LA SECONDA GUERRA MONDIALE
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FUGA DA LERO Una sigaretta sotto il temporale Angelo Martelli
1a parte-la preparazione |
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Angelo Martelli è nato in Romagna nel
1925. Nel 1936 si trasferì con la famiglia nell'Egeo, a Rodi, poi dal '40
a Lero dove suo padre aveva incarichi nelle opere pubbliche. Nel
dicembre 1943, all'atto della leva repubblichina della sua classe, fugge
da Lero e dall'occupazione nazista riparando in Turchia (il racconto).
Da qui in divisa inglese è nei campi di prigionia di Aleppo, El
Burrej (Gaza), Abu Qir (Egitto). Qui impara a guidare i camion e viene
utilizzato anche per le grandi tratte lungo il Nilo fino al Sudan. Rientra in Italia
alla fine del 1945. Dopo pochi anni inizia la collaborazione con
testate giornalistiche e riviste di tecnica ed economia agraria.
Per cinque anni, dal '78 al '83, ha curato la pagina dell'Agricoltura della
"Gazzetta di Parma". Gastronomo oltre che economo, ha pubblicato - Una sigaretta sotto il temporale
- (1988) -La cucina povera in Emilia Romagna-(1989) -Alessandro
Malaspina - (1991) - Che si mangia oggi - (1993) -La grande
colpa -(1994) -Dal bordello alla strada-(1997) -Giosuè Carducci tra
massoneria e religione-(1997)
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In quel dicembre 1943, l’isola (Lero), con le sue grandi ferite ancora
aperte (la battaglia era terminata il 16 novembre), tentava di riprendersi; mio padre, internato civile, venne
rimesso al suo posto di lavoro e si poteva fare qualche assunzione per
la riparazione delle strade bombardate; essere assunti al lavoro
significava una razione alimentare e maggior libertà di movimento,
grazie al “Pass” che il “Kommandantur” tedesco rilasciava. Giungevano intanto le
prime notizie dall’Italia. Il fronte alleato si spostava verso nord, le
città distrutte dai bombardamenti: e un giorno circolò anche la voce
secondo la quale la Repubblica di Salò aveva chiamato alle armi la
classe del '25. La notizia mi venne confermata da un impiegato del
municipio e, anche se si trattava di una conferma ufficiosa, iniziò per
me un nuovo periodo di ansie e di preoccupazioni. Per prima cosa, cercai
di farmi trovare in casa il meno possibile, anche se il nascondersi in
montagna era rischioso per i numerosi campi minati che erano stati
predisposti in difesa delle batterie. Avvertii mio padre che, se mi
avessero cercato, doveva sempre dire che ero andato al lavoro; cominciai
a prendere i primi cauti contatti per esaminare la possibilità di una
fuga in Turchia. Le notizie di mitragliamenti aerei su barche di
fuggiaschi, erano di tutti i giorni e anche quelle di delazioni per
denaro, dopo aver venduto agli stessi fuggiaschi la barca. Era un po’
come muoversi in un campo di mine che gli artificieri non potevano
rimuovere, ma era un rischio che bisognava correre. Anche da parte dei
proprietari di barche, pescatori o no, non vi era minor diffidenza e
precauzione; le spie che operavano per i tedeschi agivano sui due
contraenti, colui che comprava e colui che vendeva la barca per cui la
difficoltà era doppia e non facile da superare, specie per un giovane di
18 anni le cui disponibilità economiche non erano del tutto note o
attendibili. Infine dovevo anche tenere conto delle insistenti
raccomandazioni di mio padre; lui riteneva la fuga una impresa disperata
e sino ad ora non indispensabile posto che la chiamata alle armi non era
ancora arrivata. A S. Marina, il porto commerciale e diciamo anche turistico dell’isola, situato nella grande Baia di Alinda, esisteva un “cfenio”,
o caffè greco, aperto giorno e notte, che non aveva chiuso nemmeno
durante i tremendi giorni di novembre. In questo locale si davano
ritrovo i portuali, i proprietari di barche e caicchi e chiunque avesse
a che fare col mare. Gli stessi militari tedeschi vi si recavano alla
ricerca di manodopera. Il locale era quasi a ridosso della “Regia
Dogana” e dai vetri delle piccole finestre si poteva osservare il
movimento del naviglio piccolo e la banchina. Con il primo “caffe” che andai a consumare in quel bar mi resi conto che era il posto dove potevo trovare ciò che cercavo e che lì, si combinavano gli “affari” per le fughe. Occorreva quindi entrare nella fiducia di qualcuno che garantisse sia sulla serietà del venditore della barca, sia sulla qualità del cliente compratore. Era un locale, a dir poco, affumicato, grande e pieno di piccoli tavolini con clienti abituali che sedevano per una intera mattinata, e a volte anche il pomeriggio con un caffé, un pezzo di pane e ricotta secca. Ai tavoli erano tipi certamente poco raccomandabili, assieme ad altri col viso consumato dalla salsedine e la pelle aggrinzita fra mille rughe, barbe e baffi di ogni tipo e berretti di lana blu alla marinara. Certamente i tedeschi sapevano che in quel locale si organizzavano le fughe di prigionieri imboscati e non si poteva né si doveva quindi escludere che il locale stesso fosse tenuto d’occhio. Questa considerazione mi fece riflettere sui commenti e sospetti che la presenza di un italiano giovane poteva suscitare e decisi di stame alla larga, anche se bisognava pur sempre organizzare la fuga. Rientrando a Platano, la “city” dell’isola, ho girato al largo della piazza per evitare incontri pericolosi e mi sono diretto verso casa passando in alto, per la via del cimitero; in quel tratto ho incontrato Italo, un amico anch’esso della classe del 1925 che abitava in periferia a Portolago: il padre, nativo di Costantinopoli ma cittadino italiano, lavorava a S. Giorgio. |
«E vera la notizia della chiamata alle armi della nostra classe?» mi
chiese a bruciapelo. «A me han detto di sì, però manifesti non ne ho visti. . . » «Con tutto quel che c’è stato» ribadì l’amico, «capirai se arrivano i manifesti.» Poi dopo una breve pausa quasi che ognuno di noi attendesse che parlasse prima l’altro... «E tu cosa fai,» disse Italo. «Guarda» risposi, «te lo dico molto francamente, se mi si presenta l’occasione taglio la corda.» «Per la Turchia?» «Certo, lo sai che non c’è altra possibilità.» «Penso che farò così anch’io, non mi va di andare a fare il militare, magari a Rodi, o al fronte in Italia sotto i tedeschi.» Riflettei su questo colloquio e mi chiesi se avevo fatto bene a rivelare
le mie intenzioni; è sempre stato un bravo ragazzo e, anche se non ci
siamo frequentati, mi è sembrato sincero. A casa, mio padre aveva
preparato la cena; l’aiuto della donna lo avevamo solo per la mattina, e
l’assenza di carne, pane, riso, zucchero e pasta, suggerì di arrangiarsi
con qualcosa di produzione locale che si cominciava a trovare, dopo la
partenza dei più di cinquemila prigionieri e di gran parte del
contingente tedesco di sbarco. Parlai dell’incontro, con Ba’ (papà), ma
sapevo come la pensava circa la fuga e non mi attendevo quindi alcun
aiuto né approvazione. La mattina dopo, come ogni giorno, passò da casa
nostra il capo operaio che lavorava da anni alle dipendenze di mio
padre; Stelio Lulludià voleva le istruzioni per la giornata; lo presi da
una parte prima che vedesse mio padre e lo interrogai molto
confidenzialmente. Stelio, io voglio scappare in Turchia ma non so a chi
rivolgermi, e ho paura che mi prendano i soldi e poi mi denuncino ai
tedeschi.» Lero base degli incursori http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/personaggi/borghese.htm
Una volta in casa l’individuo andò per le spicce. «Sono Antonio
Carpadachi e mi manda Stelio: mi ha detto che tu hai bisogno e io posso
aiutarti» In quel momento Stelio stava entrando in casa; i nostri
sguardi si incontrarono; il mio chiese e il suo rispose, con l’aggiunta
di un cenno di assenso del capo. Poi, mentre stava per lasciarci, si
voltò e disse: «Stai tranquillo. » |
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Debbo ringraziare per questi diari, oltre che Angelo Martelli, il fratello Mario nato nel 1944 a Rodi, come si direbbe in cattività, incontrato in circostanze fortunose e che mi ha parlato della storia. Walter Amici |
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APPENDICE - DIETRO IL FILO SPINATO (in Egitto) | |
GLI ACCENDINI Alcuni nostri compagni di campo, una trentina in tutto, andavano giornalmente, opportunamente accompagnati a lavorare nel vicino campo d’aviazione militare di Abu Kir. Dopo qualche mese alcuni di loro erano già in grado di trasformare rottami di eliche di aerei (erano in duro alluminio) in accendisigarette anche molto belli. Alla sera quando rientravano nel campo passavano questi oggetti a noi camionisti affinché li vendessimo in Alessandria, la mattina quando si andava a caricare i viveri da distribuire nei vari campi. Anche questa attività teneva occupati e portava qualche soldino nelle tasche di tanti che non sapevano se in patria avrebbero trovato subito lavoro. |
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IL POKER Noi camionisti improvvisati, così come tutti quelli che lavoravano nelle cucine, nei magazzini o nei cantieri che ogni tanto si aprivano nel campo per fare un pezzo di strada o un tratto di fognatura, eravamo pagati con tariffe diverse a seconda del genere di lavoro; gli autisti percepivano sette pound egiziani equivalenti a sette sterline o a settemila lire italiane per cui si era i più “ricchi”. Gli ufficiali, specie i più giovani, ci corteggiavano per invitarci nelle loro tende dove si giocava a poker e così spennavano i polli. Per mia fortuna non conoscevo quel gioco di carte e mi salvai dallo spennamento. |
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IL GHIBLI Un altro episodio accadde nell’aprile del 1945 con il Ghibli; come si sa il Ghibli é un vento africano che sposta intere dune di sabbia; la traduzione del termine “Ghibli” dall’arabo, significa “Meridionale” e spira infatti da Sud-Sud Ovest o da Sud-Est, e, specie in primavera e in autunno, spira anche dalle zone di alta pressione dell’Africa mediterranea. E’ un vento secco e caldo che porta a Nord la sabbia del Sahara. Furono tre giorni di disastri; le cucine e le mense perdettero o tetti che erano costituiti da lamieroni ondulati che volarono via come fossero fogli di carta; le tende, moltissime, si adagiarono sugli occupanti e non volarono via perché ben ancorate al terreno, altre i cui ormeggi cedettero, volarono anch’esse sulle dune fuori dai reticolati del campo. Vi furono cinque morti fra gli italiani; il vento li aveva spinti contro i reticolati della recinzione del campo e stesi come panni al sole. Noi camionisti ricevemmo l’ordine di metterci con i mezzi negli incroci delle strade del campo con i fari accesi per illuminare i percorsi che molti seguivano per cercare di ricuperare le poche cose che potevano raggiungere. Si mangiò a secco ma con enormi difficoltà; dentro la cabina del camion con tutto chiuso si tentava di bere del latte dalla scatoletta praticando un buco col punteruolo che era nel coltello militare, e portare subito la scatoletta alla bocca, ma c’era già la sabbia. Furono tre giorni d’ inferno durante i quali furono pochi coloro che riuscirono a fare un sonno e mangiare qualcosa. |