rompersi contro la cattiva volontà della maggioranza. Qui in Slesia sono tutti venuti per correre l'avventura. Paesi nuovi, donne tedesche. Noi siamo i padroni e saremo i conquistatori. Con questo animo partivano dall'Italia, e ogni cosa subordinano a questa ricerca fatta con ignobilità, spesso e stupidamente. Quando arrivano in nuova sede non si domandano se i soldati possono essere bene accantonati, se il servizio per essi è gravoso o meno, che cosa si può fare per migliorarlo, se c'è qualche cosa da apprendere. No, si fa la caccia alla donna, non si cerca che lei, qualunque essa sia e in qualunque modo la si possa avere. I soldati sono l'ultimo dei pensieri e quando vi sono costretti ad occuparsene, eccoli svogliati, irritati, come dinnanzi a gente che toglie loro di attendere a cose più importanti. E' penoso tutto questo soltanto a vederlo di lontano. Ufficiali del Battaglione, ufficiali e funzionari della Missione, di qualunque grado e di qualunque nazione, fanno pazzie. La miseria della popolazione ha dato il tracollo al costume, facile anche prima. Una frenesia di godimento ha invaso tutti. Le cose serie a domani... E intanto i plebisciti si rimandano, le questioni si procrastinano. Che importa se migliaia di minatori scioperano, se milioni di gente attendono una decisione che li metta tranquilli nel loro focolare! Così, proprio così, muore il militarismo! Una tal morte gli è soltanto degna. Come si respirerà meglio quando la terra sarà liberata da questa permanente organizzazione di ozio, di soprafazione e di corruzione! |
Don Ernesto Primo Mazzolari nasce a Boschetto nel comune di Duemiglia nel circondario di Cremona il 13 gennaio 1890. Nel 1902 entra in seminario e da questa data, su indicazione di un suo insegnante, inizia a trascrivere le sue impressioni su un diario. 10 anni dopo nel 1912 viene ordinato sacerdote a Verolanuova. Nei due anni che ci separano dalla Grande Guerra svolge funzioni in parrocchie fino a quando, alla fine di luglio del 1914, viene inviato dalla diocesi sul lago di Costanza (Svizzera) per recuperare gli emigrati italiani che debbono lasciare le fabbriche e il paese che, benché neutrale, è minacciato dal conflitto. Dieci giorni prima della dichiarazione di guerra, il 13 maggio 1915, don Primo così scriveva sul suo diario: "Giorni d'angosciosa vigilia. Ho nell'anima il dolore di un'età e lo spasimo di una vergogna che deve pesare sulla coscienza di ogni italiano come un'infamia perpetua" Nelle sue meditazioni e nei suoi concetti verso la grande guerra si evidenzia un sentimento di moderato interventismo radicato però in un ideale patriottico di ispirazione risorgimentale. (F. Boselli: La fede, La famiglia, l’amor patrio 1914-1920 – maggio 2011). Conseguente alle sue idee (ma non rinnega la pace che deve stare sopra tutti “ La guerra va condannata in nome della dottrina dell’amore e promossa in nome della Giustizia) chiede di essere arruolato come il fratello. Per gli appartenenti alla chiesa non era però previsto in tempo di guerra l’arruolamento. Si ovviava per la indisponibilità degli incarichi di cappellano in un incarico di addetto sanitario che per Don Primo si materializza il 24 novembre 1915 in un incarico all’Ospedale militare di Genova, poi nella sua Cremona nei locali del seminario adattati a ospedale. E fu così per due anni. |
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«Io amo la Chiesa e il Pontefice, ma la mia devozione e il mio amore non distruggono la mia coscienza di cristiano». |
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Don Mazzolari e il cappellano | |||
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Autorità non ne ho, ne me l'arrogo: ma poichè è giusto che qualcuno
pensi a questi giovani che dalla milizia tornano alle proprie cure, ecco
ve li addito. Ma, si dirà, c'è l'autorità ecclesiastica che pensa e
provvede per essi. E' recente un decreto della Concistoriale che
riguarda appunto i sacerdoti che tornano dalla milizia. Sono sedici
articoli, ove si discorre di irregolarità, di dispense, di cautele, di
esercizi spirituali e, qualora occorra, anche di permanenza temporanea
in una casa religiosa. Mi guardo bene dal sollevare una critica. Nulla
di più utile che un po' di riposo e di silenzio per raccogliere lo
spirito e guarirlo. Ma - permettete - tutto qui? Basta questo
spolveramento, questa - come dirla? - imbiancatura per calmare,
restaurare, rinsaldare degli spiriti su cui, in una maniera
singolarissima, è passata la guerra?
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Finalmente il 26 aprile
1918 Don Primo ricevette la nomina a Tenente Cappellano nel corpo di
spedizione italiano in Francia, nello specifico nelle truppe ausiliarie
del TAIF
(ex operai militarizzati). Alla fine del 1918 il corpo venne sciolto e
Don Mazzolari poteva rientrare in Italia e riprendere il suo ruolo di
cappellano in reparti ancora mobilitati per lo sminamento e il recupero
delle salme insepolte o malamente sepolte. Fu durante questa esperienza
che volle recuperare a San Floriano (Oslavia) i resti di suo fratello
morto proprio il 24 novembre 1915. Considerando la sua missione finita
chiese a più riprese il congedo che per la classe di cappellani più
giovani come la sua non venne concesso. Anzi a fine 1919 venne nominato
Cappellano al 135° Fanteria in Verona in partenza per la Slesia. Il suo
incarico si esaurirà a Luglio dell’anno dopo. E’ quindi dal suo diario
che cercheremo di ricostruire ed analizzare quei momenti sia sotto
l’aspetto militare che umano. |
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La vittoria avrebbe dovuto restituire alla Chiesa il suo pastore ma a questi non bastò l’animo di rinunciare, per la missione di Soldato di Cristo quella di Soldato d’Italia e, nel bivio critico della sua esistenza Carletti, svestì la tonaca e rimase nelle file dell’Esercito. |
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Mons. Achille Ratti, nunzio apostolico accettò di celebrare messa a Cosel il 21 giugno 1920. Il parroco, anziano, sulla porta della chiesa, «accolse il Nunzio con commosse espressioni di devozione e di saluto» - annota Don Primo nel suo diario. Assenza ostentata del primo Cappellano del luogo e dell’insegnante di religione del ginnasio. …«Guardando il vecchio vescovo italiano, venuto da Roma a ricordare ai sacerdoti ch’essi hanno un ministero di pace e che non debbono avvilirlo per nessuna ragione, mi sentii preso da una commozione grandissima e un’onda di spontanea, non mai provata devozione mi portò verso il Pontefice. Avrei gridato anch’io ‘Viva il Papa'!». |
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Riassunto da l'Osservatore Romano - ottobre 2009 |
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Don Ratti giunse in “Polonia” come "Visitatore Apostolico", il 29 maggio 1918 prima che la guerra fosse conclusa. Il suo ambito territoriale allora non poteva che essere l’effimero Regno di Polonia costruito al posto del Ducato di Varsavia. Tutte le altre aree tedesche (o Prussiane) e austriache gli erano precluse salvo rare eccezioni. Alla fine del conflitto, nonostante la limitazione, a lui facevano riferimento anche i territori sui quali stava sorgendo il nuovo stato polacco e a lui venne rivolta la costituzione di un ordinariato militare. Nella relazione sulla visita apostolica nel territorio del Governatorato generale di Lublino, merita di essere evidenziata la considerazione sulle relazioni tra occupanti e la popolazione nei territori occupati dall'Austria e dalla Germania. Ratti, già all'inizio del viaggio, si accorse che esse si differenziavano in modo sostanziale. Sotto l'occupazione tedesca una barriera alta e fredda divideva occupanti da occupati, invece sotto l'occupazione austriaca, era possibile osservare dei segni chiari di benevolenza. Il 30 marzo 1919, a nome della Sede apostolica, consegnò a Varsavia a Paderewski "il formale riconoscimento del rinato Stato". Con questo atto si costituiva anche la sede della Nunziatura e per la carica Don Ratti venne consacrato Vescovo il 28 ottobre nella cattedrale di Varsavia (arcivescovo Aleksander Kakowski ed elevato alla dignità di arcivescovo titolare di Lepanto e nominato nunzio apostolico. La sua missione, dopo la difficile situazione a occidente nei territori spartiti fra Polacchi, Tedeschi e Cechi (Alta Slesia), lo portò ad affrontare anche la difficile situazione verificatasi con l'invasione sovietica dell'agosto 1920 per i problemi creati dalla formulazione dei nuovi confini postbellici. Ratti chiese a Roma di restare a Varsavia prossima all'assedio ma Benedetto XV, temendo per la sua vita, gli ordinò di raggiungere il governo polacco in esilio. Nell’Alta Slesia all’atto del plebiscito era forte la presenza del clero tedesco (sostenuto dall'arcivescovo di Breslavia cardinale Bertram), che spingeva per il ricongiungimento con la Germania. Il governo polacco, allora, chiese al Papa di nominare un rappresentante plebiscitario ecclesiastico che fosse al di sopra delle parti, in grado di garantire l'imparzialità in occasione del plebiscito. Avvenne però che l'arcivescovo Bertram (tedesco) vietò ai sacerdoti stranieri della sua diocesi (in pratica i polacchi) di prendere parte al dibattito sul plebiscito. Bertram fece inoltre sapere di avere avuto l'appoggio della Santa Sede: il Segretario di Stato, cardinale Gasparri, aveva maldestramente dato l'appoggio a Bertram e al clero tedesco, senza informarne Ratti. Contro gli si scatenò la stampa polacca, che lo accusava, ingiustamente, di essere filotedesco. In questa situazione e dopo le sue già espresse convinzioni di non essere più adatto alla missione venne richiamato (giugno 1921) e subito dopo nominato Arcivescovo di Milano e Cardinale. Ambrogio Achille Ratti (futuro Papa Pio XI) era nato a Desio il 31/5/1857: è stato il 259º vescovo di Roma e Papa della Chiesa cattolica dal 6/2/1922 e 1º sovrano dello Stato della Città del Vaticano a seguito del concordato. Morirà a Roma il 10 febbraio 1939 alla vigilia di una nuova devastante guerra. | |||
IL PRETE, LA CHIESA
Riforma vita parrocchiale |
MANUALE
RELIGIOSO DEL SOLDATO |
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La questione morale
27 aprile 1920. La missione pasquale è
terminata. La chiusa non è stata molto soddisfacente. L'ambiente di
Leobschutz, religiosamente, è sviato più degli altri. E' l'influenza dei
costumi. Non è che la cittadina sia peggiore delle sue vicine, ma il
soldato trova nell'elemento equivoco, che è parecchio, il suo pascolo
malsano. Me ne sono accorto dalle facce, mentre io parlavo loro. Dove
non c'è vita buona l'ostacolo alla pratica religiosa è centuplicato. Su
un giornale di Leobschutz fu pubblicato un appello alle giovani tedesche
perché non siano dimentiche della loro dignità e non si gettino così
facilmente, come fanno, con quelli che ieri erano i nostri nemici: e
questo in nome dei morti, in nome delle sofferenze patite, in nome della
dignità tedesca. Al parroco, che me lo fece leggere con un certo
compiacimento, risposi che mi sembrava inopportuna una tale
pubblicazione, non per i miei soldati, ma per le giovani tedesche, di
cui si scrive anche pubblicamente, a confermare la leggerezza; la parola
nemici era proprio fuori di posto, poiché la moralità non è questione di
nazionalità o altro, e chi non ha una coscienza morale non si trattiene
per considerazioni di questo genere, che poi sono anche senza
fondamento; che i miei soldati non sono diversi dagli altri soldati di
questo mondo, e che da essi non si può pretendere una forza eroica di
resistenza alle continue e innumerevoli tentazioni. Io non voglio
giustificare i miei soldati. Dio me ne guardi, ma non è giusto che essi
debbano portare anche la colpa che non è loro. Naturalmente, parlando ad
essi nel Vangelo della Messa, ho loro ricordato che la debolezza della
donna non è una giustificazione (alla stessa maniera quanti delitti si
dovrebbero approvare), che uno dei primi doveri dell'uomo è quello di
essere il sostegno e l'aiuto, mai lo sfruttatore della miseria che la
società fa pesare sulle povere nostre compagne; che la donna è così
perché noi la teniamo come il padrone teneva lo schiavo, in questa
condizione d'inferiorità. In fatto di costumi i tedeschi non possono
farci da maestro. Il senso morale, da noi, nelle campagne in specie, non
è basso come qui, dove tutt’al più, c'è non dico maggior compostezza
esteriore, chè la volgarità è senza ritegni, ma un non so che
d'ipocrisia che tenterebbe di mettere un velo. In un paese dove perfino
nelle vie principali, e non a ora tarda e con nessuna aria di avventura,
ti senti invitato, preso per mano e quasi forzato, i giovanotti
nazionalisti hanno ben donde di denunciare sui muri i nomi delle
fanciulle che si dimenticano…E la religione, in un paese ove tutti vanno
in chiesa e si mostrano zelantissimi, quale influenza regolatrice
esercita sui costumi? Questo è per me uno dei molti lati oscuri della
religiosità tedesca. Finora non riesco a comprendere gran che del come
essi intendano e pratichino la religione…. 17 Note:Aldo Bergamaschi. Osiamo affermare che tutta la carica apostolica. la freschezza evangelica, il sincero sinistrismo sociale di Mazzolari - tutte scelte che bruciano lo spazio ad ogni carriera per sostituirlo con una solitudine .interiore cui soltanto un innamorato della Verità può assuefarsi senza cadere in nevrosi - siano dovuti alla sua fede nel celibato. La storia della chiesa - anche la più recente - insegna che al di fuori della statura mazzolariana ci sono i contestatari della chiesa istituzione che tutto contestano eccetto la istituzionalizzazione del matrimonio dei preti, e gli integristi che per avanzare nella carriera si fanno difensori d'ufficio della chiesa-istituzione esaltando il celibato senza tuttavia testimoniarlo. Né gli uni né gli altri portano una qualche "novità" evangelica nel mondo. I "vocazionisti" della nostra epoca dovrebbero riflettere a lungo su queste pagine del diario mazzolariano. Un certo potere ecclesiastico, infatti, preferisce avere sudditi dissoluti ma obbedienti, anziché puliti ma fedeli al messaggio di Cristo e alla propria coscienza..... |
…Sera. Lunga conversazione con D. T. sulle condizioni del clero
napoletano. Ho sempre creduto, quando me ne parlavano gli altri, che ci
fosse un poco di esagerazione poiché, sulla bocca di certa gente, certi
argomenti si deformano facilmente: invece c'è nella realtà qualcosa di
ancora più brutto. Perfino dei professori e dei superiori del seminario
vivevano scorrettamente, e i chierici sapevano e commentavano. Con quali
disposizioni poi questi chierici accettavano gli obblighi del sacerdozio
io non riesco a spiegarmi: forse, col proposito non confessato di fare
altrettanto ?. Che valore ha una promessa quando quelli che ce la
chiedono, dopo averla essi stessi fatta, non la mantengono? In simili
condizioni il celibato diviene un orrore e toglierlo varrebbe ridare un
po' di sincerità e di stima. Se per altre vie non è raggiungibile una
riforma del clero, e dato che esso debba ancora continuare nella forma
presente, l'abolizione del celibato è urgentissima. La mia opinione è un
poco diversa. Quando il sacerdote sarà davvero sacerdote anche questo
sacrificio eccezionale potrà essere portato convenientemente, e darà una
luce e un'efficacia irresistibile al ministero."
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RICORDI PASQUALI - IL CAPPELLANO
MILITARE DELLE TRUPPE ITALIANE IN ALTA SLESIA
5. Onora la
donna. |
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Muore più giovinezza in certe guarnigioni che non sui campi di
battaglia. Tieni cara la tua giovinezza: non è una giubba, che si può
mutare quando è sciupata. Torna in patria sano e puro come ne partisti.
Che la tua mamma, quel giorno, ti ritrovi ancora giovane e ti possa
guardare col suo occhio profondo senza vederti arrossire. |
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