Il diario di
MILOST DELLA GRAZIA
2a PARTE 1943/1945
Questi brani sono tratti dalle memorie del Prof. Edwin Milost della Grazia pubblicate da http://www.melegnano.net/memorie/memorie004.htm . Per la lunghezza del testo possiamo solo citare alcuni brani significativi delle sue memorie. Il testo integrale è visibile al link soprastante (per concessione del webmaster@melegnano.net Ettore Rossoni).
LA GUERRA IN ITALIA
Dopo un mese che eravamo in Italia il generale Carloni (PADRE DEL Bersagliere Carloni caduto in Russia), preoccupato per le conseguenze che quella lurida guerra civile poteva avere sul nostro morale, insistette presso Kesserling per il nostro trasferimento al fronte. Finalmente il 14 ottobre l’ordine arrivò e la Divisione occupò una fetta di Linea Gotica, dal monte Altissimo sulle Alpi Apuane al fiume Serchio. Alla nostra sinistra avevamo il 285° reggimento di fanteria tedesco. Questo settore della Linea Gotica era considerato un fronte relativamente tranquillo.
Con il nostro arrivo si risvegliò bruscamente, forse grazie ai partigiani che avevano avvisato gli Alleati che la linea era tenuta da “novellini”. Il 26 ottobre una compagnia dell’Aosta, 300 uomini in tutto, aveva sostituito un battaglione tedesco che presidiava un settore di oltre due chilometri di fronte. I partigiani avevano trasmessa subito la notizia agli Alleati ed all’alba del 28 ottobre, dopo un intenso fuoco d’artiglieria, tre battaglioni brasiliani attaccarono la compagnia dell’Aosta, mentre un distaccamento di partigiani li attaccavano alle spalle. Si creò una falla ed i brasiliani avanzarono per quattro chilometri, ma dopo 24 ore, grazie ad un contrattacco, furono costretti a ritirarsi, lasciando sul terreno numerosi morti Il due novembre la 92° la divisione americana aveva sostituito i brasiliani. I suoi uomini erano chiamati i “soldati bisonte”. La speranza, andando al fronte, di liberarci dalla guerra civile si dimostrò vana, anzi il rischio di cadere in una imboscata di partigiani aumentò, perché questi molto spesso indossavano la nostra stessa divisa, che proveniva dai disertori. Con il mio plotone di pionieri me ne stavo tranquillo ad Aulla nella valle del Serchio ed unico segno della guerra vicina era il lontano brontolio delle granate ed il bagliore delle esplosioni. Il 4 novembre (1944) arrivò un nuovo ordine, anche il mio plotone doveva andare in linea, con armamento leggero, portando solo un tascapane. Doveva essere un’azione rapida, un’altra falla da turare, invece non sono più tornato ad Aulla, dove è rimasto il mio zaino con il diario che tenevo giornalmente dai tempi di Feldstetten. Dopo una cinquantina di chilometri fatti in autocarro fino a Castelnovo, nei pressi di Eglio iniziamo la salita verso la prima linea. Ogni 30-40 secondi si sente il sibilo di una granata che sta arrivando ed ogni volta ripetiamo il famoso esercizio “a terra-in piedi“, mentre le granate esplodono ad un centinaio di metri da noi, sollevando frammenti di alberi e zolle di terra. Per nostra fortuna non ci sono radio partigiane ad aggiustare il tiro. A quota 1021 incontro il capitano tedesco Weintz, ufficiale di collegamento ed il tenente Reiter, giovane e simpatico ufficiale, nato a Capri, che comanda il mio plotone pionieri. La mia postazione è un grosso buco, due metri per due, con un tettuccio di frasche ed una ampia feritoia , dalla quale domino tutta la valle del Serchio. Con il capitano osservo dalla feritoia, con il binocolo, Gallicano, dove dovrebbe essere il comando della 92° Divisione americana. A sinistra si distingue il piccolo paese di Barga. Non è chiaro dove inizi la linea , per cui questa notte dovrò uscire con una pattuglia. Alle sette di sera posso camminare tra le varie postazioni, il buio mi protegge, ma ho paura lo stesso. Cerco due volontari, ci anneriamo il volto e con un berretto nero in testa usciamo dalla mia postazione e strisciamo lentamente per un centinaio di metri. Sentiamo le loro voci, sono a circa cento metri da noi, stanno fumando tranquillamente. Rientrando lentamente mi imbatto nel cadavere di un “bisonte”, gli frugo nelle tasche e trovo soltanto delle caramelle e dei soldi. Ritornati nelle nostre linee riferisco al capitano Weintz quello che ho visto e gli consegno le am-lire, la moneta in corso nell’altra Italia. Quando esco dalla sua postazione, mi raccomanda: pass auf ! Attento a che cosa? A non prendere freddo, come mi direbbe mia madre, oppure attento a non farmi scannare da un partigiano? Sono stanco, predispongo il servizio di guardia e mi ritiro nel mio buco. Comincia a piovere ed il freddo penetra nelle ossa. Mi ricordo delle caramelle, ne succhio una, ma ha un gusto strano di pistacchio che mi disgusta. Sento in lontananza una campana che batte le ore ed il lieve rumore della pioggia. Dopo qualche minuto risento i rintocchi di una campana, è sicuramente quella di Barga Mi vengono subito in mente i Canti di Castelvecchio, il liceo Carducci di Milano, gli anni felici della mia giovinezza, “E’ tardi, è l’ora, ritorniamo dove son quelli che ti amano ed ami”. Dove sono quelli che amo ? Mio padre è in California, l’ho visto l’ultima volta nel 1927, quando l’ho accompagnato alla vecchia stazione di Milano, in partenza per l’America. Chissà dove è mia madre, dov’è la mia patria, ora che ho perso quella che Mussolini mi ha insegnato ad amare, la Slovenia, terra di mio padre o la Croazia, terra di mia madre ? Mi addormento intirizzito, con un nodo alla gola ed una grande voglia di piangere. E’ piovuto tutta la notte e sono fradicio, devono aver anche bombardato, a giudicare dal terreno che vedo sconvolto dalle granate davanti la mia feritoia. Spero che i muli riescano a passare e ci portino qualcosa di caldo, nel frattempo faccio il giro di tutte le postazioni ed invio la solita relazione al capitano Weintz: Nulla da segnalare a quota 1021. Passano i giorni, la pioggia rende più dura la nostra esistenza. Assistiamo ad un lancio di materiale a pochi chilometri da noi, il che mi conferma che i partigiani sono alle nostre spalle. Speriamo inutilmente che una raffica di vento ci regali qualche pacco. Si intensifica il bombardamento, il capitano Weintz telefona spesso al Comando di Divisione.
Il 22 novembre quota 949, che è alla nostra destra, è violentemente attaccata frontalmente dalla 92° ed alle spalle dai partigiani, per cui non è più in mano nostra. I “bisonti” potrebbero passare per l’ampia falla, aggirando tutto il settore. Sono le ore 16 ed il capitano Weintz decide di riprendere la quota prima di notte. Il tenente Reiter comanda il plotone pionieri, io come sergente maggiore sono in testa con due squadre, appoggiato dal fuoco di una mitragliatrice pesante che tiene sotto tiro quota 949. Comportandoci come prescrive il manuale, due squadre ci danno copertura con fuoco intenso mentre avanziamo verso la quota, poi diamo copertura noi, mentre avanzano loro. A cinquanta metri da quota 949, urlando come forsennati, diamo l’assalto finale. Una granata esplode alle mie spalle, sento solo un grande calore al dorso ed alle gambe, mentre tre bersaglieri sono riversi a terra feriti. Facciamo l’ultimo balzo, lanciando le micidiali bombe a mano tedesche sulla postazione, dalla quale non sparano più ed occupiamo quota 949. Il nemico è sparito, troviamo una mitragliatrice, alla quale fuggendo hanno tolto l’otturatore, per terra munizioni, scatolette di latte e di carne vuote, un pacchetto di Camel con tre sigarette. Faccio piazzare le nostre mitragliatrici, due verso Gallicano ed una per coprirci le spalle, sistemo le sentinelle, mando una staffetta dal capitano per riferire che la quota è saldamente in mano nostra e che ci sono dei feriti da soccorrere. Mi sento stanco e mi sdraio per terra, passo una mano nei pantaloni e la ritraggo insanguinata. Lo stress mi ha scatenato nel sangue una massa di endorfine, perché non sento alcun dolore Sono le otto di sera, la linea è tranquilla, i feriti sono stati prelevati e sono in attesa del cambio. Il tenente Reiter ha avvisato il capitano Weintz che anch’io sono ferito. Comincio a sentire bruciore alle gambe e mi sento sempre più debole. Arrivano i barellieri che mi portano via, passando dal comando, dove consegno al capitano la mia pistola. E’ un po’ triste, forse vorrebbe essere al mio posto e salutandomi mi dice: Sei fortunato, per te la guerra è finita. Mi portano in un ospedale da campo nei pressi di
Castelnuovo.
FERITO
L’ospedale è sotto una tenda e dalla barella vedo due chirurghi che stanno finendo di operare un alpino, poi viene il mio turno. Ho varie ferite alle gambe, con ritenzione di schegge. Non sono un caso urgente, mi medicano sommariamente, mi danno un sedativo e mi caricano sull’ambulanza insieme ad un “bisonte” che rivedrò a Berceto. Soffriamo entrambi per i sobbalzi, ma stiamo tornando nel mondo civile e per noi due, comunque vadano le cose, la guerra è veramente finita. Dopo qualche ora arriviamo in un ospedale militare tedesco, situato in un grande parco. Dopo la guerra avrò fatto almeno trenta volte la Cisa, passando sull’autostrada vicino a Berceto e provando dentro di me una sensazione angosciosa nel ricordare le ore passate in quell’ ospedale. Un giorno mi sono deciso, con mia moglie sono uscito dall’autostrada ed a Berceto ho fermato una persona di circa la mia età, nella speranza che mi aiutasse a trovare l’ex ospedale. Ho avuto fortuna, perché mi ero imbattuto proprio nel signor Marchetti, che a quell’epoica aveva 18 anni ed era il figlio del falegname che forniva le casse da morto all’ospedale. Fu gentilissimo, volle accompagnarci fino al parco. Il grande edificio era disabitato e da anni adibito a colonia estiva per i ragazzi. Da sotto un mattone prese la chiave ed entrammo a visitare l’ex ospedale. Sono riuscito ad individuare lo stanzone dove ero stato degente. L’edificio, con l’adiacente chiesa, risaliva al 700 d.C. con Liutprando, re dei Longobardi. Dopo l’8 settembre 1943, il fronte si avvicinò ed i tedeschi lo trasformarono in ospedale. militare. Il signor Marchetti ricordava tutti i particolari, con il parco sempre occupato da ambulanze, con giorni in cui i morti erano talmente numerosi da non trovare posto nella camera mortuaria, per cui erano sistemati per terra nel parco, in attesa di sepoltura. Da quando avevo lasciato Aulla per andare in linea non avevo mai potuto lavarmi. Qui, appena arrivato, mi hanno spidocchiato e messo sotto la doccia, nonostante le ferite, poi in un bel letto pulito. Dal letto parlavo con altri italiani, con feriti tedeschi,
con John, Il bisonte della 92a, con qualche russo dell’armata cosacca del Friuli. Un pomeriggio sento molte voci nel corridoio, si apre la porta ed entra un generale tedesco, è il Feldmaresciallo
Albert Kesselring, seguito da un codazzo di medici ed alti ufficiali tedeschi ed italiani. Fanno un giro per lo stanzone, poi Kesselring si ferma davanti il mio letto, mi stringe la mano e mi consegna una busta, dicendomi:
“Ich gratuliere fuer die Auszeichnung und fuer die Beforderung”. Ricordo come oggi la sua voce ed i suoi occhi azzurri, il suo modo di sorridere. Mi aveva consegnato la medaglia d’argento al valor militare sul campo e la promozione a sottotenente. Kesselring, a mio giudizio, è stato il migliore generale tedesco, un geniale manovratore, sicuramente migliore di Rommel, soprattutto mai crudele ed aveva pure simpatia per gli italiani, nonostante che Vittorio Emanuele, la mattina del 8 settembre, poche ore prima di darsela a gambe con il suo degno compare, rassicurasse ancora Kesselring sulle buone intenzioni del governo Badoglio di restare fedele all’alleanza.
Sarei felice di rivederlo, ma penso che sia ormai morto e con la morte “tutte le fiamme dell’ira” si spengono, come dice un poeta tedesco, in tutto il mondo, esclusa l’Italia naturalmente. Natale era vicino e noi tutti, italiani, tedeschi, americani e russi, aiutavamo le infermiere ad ornare un grande abete. Eravamo tutti piuttosto malinconici, anche le infermiere tedesche soffrivano di nostalgia come noi, in silenzio. Mentre dal mio letto fisso le candeline, cerco di capire perché sono finito in questo letto.
Tutto è iniziato il 10 giugno 1940, quando la gente cominciava ad affluire in piazza Venezia già nelle prime ore del pomeriggio perché Mussolini doveva parlare al popolo italiano. A Milano avevo ben altro da fare, perché da due mesi con Franco Vergani stavamo preparandoci per l’anatomia umana. Il 10 giugno, alle otto del mattino eravamo in via Mangiagalli all’Istituto di Anatomia. Feci per primo l’esame e presi il massimo dei voti, dopo mezz’ora lo fa Vergani e prende soltanto una sufficienza, rovinandogli la media. La reazione di entrambi al dispiacere di Franco si conclude in una solenne sbornia, con la balorda idea di tornare in via Mangiagalli, dove Franco vuole contestare il voto. ll professor Bruni era un buono, non perse la calma, sospese per qualche minuto le interrogazioni, fece arrivare una ambulanza e finimmo ricoverati entrambi al Pronto Soccorso del Policlinico. Arrivò mia madre, angosciata, quasi piangendo: dottore, cos’ha mio figlio ?. Signora, non ha nulla di particolare, ma non vede che è sbronzo ? Mi svegliai lentamente e, guardandomi in giro, chiesi: mamma, che cos è questo casino ? Sssst! mi rispose, Mussolini sta parlando, sta dichiarando guerra alla Francia ed all’Inghilterra. Da una radio in corridoio si sentiva l’urlo della folla che invocava: Guerra !! Guerra !! Naturalmente nessuno aveva chiesto il mio parere, le armate di Hitler stavano dilagando da tutte le parti ed avevano appena terminato una tranquilla passeggiata fino a Parigi, Germania e Russia si erano mangiate metà Polonia a testa e Mussolini temeva questa volta di rimanere a digiuno. Gli servivano cinquemila morti per sedersi, insieme agli altri, al tavolo della pace. Non sono mai stato iscritto al Partito Nazionale Fascista, ma soltanto al GUF, Gruppi Universitari Fascisti ed il nostro segretario aveva firmato una domanda, collettiva per tutti noi, di volontari. Passai i mesi di marzo, aprile e maggio del ‘ 41 in Albania con la Lupi di Toscana, poi fui trasferito in Sanità come studente in medicina.
Dopo Berceto mi portarono con una ambulanza all’ospedale militare tedesco di Cremona dove venni operato nuovamente per prevenire una osteomielite. Dopo questo nuovo intervento la ripresa fu rapida ed entro gennaio mi dissero che ero guarito e pensavo di rientrare nel mio reparto. Per mia fortuna a Cremona entrai nelle grazie di un’infermiera tedesca intelligente e poco nazista che mi mise al corrente che la nave stava affondando e che eravamo vicini al “si salvi chi può”. Mi procurò un maglione, un paio di pantaloni, una piccola scorta di cibo ed una vecchia bicicletta arrugginita. Mi fece uscire dall’ospedale una notte che stava piovendo e nascondendomi di giorno, per evitare i posti di blocco, e pedalando la notte, raggiunsi la zona di Lambrate, alla periferia di Milano, dove abitava zia Gemma ad un piano rialzato. Sapevo dov’era la sua camera da letto e gettai un sassolino sulla tapparella. Si accese una luce, “zia , fammi entrare subito”. Dopo mezz’ora le avevo raccontato tutto, mentre bevevo qualcosa di caldo. Non aveva molto da mangiare, le persone anziane come lei vivevano con quello che passava la tessera annonaria e pativano la fame. Per me non era una novità e ci organizzammo subito in modo che nessuno potesse notare la mia presenza. Per i tedeschi ed i fascisti ero ormai un disertore, per i partigiani un fascista, dovevo solo scegliere da chi farmi fucilare. Zia Gemma, sorella di mia madre, era nata a Makarska sulla costa dalmata, parlava cinque lingue, compreso il russo e non si era mai sposata per restare fedele al ricordo del unico amore della sua vita, un ufficiale austriaco, morto nel 1917 sul Carso. L’ultimo attacco contro i tedeschi ebbe inizio il 9 aprile con centinaia di bombardieri e migliaia di cannoni che scatenarono l’inferno sulle linee tedesche. Kesselring era stato trasferito sul fronte occidentale per tentare una estrema difesa, il nuovo comandante tedesco von Vietinghoff, senza prendere in alcuna considerazione gli ordini di Hitler, aveva ritirato tutte le sue truppe oltre il Po, che molti soldati tedeschi avevano passato a nuoto. Le truppe alleate il 25 aprile erano arrivate a Mantova ed a Brescia, Mussolini era stato catturato dai partigiani ed era finito in piazzale Loreto insieme a Claretta Petacci e ad altri fascisti uccisi dai partigiani. Una donna si alzò le gonne ed urinò sul cadavere di Claretta, tra le risate della gente. Quelli stessi che avevano gridato “ Guerra Guerra ”, infierivano ora sul cadavere di Mussolini, non perché aveva inventato il fascismo e comandato l’Italia per venti anni, ma soltanto perché li aveva delusi, non aveva saputo vincere e la colpa della sconfitta era sicuramente sua. Sentivo la gente in strada ridere e sghignazzare, ero stanco di avere paura ed uscii anch’io insieme alla zia. Un uomo, sfiorandoci di corsa, ci disse ridendo di correre in piazzale Loreto perché era arrivato il Duce. Dal portone di fronte al nostro uscì un conoscente che sapeva tutto di me, era un imboscato che in questa guerra non aveva mai mosso un dito ed ora aveva intorno al collo un bel fazzoletto rosso e stringeva tra le mani un vecchio fucile. Mi vide, lo fissai deliberatamente e restò, per un attimo, interdetto, poi il “partigiano” corse anche lui verso piazzale Loreto. Imbecille, gli disse forte zia Gemma, con la sua voce tagliente. Ormai avevamo capito cosa era successo, tornammo a casa e ci sedemmo in cucina piangendo. Il generale Crittenberger, quello dei “bisonti”, era alle porte di Milano ed iniziò ad occupare la città. Per prima cosa, inorridito, fece cessare lo scempio dei cadaveri, ma le fotografie di Benito Mussolini e di Claretta Petacci, appesi per i piedi in piazzale Loreto, avevano già fatto il giro del mondo.
The 370th RCT (92nd Buffalo Division), attached to the 1st Armored Division, arrived in Naples, Italy, 1 August 1944 and entered combat on the 24th. It participated in the crossing of the Arno River, the occupation of Lucca and the pentration of the Gothic Line. Enemy resistance was negligible in its area. As Task Force 92, elements of the 92nd attacked on the Ligurian coastal flank toward Massa, 5 October. By the 12th, the slight gains achieved were lost to counterattacks. On 13 October, the remainder of the Division concentrated for patrol activities. Elements of the 92nd moved to the Serchio sector, 3 November 1944, and advanced in the Serchio River
(fiume) Valley against light resistance, but the attempt to capture Castelnuovo did not succeed. Patrol activities continued until 26 December when the enemy attacked, forcing units of the 92nd to withdraw. The attack ended on 28 December. Aside from patrols and reconnaissance, units of the 92nd attacked in the Serchio sector, 5-8 February 1945, but enemy counterattacks nullified Division advances. On 1 April, the 370th Regiment and
the attached
442d Infantry Regiment (Nisei-giapponesi) attacked in the Ligurian coastal sector and drove rapidly north against light opposition. The 370th took over the Serchio sector and pursued a retreating enemy from 18 April until the collapse of enemy forces, 29 April 1945. Elements of the 92nd Division entered La Spezia and Genoa on the 27th and took over selected towns along the Ligurian coast until the enemy surrendered, 2 May 1945.
Origin: the Ninety-second Division, organized in October 1917 at Camp Funston, Kansas, was formed of African American soldiers from all states. Before leaving for France in 1918, the Ninety-second was divided among several camps with Dodge, Dix, and Meade containing the largest units. The buffalo was selected as the divisional insignia because it is said the Indians referred to
Afro American soldiers
(neri) as "buffalo soldier." The nickname Buffalo Division was inherited from the 367th Infantry, one of the first units of the division organized. Nell’Italia senza legge del dopoguerra c’era posto anche per loro, i soldati americani disertori che nella Pineta di Tombolo (ora sede della base americana di Camp Darby-Livorno) avevano installato la Repubblica franca del contrabbando e della prostituzione. Molti erano della Divisione Nera Buffalo e nel Sud degli Usa, il profondo sud del razzismo, non volevano ritornare. S'internarono nella pineta tra Pisa e Livorno, scavando rifugi comunicanti per mezzo di gallerie sotterranee, dedicandosi al mercato nero e ad altri reati. Il neorealismo gli regalò anche un film "Tombolo paradiso nero" scritto da Indro Montanelli regia di Giorgio Ferroni (1947). Interprete principale di questa terra selvaggia, popolata di gangster e sbandati, dove tutti potevano perdere l' anima o la vita Aldo Fabrizi. Anche un altro regista, Alberto Lattuada, sceneggiatori Tullio Pinelli e Federico Fellini, girò in questa ambientazione nel 1948 "Senza pietà". |
92a divisione - la "nera" Usa
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