Il diario di
MILOST DELLA GRAZIA
1a PARTE 1940/1943
Questi brani sono tratti dalle memorie del Prof. Edwin Milost della Grazia pubblicate da http://www.melegnano.net/memorie/memorie004.htm . Per la lunghezza del testo possiamo citare solo alcuni brani significativi delle sue memorie. Il testo integrale, con le altre opere, è visibile al sito (per concessione del webmaster@melegnano.net Ettore Rossoni ).
DIARIO DI GRECIA
Nel 1940, all’inizio della seconda guerra mondiale, la mia Divisione (Lupi di Toscana), dislocata in Piemonte, nell’ultima decade di dicembre è trasferita in Albania e prende posizione nella zona di Berat a sbarramento della rotabile del Klisura e della Valle dell’Osum. L’8 gennaio 1941 le varie unità della divisione vengono impegnate in un duro attacco contro le posizioni tenute dai Greci … ma in serata le due cime di Corap e Tabajani sono in mano al 78°. Il 15 gennaio i greci contrattaccano ed in serata hanno rioccupato le posizioni, costringendo la divisione Lupi a ripiegare tra Conca di Caizza e Costoni di Dras. La pressione dei greci nei giorni successivi non diminuisce ed il 17 gennaio parte del reggimento risulta accerchiato ed annientato. I resti della divisione, che ha subito forti perdite, il 26 gennaio riesce a sganciarsi, ripiegando verso Karbunara. Ricordo come oggi il giorno della mia partenza da Bergamo (fine febbraio). Il battaglione era sfilato, con la fanfara in testa, per le vie della città fino alla stazione, dove ci aspettava la tradotta…..Soprappensiero seguivo il ritmo della marcia, la destinazione era ignota, per quanto fossimo tutti persuasi di finire in Albania a giudicare dalle mutande lunghe di lana verde che avevano distribuito. L’anziano comandante della caserma aveva avuto il buon gusto di non fare discorsi e stava ritto sull’attenti, con la mano destra alla visiera, mentre uscivamo incolonnati, forse stava chiedendosi quanti di noi sarebbero tornati, perché in Albania la guerra stava ingoiando molti battaglioni di giovani come noi.
A Valona ci stava aspettando una colonna di autocarri e dopo circa settanta chilometri arrivammo in vista del Golico sulla nostra destra, alla periferia di Tepeleni, lungo la Vojussa, una specie di Piave del 1917. Nessuno ci aveva informati su come andavano le cose al fronte, solo da “radio fante” avevamo saputo che Coriza era caduta in mano ai Greci, ma dove era Coriza, che importanza aveva per noi la sua caduta ? avevamo saputo che la divisione Julia era stata decimata nei pressi del ponte di Perati e avevamo sentito cantare “Sul ponte di Perati bandiera nera, il meglio della gioventù va sotterra”. Ai primi di marzo il nostro 78° Lupi di Toscana era attestato nel settore Mali Beshitit – Monte Golico, a cavaliere della Vojussa, prime basse falde del monte Golico, respingendo ripetuti tentativi dei Greci ed ai primi di aprile avanzammo di qualche chilometro, occupando due piccole località, Mezgorani e Pesclani, ma ormai la più inutile di tutte le guerre finì. Io Ero giunto in Albania con i rincalzi alla fine di febbraio ed alla fine di marzo del 1941 un decreto ordinava di rimpatriare e passare in Sanità tutti i laureandi in medicina e chirurgia, per cui ho preso parte soltanto ai combattimenti nella zona di Dragoti e prime falde del Golico, a cavallo della Voiussa.
8 SETTEMBRE 1943
L’8 settembre ’43 la LUPI si trovava in trasferimento dalla Francia verso Roma e si sciolse come neve al sole. (la guerra al Nord continua e lui in Sanità è ancora vincolato agli obblighi militari).
Scelsi il Distretto Militare di Vercelli, dove ero già stato al rientro dall’Albania. Benchè studente in medicina mi arruolarono subito nel 27° Battaglione Fiamme Cremisi il quale, secondo loro, era in partenza per Salerno, dove il 9 settembre era sbarcato un contingente della 5° armata americana. Già fante del 78° reggimento Lupi di Toscana, poi passato in Sanità come studente in medicina, ora bersagliere, mi andava bene concludere la mia carriera militare a Salerno, combattendo contro gli americani. Un reduce dal Don mi donò il suo piumetto: “A me ha portato fortuna e sono tornato, ora portalo tu”. Salimmo sulla tradotta, circa una ventina per ogni carro merci, con divisa e scarpe nuove, acqua e viveri in abbondanza e per terra molta paglia. La tradotta viaggiava speditamente ed il ritmico tam tam delle ruote ci conciliava il sonno. Quando mi svegliai, eravamo fermi con la porta bloccata dall’esterno. Una tenue luce filtrava attraverso le griglie dei finestrini. Sentì suonare una sirena e poi il lontano ronzio delle fortezze volanti che si stavano allontanando. Non capivo dove eravamo, a Roma o a Napoli? Quando aprirono la portiera, entrò aria fresca e scomparve il tanfo che ci impregnava. Ormai era giorno, guardai il panorama, prati e boschi, montagne che nulla avevano a che vedere con gli Appennini. La tradotta era circondata da militari tedeschi. Un ufficiale italiano mi spiegò che eravamo in Germania, nei pressi di Ulm. Alla fermata successiva di Münsingen ci fecero scendere, dividendoci in vari gruppi. Comincia a nevicare e con il gruppo del 27 ° Bersaglieri mi misi in cammino verso la nostra destinazione definitiva, il “lager” di Feldstetten, paesino di montagna del Wurttemberg, a 1500 metri d’altezza. Da Münsingen a Feldstetten sono 17 chilometri, tutti in salita, con le scarpe che affondano nella neve sempre più alta. Siamo affamati ed infreddoliti, con le orecchie e le mani gelate. Vado avanti e indietro e cerco di aiutare alcuni soldati che non resistono alla fatica e vogliono buttarsi a terra nella neve, rinunciando a lottare. Morire a Salerno, combattendo, era una scelta ben precisa, morire congelati al bordo di una strada, era molto stupido A forza di incoraggiamenti, di insulti e minacce, verso mezzanotte raggiungiamo il lager di Feldstetten, chiamata la piccola Siberia. L’accoglienza è buona, con cibo e bevande calde a volontà. Ci assegnano poi alcune baracche, tutte in legno, una baracca ogni 24 persone. Tutte sollevate tre gradini dal terreno, con brande a castello a tre posti, tre tavoli rettangolari, sgabelli ed una grande stufa a legna in mezzo allo stanzone, per riscaldarci ed asciugare i nostri abiti fradici. I servizi sono naturalmente tutti all’esterno. Ha inizio l’anno più duro della mia vita, ma, devo ammetterlo, anche il più sano, perché alla fine ero tutto muscoli, con scarsissimo pannicolo adiposo e digerivo anche i sassi. Avevamo una fame cronica, ma evidentemente i tedeschi avevano studiato una dieta perfetta per un giovane adulto che lavorava dieci ore al giorno in un clima invernale. Era costituita da 800 grammi di una zuppa, da noi chiamata “pappina”, piuttosto densa, penso a base di avena o segala, da dividere in due pasti, più una pagnotta di circa un chilogrammo al giorno per sei persone. Una volta alla settimana ci davano 50 grammi di un grasso bianco giallastro da spalmare sul pane. La birra era libera, ma assolutamente analcolica. Dopo una settimana fummo convocati a piccoli gruppi da una specie di commissione di ufficiali tedeschi ed italiani ed il succo del loro ragionamento era molto semplice. La “partenza per Salerno” era stata espediente per portarci in Germania.
Avevamo chiesto di andare a combattere, senza alcun addestramento, contro l’esercito più preparato e meglio armato del mondo. Era una scelta insensata, voleva dire buttare via la nostra vita, senza portare alcun giovamento alla nostra causa. In Germania si stavano costituendo 4 divisioni dell’esercito regolare di un nuovo stato. Potevamo scegliere tra il campo di lavoro in Germania e l’adesione alla
divisione alpina
Monterosa, che dopo un periodo di addestramento, sarebbe tornata in Italia ed inviata al fronte contro gli alleati. Scelsi di aderire a questa divisione, formata con le reclute del 1924 e del 1925 e con noi sottufficiali ed ufficiali: tre reggimenti, due di alpini ed uno d’artiglieria alpina. Secondo la tradizione tedesca
ogni divisione alpina aveva un Gruppo
Esplorante, molto mobile e dipendente direttamente dal Comando della Divisione,
in genere formato dalla cavalleria, nel nostro caso dal 27° Battaglione Bersaglieri,
con il quale ero partito da Vercelli Il Gruppo Esplorante, era formato da tre Squadroni, due leggeri ed uno pesante che aveva due plotoni, uno anticarro ed uno pionieri, al quale fui assegnato. L’inizio dell’addestramento fu molto duro, molto simile a quello visto in “Full Metal Jacket” di Kubrick e durò due mesi. Ginnastica, marce forzate, uso delle armi ed il famigerato “ a terra “ ed “ in piedi”, esercizio utilissimo, in quanto insegna a buttarsi a terra il più velocemente possibile, naturalmente con il fucile in mano, senza lasciarlo cadere e soprattutto senza farsi male. La manovra, fondamentale per sopravvivere, non veniva eseguita solo sulla morbida erbetta, ma anche sui sassi e nel fango. Ripetere l’esercizio 5-10 volte di seguito era la punizione abituale, quando l’istruttore ci giudicava troppo lenti o svogliati. A questo addestramento dovevano partecipare ugualmente i soldati, i sottufficiali e gli ufficiali. Dopo due mesi infernali iniziò l’addestramento specifico, diverso per ogni plotone…. Il 16 luglio, prima della partenza per l’Italia, Mussolini passò in rivista a Münsingen la divisione e consegnò ad ogni reggimento la bandiera di combattimento. Ero in prima fila e Mussolini mi passò lentamente davanti, a meno di un metro di distanza. Guardava attentamente il volto di noi in prima fila e la tristezza di quel volto stanco mi diceva che aveva capito che eravamo ormai arrivati al capolinea. Il nostro sguardo per una frazione di secondo si incontrò ed avrei voluto trasmettergli il mio pensiero. Sono qui, non ti ho mai tradito, cerchiamo ora almeno di finire in bellezza. Peccato che non l’abbia fatto, forse la storia sarebbe stata più generosa con noi. La notte stessa tutta la Divisione Alpina Monterosa iniziò il rientro in Italia.